Chapter Text
Prologo
Quel giorno il cielo su Gotham era grigio, tanto per cambiare, e Jim Gordon sentiva nelle narici l’odore pungente tipico del porto, dell’acqua salmastra, del pesce appena pescato e dell’inquinamento che non risparmiava nemmeno quella zona della città.
Ne aveva fatte di scelte sbagliate, nella sua vita, ma non era il momento più adatto per far perdere lo sguardo oltre l’orizzonte e ripensarci.
Aveva voluto portare la legge a Gotham, ma non era riuscito a cambiare davvero le cose nemmeno con Valeska e Nygma ad Arkham, e con Pinguino a Blackgate. Gli altri pazzi criminali avevano continuato a seminare il caos per le strade della città, insieme agli occasionali ma immancabili serial killer, per tutti i dieci anni in cui Jim era stato commissario della GCPD.
Aveva fallito sul lavoro come nella vita privata, dato che alla fine Lee se n’era andata da Gotham lasciandosi alle spalle un Edward Nygma ferito e pronto a sfogarsi sulla città, e abbandonando a sé stessa la zona di Narrows, che un tempo aveva desiderato salvare dal suo squallore.
Per non parlare di come lo aveva trattato Barbara, quando Gotham era rimasta isolata dal continente, comportandosi a tratti in modo collaborativo, a tratti manipolatorio, e tentando infine di tornare con lui, dopo tutte le sue malefatte degli anni precedenti.
Ma Jim non aveva ceduto, e ormai era tanto tempo che non ripensava alle sue ex storiche. Dopo loro aveva avuto qualche breve relazione, ma si era più che altro concentrato sul lavoro, che non gli aveva dato tregua né pace nemmeno quando rimaneva da solo, tra le mura domestiche.
Ora, al suo posto un altro avrebbe pensato alla pensione, ma perché lui avrebbe dovuto farlo? Jim non aveva qualcuno che lo aspettava a casa, né altri piani per la sua vita se non quello di fermare il caos che ancora affliggeva la città.
In quel periodo, poi, c’era un nuovo vigilante in giro, il che non era necessariamente positivo. Significava che un altro montato si aggirava per Gotham, di notte, a fare chissà che cosa. Inoltre qualcuno minacciava di far esplodere la Wayne Tower… Insomma, il commissario Jim Gordon aveva tanto a cui pensare, ed era certo che sarebbe stato così ancora per un bel po’ di tempo.
…se non fosse che Pinguino, appena uscito da Blackgate, aveva deciso di aggredirlo e portarlo al molo dove - in un certo senso - tutto era iniziato, minacciando di ucciderlo per averlo fatto incarcerare dieci anni prima.
Anzi, la sua non era stata una minaccia. A Jim era stato chiaro, guardandolo nei suoi occhi uno diverso dall’altro, che non ci sarebbe stata alcuna possibilità per lui, questa volta. Non c’era appello che avrebbe potuto fargli cambiare idea, malgrado i loro trascorsi. Malgrado lui fosse stato rinchiuso a Blackgate per dei crimini che aveva effettivamente commesso, quindi il suo periodo di reclusione fosse stato solo la naturale conseguenza delle sue azioni.
Jim provò comunque a farlo ragionare, ma le sue parole non sembravano arrivare affatto al criminale, troppo arrabbiato per cambiare idea. Sapeva che, per quanto fosse intelligente e calcolatore, spesso erano i sentimenti ad avere la meglio su di lui. Doveva aver accumulato rabbia in tutti quegli anni e atteso con pazienza un’occasione per vendicarsi...
E in quel momento, solo in quel momento, Jim aveva avuto la conferma che di scelte sbagliate, da quando era arrivato a Gotham, ne aveva fatte moltissime, ancor più di quante aveva creduto, perché evidentemente i suoi metodi non funzionavano lì, perché era chiaro che i criminali locali fossero di tutt’altro livello. E in effetti, questo lui lo aveva scoperto molto presto.
Quindi, alla fine, Jim Gordon aveva fallito… e solo per via dei suoi errori si trovava su quel molo adesso, con Pinguino pronto a ucciderlo da un momento all’altro. E il commissario comprese di non aver niente per cui lottare, se non la sua ferma intenzione di cambiare la città… che col tempo si era fatta sempre meno ferma, e che in quei giorni non lo era più.
Jim non si era comunque arreso all’idea che le cose potessero cambiare, ma aveva lentamente preso coscienza del fatto di aver fallito.
Perciò comprese la situazione e accettò il suo destino… ma non prima di aver pensato che, potendo tornare indietro, non avrebbe più compiuto le stesse scelte di un tempo, che lo avevano condotto a quel momento.
Chiuse gli occhi, arrendendosi definitivamente. Lo sparo risuonò nelle sue orecchie e lo stordì, ma il dolore non arrivò mai.
Quando riaprì gli occhi, si accorse che era buio intorno a lui. Batté le palpebre più volte, confuso. Si trovava ancora al molo, lo capì prima di tutto dall’odore, ma improvvisamente si era fatta notte. Un altro odore, più pungente, gli invase le narici, ovvero quello di un colpo appena esploso, il che non era strano considerando ciò che gli era appena successo.
Si sorprese invece nell’accorgersi che era lui a tenere in mano una pistola fumante. Solo dopo averla notata mise a fuoco ciò che aveva davanti, ovvero il corpo senza vita di Theo Galavan, e ne rimase sconcertato.
Oswald lo aveva picchiato senza pietà con una mazza da baseball, prendendosi il suo tempo, ma poi era stato Jim a finirlo con un unico colpo di pistola. Così erano andate le cose, lui se ne ricordava bene benché si trattasse di un evento risalente a più di dieci anni prima… Perciò, perché lo stava rivivendo?
Quella sensazione di confusione non lo abbandonò, anzi si fece più intensa quando Oswald comparve nel suo campo visivo, per posizionarsi accanto a lui.
Era una versione più giovane di Pinguino, che sfoggiava un’espressione serena e soddisfatta quasi fosse stato lui stesso a sparare a Theo Galavan, colui che aveva fatto rapire e uccidere sua madre.
Qualche secondo dopo, sotto lo sguardo attento di Jim - che allora lo aveva lasciato finire come preferiva - Oswald si avvicinò di più al cadavere per poter spingere un ombrello giù per la sua gola. Lo fece mantenendo invariata la sua espressione, in una calma brutalità che non faceva trasparire né rabbia, né odio, né fretta, né altro, come se si trattasse di un’azione quotidiana, normale per lui.
E Jim, davanti a quella scena che lo turbava più di quanto avrebbe mai ammesso, si domandò perché la stesse rivivendo.
Era morto, e poi? Quello era forse l’inferno, e una divinità che ce l’aveva con lui intendeva mostrargli tutti i suoi sbagli? Tutte le azioni malevole di cui aveva macchiato la sua anima?
Poi cosa avrebbe visto, il modo in cui non era riuscito a impedire il suicidio di suo zio? O il momento in cui aveva sparato a Mario Calvi? C’era, in effetti, l’imbarazzo della scelta. Quindi Jim rimase immobile, in quanto spettatore esterno alle vicende, e attese.
Ma, per sua sorpresa, non accadde nulla. Rimase a guardare Pinguino che completava la sua macabra opera, mentre l’aria fredda della sera gli sferzava il viso. Mentre le luci dei fanali della sua auto, nel buio profondo del molo, quasi gli facevano male agli occhi.
Mentre quella pistola, ancora calda nella sua mano destra, era solida, concreta, a dimostrare che lui si trovava davvero lì e che aveva appena ucciso Galavan.
Non era un’illusione. Non era un gioco mentale. Non era un ricordo. Era reale.
Ne ebbe ulteriore conferma quando Oswald alzò lo sguardo su di lui, incontrando i suoi occhi e accennando un sorriso soddisfatto e, in qualche modo, innocente. Era qualcosa che non era mai successo dato che allora Jim - se lo ricordava bene - se ne era andato dopo aver sparato, avendo considerato chiusa la questione e non volendo sapere cosa avrebbe fatto il criminale da quel momento in poi.
“Ti ho sorpreso, Jim?” gli chiese Oswald, con tutta la tranquillità del mondo. “Dopo ciò che aveva fatto, questo mi sembrava il minimo. Anche se tecnicamente non sono stato io a ucciderlo, ci tenevo a lasciare una sorta di firma,” dichiarò, e lui si ritrovò a osservarlo in silenzio, come se quelle parole non lo avessero raggiunto affatto.
Oswald Cobblepot, anzi una versione più vecchia di lui, lo avrebbe ucciso su quello stesso molo. Tempo poco più di dieci anni e sarebbe successo… Era qualcosa che Jim aveva appena vissuto. Per questo, ritrovarselo davanti e capire che non si trattava di un sogno lo aveva spiazzato.
E se quello era il passato, se davvero Jim Gordon era tornato indietro, con la possibilità di cambiare le cose, allora avrebbe potuto agire subito. Gli sarebbe bastato sollevare di nuovo la pistola, puntarla su di lui, sparare e accettare le conseguenze. Alla fine la città lo avrebbe ringraziato. Alla fine, oltre a risparmiarsi una morte prematura, avrebbe tolto dalle strade un pericoloso criminale.
Quindi strinse l’arma… ma non la sollevò affatto. Continuò a guardarlo e basta.
L’Oswald che aveva davanti adesso era molto diverso da quello che gli aveva appena sparato. Era diverso anche da quello che aveva conosciuto al suo arrivo a Gotham, e che era apparso debole ai suoi occhi. Quello che, malgrado sembrasse impossibile, era riuscito a prendere il controllo della città in poco tempo, grazie al suo sistema di licenze. E da lì le cose non avevano fatto altro che degenerare.
Ma l’Oswald di adesso, che osservava Jim in attesa di una sua risposta… No, non era lui. O almeno, non lo era ancora.
Avevano appena ucciso un uomo insieme, e Jim teneva ancora la pistola in mano, ma Oswald non dimostrava il minimo timore che il detective potesse rivolgerla contro di lui. Era, all’apparenza, disarmato, oltre che sereno come Jim non lo vedeva da molto tempo. E Jim non poteva, in cuor suo, puntare un’arma contro una persona disarmata. Contro qualcuno che, sì, in futuro avrebbe minacciato la sua vita, ma che non era ancora diventato quel tipo di persona.
Così alla fine si ritrovò ad annuire al boss della malavita, che era rimasto a guardarlo con una confusione crescente sul viso, e quella fu l’unica risposta che gli diede prima di andarsene.
Capitolo 1
Il periodo che seguì, per Jim fu come un brutto sogno.
Tutto si stava ripetendo esattamente come era stato ai tempi, secondo i suoi ricordi. Questa volta, però, lui non rimise in sesto il suo rapporto con Lee, sapendo che con lei le cose non avrebbero funzionato… Anche se rivederla, doveva ammetterlo, gli aveva fatto comunque un certo effetto.
Era da dieci anni che non la vedeva. Inoltre, Lee non aveva ancora affrontato il cambiamento che un tempo l’aveva resa una donna completamente diversa da quella che lui aveva amato. E forse, se Jim si fosse allontanato subito, lasciandola libera, non sarebbe mai diventata così. Forse avrebbero potuto mantenere un buon rapporto, come colleghi o amici persino, anche se l’idea ancora lo straniva. Magari almeno lei sarebbe riuscita ad avere una vita normale, senza Jim a rovinargliela.
E, dopotutto, Jim non l’amava più da tanto tempo.
In quei giorni dovette insistere con Barnes dicendogli che non aveva ucciso lui Galavan, pur sapendo che il capitano non gli avrebbe mai creduto fino in fondo.
Nathaniel Barnes… fu davvero strano rivederlo, accettare che fosse nuovamente un suo superiore e sapere cosa sarebbe diventato. Per lo stesso motivo fu strano rivedere anche Harvey Dent, ma lui non era un pensiero urgente dato che il suo cambiamento sarebbe avvenuto solo diversi anni dopo.
In ogni caso, sembrava che il destino avesse dato a Jim una seconda possibilità.
Era tornato indietro nel tempo, per qualche motivo, e anche se aveva vissuto quei primi giorni come se fossero una specie di strambo viaggio onirico progettato per punirlo, gli fu sempre più chiaro che fosse tutto reale.
Gli eventi si stavano ripetendo proprio come li ricordava, il che suggeriva che nemmeno la vita condotta fino a quel momento era stata un lungo sogno, o un’illusione di qualche tipo. No, aveva vissuto ed era morto per poi tornare indietro, chissà come.
Ma perché era tornato proprio a quel momento?
Non aveva potuto impedire la morte di Galavan, cambiando idea sul suo conto prima che fosse troppo tardi, per consegnarlo alla giustizia... Invece si era trovato proprio insieme a Oswald, e su quello stesso molo, il che era assurdo.
Perché, allora, non farlo tornare indietro fino al giorno in cui era stata la sua, di vita, a essere in gioco, ovvero quando a Jim era stato ordinato di ucciderlo? Ma anche se fosse successo, avrebbe premuto il grilletto adesso, condannandolo una volta per tutte, così da assicurarsi che le loro posizioni non si sarebbero invertite nel giro di tredici anni?
No, Jim non lo avrebbe fatto, e non per evitare le conseguenze immediate che avrebbe avuto la sua morte. Jim, semplicemente, non era fatto così. Per lo stesso motivo, pur avendo considerato di ucciderlo quando si era accorto di essere con lui su quel molo, con Galavan appena morto, non aveva mosso un muscolo per farlo.
In ogni caso, seguì il copione della sua vita in base a come se lo ricordava, e in base a come gli si presentarono gli eventi, consapevole che presto Pinguino sarebbe stato trovato, arrestato e mandato ad Arkham. Arkham… dove lo avrebbero torturato, a detta sua, e per un crimine che aveva commesso Jim.
Arkham, dove avvenivano esperimenti sugli esseri umani, perché Jim sapeva anche questo adesso.
Il pensiero era amaro, ma lui si aspettava che succedesse esattamente lo stesso. Si fece ancora più amaro con il passare del tempo, mentre cercava di concentrarsi sul nuovo caso che era stato assegnato a lui e ad Harvey. Un vecchio caso, in realtà, che sapeva già come risolvere.
Freeze. Jim sapeva che c’era lui dietro al cadavere della poliziotta congelata che avevano trovato. Lui era un altro dei criminali che avrebbero terrorizzato Gotham per molto tempo, il che gli fece avvertire finalmente la spinta ad agire per cambiare qualcosa.
Prese lui le redini del caso, lasciando confuso Harvey che lo seguì comunque.
Quello stesso giorno Pinguino venne arrestato. La sua testimonianza combaciò con quella di Jim, perciò Barnes si convinse finalmente e ordinò il suo immediato trasferimento ad Arkham.
Jim ignorò il senso di colpa per come erano andate le cose. Lo aveva già fatto in passato, dopotutto. Quindi, pur avendo la consapevolezza che Oswald sarebbe stato torturato nell’ospedale psichiatrico, sapeva anche che sarebbe sopravvissuto, perciò anche lui - come Dent, come Valeska e come Tetch - sarebbe stato un problema per il futuro.
Freeze invece era un problema imminente, da risolvere al più presto.
La comparsa di Freeze rappresentava molti più problemi di qualche cadavere congelato, Jim lo sapeva bene, il che lo obbligò a porsi delle domande su come procedere. Decise però che avrebbe pensato a una cosa per volta.
Il detective - anche se era strano ritrovarsi di nuovo con quel ruolo, dato che aveva alle spalle una carriera da commissario - condusse le indagini nella direzione che voleva, il che restrinse i tempi in modo decisivo. Lui e il suo partner trovarono così Victor Fries, che lottò per non farsi prendere, ma alla fine i suoi sforzi furono vani.
Il Freeze con cui aveva avuto a che fare Jim, nel futuro che aveva deciso di riscrivere, era più spietato e le sue armi erano più avanzate. Il Victor Fries di adesso non era ancora così, perciò Jim riuscì a prenderlo alla sprovvista e questo bastò per poterlo arrestare. Il che lasciò Harvey ancora più confuso.
La moglie di Fries sembrò straziata dalla scoperta dei suoi crimini, ma Jim non si pentì di averlo fermato, perché forse così lei avrebbe vissuto un po’ più a lungo rispetto a come era stato ai tempi. Inoltre, in questo modo anche suo marito non era morto.
“Jim, mi spieghi cosa diavolo sta succedendo?” gli chiese Harvey, qualche sera dopo, quando uscirono a bere alla fine di un turno. “È dalla morte di Galavan che sei strano.”
Harvey era rimasto l’unico punto fermo nella sua vita sin da quando Jim era arrivato a Gotham. Era il suo migliore amico, anche se il loro rapporto aveva avuto degli alti e dei bassi. Dei bassi molto profondi e a volte apparentemente senza ritorno, eppure erano sempre tornati uniti come prima, anche perché il caos che imperversava in città aveva richiesto che lo fossero.
Anche se per un periodo non erano più stati partner, perché Harvey era diventato capitano e poi il ruolo era passato a Jim, e non in modo pacifico, avevano sempre potuto contare l’uno sull’altro, alla fine. Avevano persino combattuto una guerra, fianco a fianco, quando tutto sembrava perduto, ed erano sopravvissuti.
Certo, in questa realtà non era ancora successo e Jim sperava fortemente che non si arrivasse a tanto. Che la sua esperienza potesse, in qualche modo, evitare ciò che ai tempi era stato inevitabile.
“Se te lo dicessi mi prenderesti per pazzo,” rispose con finta nonchalance, rigirandosi in mano il boccale di birra mezzo vuoto.
“Mettimi alla prova. Sapevi di Fries ancor prima che avessimo una vera pista su di lui… e non può essere stato Cobblepot a farti una soffiata, dato che si trova dietro le sbarre.”
Come dimenticare il tempo in cui Jim si era rivolto a Oswald per risolvere i casi più ostici? Eppure aveva lavorato per dieci anni senza il suo aiuto, e con i suoi ricordi avrebbe fatto tranquillamente a meno di lui, adesso.
Anche se, doveva ammetterlo, poter consultare i fascicoli dei casi di un tempo sarebbe stato utile, invece doveva fare affidamento solo sulla propria memoria.
Quanto al suo migliore amico, decise di stare al gioco. Provare a dirgli la verità e, nel caso, ritrattare dichiarando che fosse solo uno scherzo.
Decise così perché conoscere il futuro e non sapere ancora come cambiarlo lo faceva sentire frustrato. In quei giorni, aveva scritto pagine e pagine di appunti su come ricordava sarebbero andate le cose, per assicurarsi di non aver scordato niente di importante, e per tentare di analizzare le scelte che aveva compiuto la prima volta. Però, suo malgrado, non ricordava tutto quanto, né l’ordine preciso di alcuni eventi, e altri non sapeva perché si fossero verificati.
Eppure intendeva provare a cambiare davvero le cose. Doveva farlo, adesso che aveva finalmente l’opportunità di portare la pace in città. Credeva che fosse per questo che il destino lo aveva rimandato indietro.
In questa sua intenzione, e con le conoscenze a sua disposizione, ciò che gli mancava era un partner, una persona con cui ragionare per poter ottenere degli esiti diversi, questa volta. Degli esiti migliori. Non sarebbe stata un’impresa facile… Ma niente lo sarebbe stato, ne era certo.
“So già cosa succederà da qui a circa tredici anni, perché l’ho già vissuto,” ammise, con leggerezza, e vide il suo migliore amico sollevare le sopracciglia. “Ti avevo avvisato.”
“Un attimo, in che senso lo hai già vissuto?”
“Nel senso che sono morto e poi mi sono ritrovato indietro nel tempo, alla sera in cui Galavan è stato ucciso,” rispose, decidendo di provare a trattare la questione con la dovuta serietà.
“Mi stai prendendo per il culo,” ribatté Harvey, accennando un sorriso. “E sentiamo, chi ti avrebbe ucciso?”
Jim attese un istante prima di rispondere, incerto su quanto rivelare.
“Oswald,” disse poi, dopo essersi assicurato che nessun altro nel locale potesse sentirli. “Mi ha sparato al molo, come io avrei dovuto fare con lui.”
Il suo amico lo scrutò a lungo, improvvisamente serio.
“Una versione di lui più vecchia, con più rabbia e con un occhio di vetro,” continuò.
“Questo sì che è qualcosa che vorrei proprio vedere,” commentò il suo amico, e dal suo tono di voce Jim comprese che non gli credeva affatto.
Ma, in fondo, si disse che era meglio così. Jim non aveva mai riflettuto su cosa rivelare e cosa no, nel caso avesse deciso di parlarne con qualcuno. Questo non solo per non essere preso per pazzo, ma anche per evitare di correre rischi stupidi. Finalmente conosceva le prossime mosse dei criminali locali e non voleva che il suo vantaggio andasse in fumo.
Inoltre, riteneva normale che Harvey non gli credesse. Ciò che gli era capitato era troppo assurdo per essere accettato, tanto che lui stesso ne era stato disorientato per giorni.
“Vivrai abbastanza a lungo da vederlo. Comunque stavo scherzando, con Fries ho solo avuto un’intuizione,” dichiarò, e sollevò il boccale per bere la birra rimasta al suo interno.
Anche se smisero di parlarne, una volta tornato a casa e sdraiato nel suo letto Jim non poté che ripensare a ciò che aveva già vissuto, e che stava per abbattersi sulla città.
I mostri di Strange, la Corte dei Gufi, l’Enigmista, Tetch, Barnes, Valeska, i ponti distrutti, la guerra tra le strade di Gotham e tutto il resto. Infine, Oswald Cobblepot che usciva da Blackgate con l'intenzione di ucciderlo.
Sospirò. Da qualche giorno ormai evitava di pensarci a fondo, per concentrarsi invece su questioni più urgenti come la cattura di Freeze, e perché era consapevole che presto altri avrebbero creato problemi, ma probabilmente avrebbe dovuto ragionare sin da subito per capire come gestire Oswald.
Innanzitutto, lui si trovava ad Arkham per un crimine che non aveva commesso, il che ancora una volta provocava a Jim dei sensi di colpa, per quanto si trattasse dell’uomo che in futuro lo avrebbe ucciso.
Ma l’Oswald che gli aveva sparato quel giorno, al molo, era diventato ciò che era dopo aver affrontato diversi momenti di crisi dai quali era uscito sempre più distrutto e pazzo. Se ripensava alle due versioni di lui incontrate più di recente, ovvero prima del salto temporale e subito dopo, per Jim era chiaro che fosse cambiato completamente.
Forse lui aveva il potere di evitare che succedesse. Forse solo così avrebbe potuto avere salva la vita, e avrebbe avuto un pazzo criminale in meno per le strade di Gotham, senza commettere un omicidio a sangue freddo.
Dopotutto tentare di ucciderlo sarebbe stato potenzialmente inutile, conoscendolo. Inoltre adesso era dietro le sbarre, anche se non ci sarebbe rimasto a lungo.
Quindi decise che doveva provare a fare qualcosa per Oswald. Era difficile capire davvero cosa, dato che Jim aveva saputo solo a posteriori ciò che gli era capitato in seguito a quegli eventi. Inoltre la sua era una decisione sofferta, trattandosi dell’uomo che difatti gli aveva sparato, uccidendolo. E se anche così non fosse stato, si trattava pur sempre di uno dei peggiori criminali in città…
Anche se lui aveva sempre tentato di avvicinarlo, e spesso lo aveva chiamato “amico”.
Jim non voleva arrivare a tanto da accettare quel nominativo e quel ruolo, ma poteva provare a fare in modo che la sua situazione non degenerasse come invece era successo ai tempi.
Innanzitutto, però, doveva farlo uscire da Arkham e, considerando che anche Strange era uno dei suoi prossimi obiettivi, forse un modo lo avrebbe trovato. Un modo che non implicasse il farsi catturare dallo scienziato pazzo permettendogli di usare il suo siero della verità su di lui.
E, a proposito di pazzi, Edward Nygma era già entrato in contatto con Oswald e aveva già commesso degli omicidi.
Jim aveva tentato di incontrarlo il meno possibile, in quei giorni, ma alla fine era successo a causa del caso Fries. Sembrava impossibile, guardandolo adesso, ma l’impacciato scienziato forense che si era rivelato tanto utile nella comprensione di molti casi era in realtà un assassino e presto sarebbe diventato l’Enigmista.
Incontrarlo, fingendo di non sapere niente, gli aveva dato il voltastomaco. Jim ricordava vagamente la zona del bosco in cui avevano trovato i cadaveri ai tempi, perciò forse avrebbe potuto sistemare anche lui senza rischiare di esporsi troppo.
Così Nygma non lo avrebbe incastrato e fatto finire a Blackgate, dove avrebbe rischiato di morire.
Inoltre, Jim sospettava che lui fosse almeno in parte responsabile del modo in cui era cambiato Oswald nel tempo. Probabilmente si poteva dire anche il contrario, ovvero che Edward sarebbe diventato l’Enigmista anche a causa dell’influenza di Pinguino.
Jim non conosceva i dettagli dei loro trascorsi, ma un tempo erano stati amici e poi Nygma aveva tentato di ucciderlo, arrivando molto vicino a riuscirci davvero.
Se solo Jim fosse riuscito a tenerli lontani, forse avrebbe risolto almeno parte del problema.
Aveva ancora tanto su cui riflettere e la questione era molto complicata, come previsto.
Anche sapendo dei cadaveri nascosti da Nygma, fare in modo che venissero trovati - per caso - e iniziare ad indagare li avrebbe probabilmente condotti a lui, ma poi cosa sarebbe successo? Lo avrebbero spedito ad Arkham, dove si sarebbe riunito prematuramente con Pinguino, il che sarebbe stato proprio ciò che Jim non voleva accadesse.
No, Jim doveva prima trovare un modo per tirare fuori Oswald da lì…
E, mentre ci rifletteva incapace di chiudere occhio, capì che aveva qualcosa che Strange voleva disperatamente, che avrebbe potuto usare come merce di scambio… Anche se, in questo modo, Jim si sarebbe allontanato dalla via della legalità, avvicinandosi all’idea di agente corrotto che un tempo lo faceva arrabbiare, e che ancora lo disgustava.
Ma era necessario.
Notes:
I'm back! Stavolta con 62 capitoli, già scritti e corretti.
Per questa storia ho cercato di attenermi a ciò che succede nella serie tv, con 3 piccole modifiche:
1. Lee non è mai rimasta incinta di Jim.
2. Durante la stagione 4, Lee ha preso i soldi, abbandonato Edward e lasciato Gotham per sempre.
3. Barbara non è mai rimasta incinta di Jim.
Tenendo presente questo, sapete qual'era la situazione di Jim all'inizio della fanfiction.
Chiaramente vedremo dei cambiamenti, dato che lui conosce il futuro... ma per questo ci sarà tempo!
Questa è una storia d'amore slow burn, perciò abbiate pazienza ma tenetevi forte. Prometto che varrà la pena di seguirla!
Chapter Text
L’indomani, Harvey non toccò l’argomento e durante la giornata di lavoro si comportò come al solito, il che fu un sollievo per Jim.
Col senno di poi, Jim - da completamente sobrio - aveva deciso che non sarebbe stato prudente coinvolgere così a fondo il suo amico. Se qualcun altro avesse saputo cosa doveva succedere e avesse agito di testa sua, Jim non avrebbe più saputo come fare per modificare il futuro in meglio, per la città.
Quindi nessuno, a parte lui, doveva saperne niente. Si sarebbe dovuto occupare lui di tutto quanto.
Victor Fries era ancora in loro custodia, benché non ci fossero dubbi riguardo alla sua colpevolezza. Infatti il suo trasferimento a Blackgate era previsto per quella sera stessa.
Fino a quel momento, loro avevano continuato a fargli domande per capire come funzionassero i suoi esperimenti criogenici e quante altre persone avesse ucciso per portarli avanti.
In quei giorni sua moglie si era presentata spesso a trovarlo, sebbene all’inizio non sembrasse intenzionata a farlo. Le restava poco da vivere e lo amava ancora, malgrado tutto.
Jim, arrestandolo, si era sicuramente fatto un nuovo nemico, ma fintanto che Fries era ancora vivo sapeva che non era davvero una minaccia. O almeno, che poteva essere una minaccia gestibile.
Ciò che gli importava adesso era che Strange voleva Fries per la sua conoscenza sulla criogenia, perché loro avevano lavorato insieme in passato. Queste erano informazioni che Jim, ai tempi, aveva scoperto solo troppo tardi, ma che adesso poteva sfruttare in suo favore.
Per questo dopo pranzo salutò Harvey dicendogli che aveva un appuntamento urgente, e che sarebbe tornato al lavoro appena possibile. Il suo appuntamento era con il professor Hugo Strange, che lo attendeva ad Arkham.
Arkham. Rivedere quel posto non gli fece affatto piacere, soprattutto sapendo che era un luogo di esperimenti oltre che di dolore. La sua ex c’era stata rinchiusa per un breve periodo, prima che Galavan organizzasse la sua fuga, e adesso si trovava di nuovo lì, ma in coma, dopo aver tentato di uccidere lui e Lee.
Non ci sarebbe stata salvezza per Barbara, era troppo tardi per Jim per rimediare anche a quello, ma avrebbe fatto tutto il possibile almeno per gli altri.
Al cancello comunicò il suo nome e all’ingresso venne accolto da Ethel Peabody, che in quella linea temporale lui vedeva per la prima volta, ma che in realtà conosceva già.
La donna lo condusse dentro la struttura, attraverso corridoi tutti uguali dalle pareti completamente bianche. Guardando oltre alcune sbarre ebbe l’opportunità di vedere l’ambiente in cui i detenuti mangiavano, ma non poté soffermarsi abbastanza con lo sguardo per scoprire se tra loro c’era anche Oswald.
Jim sperava fortemente di aver fatto la scelta giusta. Si trattava della sua sopravvivenza, certo, ma non solo. Se Pinguino non fosse diventato il criminale degenerato che ricordava, allora la città ne avrebbe tratto giovamento.
Dopotutto, gli doleva ammettere che aveva fatto del bene nel ruolo di sindaco e che, quando aveva preso il controllo della malavita dopo Carmine Falcone, le cose per l'intera città erano andate meglio.
Durante i dieci anni in cui Oswald era stato a Blackgate, il potere era passato innumerevoli volte dalle mani di Barbara a quelle degli altri grandi criminali rimasti, il che si era tradotto nel caos. Per non parlare di quando Sofia Falcone si era svegliata dal coma e si era ripresa quello che, secondo lei, le apparteneva.
Sofia… Jim si chiese se, cambiando le cose, non avrebbe potuto impedire anche la sua ascesa. In ogni caso, si trattava di un problema per il futuro.
Hugo Strange si presentò a Jim nell’ufficio del direttore, e il suo solito tono di voce calmo insieme ai suoi lineamenti distesi lo fecero sembrare rilassato. Che la sua fosse solo una maschera o meno, questo Jim non lo sapeva. Non aveva mai capito come ragionasse quell’uomo. Una cosa, però, era certa. Non doveva fargli piacere la presenza di un detective nella sua struttura, dove segretamente stava conducendo esperimenti sugli esseri umani.
“Cosa la porta qui, detective Gordon?” gli chiese, invitandolo con un cenno a sedersi di fronte a lui.
Jim si accomodò e, dato che erano rimasti soli, decise di andare dritto al punto.
“Sono qui perché ho un’informazione che troverà molto preziosa.”
“Un’informazione? Di cosa si tratta?” domandò il professore, appoggiando i gomiti sulla scrivania e facendo intrecciare le dita delle mani davanti al suo viso.
“Si tratta di un caso a cui sto lavorando per la GCPD. Il colpevole ha chiesto di lei.”
Non era vero, ma questo Strange non poteva saperlo.
“Il suo nome è Victor Fries,” continuò, non ricevendo altro che uno sguardo confuso in risposta, da parte del direttore di Arkham. “Stava conducendo degli esperimenti di criogenia al fine di conservare il corpo di sua moglie, da viva, perché è affetta da una malattia al momento incurabile.”
Vide Strange sgranare gli occhi e spostare le mani fino ad appoggiarle sulla scrivania. Come immaginava, non aveva ancora saputo di Fries dato che la GCPD aveva trattato il caso con discrezione, e grazie al poco tempo impiegato per risolverlo le notizie a riguardo non erano ancora trapelate all’esterno. Freeze non aveva fatto parlare abbastanza di sé, non aveva terrorizzato i cittadini di Gotham come era stato ai tempi, perché Jim non gli aveva dato modo di farlo, intervenendo subito.
Per questo il professore non sapeva ancora di lui. Per questo non si era ancora mosso per impadronirsi di lui, vivo o morto.
“E perché avrebbe chiesto di me?” indagò, con voce calma.
Se intendeva fare finta di niente, allora Jim avrebbe fatto lo stesso. Sapeva perché Strange voleva impossessarsi dei suoi studi, sapeva cosa ci avrebbe fatto, ma era meglio se fingeva di esserne all’oscuro, almeno per il momento.
Un’altra cosa di cui era a conoscenza era il suo coinvolgimento con la Corte dei Gufi, ma nominare l’organizzazione avrebbe avuto solo conseguenze spiacevoli, tra le quali - probabilmente - il trasferimento di Indian Hill altrove e la distruzione di Arkham, per coprirne le tracce.
Quest’ultima era un evento a cui Jim avrebbe assistito volentieri, ma intendeva prima impedire a Strange di continuare con i suoi esperimenti.
“Questo non lo so. So solo che vorrebbe essere trasferito qui anziché a Blackgate, e che secondo lui ne gioverebbe anche lei, professor Strange. Dato che lavoro all’interno, potrei renderlo possibile… Ma il punto è: io che cosa ci guadagno?”
Strange lo studiò per qualche secondo senza fiatare. Forse stava valutando la situazione, cercando di capire se fosse una trappola, o magari rifletteva sulle possibilità che l’arrivo di Victor Fries gli avrebbe fornito.
“Mettiamo il caso che io sia interessato,” disse poi, con la stessa invariata calma nella voce che Jim aveva sempre sentito da lui, anche nelle situazioni più assurde. “Se è venuto qui, detective Gordon, immagino che lei abbia già qualcosa in mente.”
“Infatti,” gli concesse, come se niente fosse. “Ci sarebbe una persona, tra i vostri pazienti, che mi piacerebbe vedere fuori da qui. Ciò che le propongo è uno scambio: uno entra e l’altro esce.”
Hugo Strange gli rivolse un sorriso innocente.
“Temo che la signorina Kean sia ancora in coma,” rispose, al che Jim ebbe la conferma che lui sapeva bene chi fosse.
Strange doveva aver fatto le sue ricerche, quando lui gli aveva chiesto quell’incontro... Però non lo conosceva quanto Jim conosceva lui.
“Non stavo pensando a lei in realtà, ma a Oswald Cobblepot,” dichiarò, in un tono tranquillo.
Negli anni, avendo a che fare con uomini di politica che pretendevano da lui l’impossibile, il commissario Gordon aveva imparato a fare buon viso a cattivo gioco. Interpretare un ruolo, mentre dentro di sé cresceva la freddezza nei confronti di ciò che la città era diventata, e la consapevolezza che c’era ben poco che potesse fare per salvarla.
Anche questa volta Jim, anche se nel suo vecchio ruolo di detective, fece buon viso a cattivo gioco. Fece finta di non sapere di Indian Hill, di non conoscere la Corte dei Gufi, né di sapere cosa avrebbero potuto fare Strange e Fries insieme. Guardò solo a ciò che gli interessava nell’immediato, sapendo che al resto avrebbe rimediato più tardi. E lo fece con tranquillità, come se la sua fosse una richiesta di poco conto.
“Temo che non sia possibile. Il signor Cobblepot è con noi soltanto da una settimana, è troppo presto per compiere una nuova valutazione psicologica... Ma nel suo caso specifico non è necessario un esame per riconoscere che non sia ancora tornato sano.”
“Non è ciò che le ho chiesto,” replicò Jim, intenzionato a non perdere.
Certo, ora Strange sapeva di Fries ed era probabile che potesse arrivare a lui in un altro modo, persino facendolo uccidere a Blackgate e impadronendosi successivamente del suo cadavere, ma gli servivano anche il suo composto e l’accesso ai suoi studi. Jim, consegnandogli Fries vivo, tutto questo glielo stava offrendo su un piatto d’argento.
“Potrebbe, magari, fare finta che lui sia ancora qui. Quando tornerà a far parlare di sé, e confido che trascorrerà del tempo prima di allora, potrà lavarsene le mani dichiarando di averlo appena decretato sano, e che evidentemente sia stato commesso un errore.”
Ancora una volta, Strange lo scrutò in silenzio per una manciata di secondi.
“Per quale motivo il detective Jim Gordon della GCPD mi sta chiedendo di rilasciare un pericoloso criminale?”
“Il motivo non la riguarda, ma potrei riassumerlo dicendo che lui mi deve un favore, e finché sarà rinchiuso qui non potrò riscuoterlo.”
Favori. Tra lui e Oswald era sempre stato così, o almeno all’inizio lo era.
“Un uomo per un uomo. Non mi interessa perché Fries voglia venire qui, ma posso farlo accadere. Questa sera stessa, per la precisione. Poi io mi presenterò ai cancelli e lascerete uscire Cobblepot… Altrimenti mi interesserò di quali siano le intenzioni di Fries, e con me tutta la GCPD,” lo minacciò.
“E sia,” gli accordò Hugo Strange, dopo una lunga riflessione.
Questa volta fu il professore stesso ad accompagnarlo fuori, e nel procedere verso l’ingresso passarono di nuovo davanti alla sala mensa. Attraverso le sbarre chiuse questa volta si sentivano lamenti, grida, clamore, tanto che entrambi si fermarono per vedere cosa stesse succedendo.
E così Jim vide Oswald, anche se riuscì a riconoscerlo a malapena nel camice a righe bianco e nero tipico di tutti i reclusi di Arkham. Non se la passava bene, gli fu chiaro a colpo d’occhio. Però, in effetti, Jim lo aveva già visto in quel posto, per ben due volte. Non era ancora messo male come la seconda, ovvero come sarebbe diventato se lui l’avesse abbandonato nel manicomio.
Altri due reclusi se la stavano prendendo con lui, sembravano divertirsi mentre lui urlava e lottava. Chiaramente non aveva ancora perso la sua forza di volontà.
“Sicuro di ciò che desidera, detective?” gli chiese Strange, alludendo alla sua richiesta di lasciarlo andare.
Jim stava stringendo i pugni, pur essendosi mantenuto a distanza dalle sbarre. Malgrado la freddezza cresciuta in lui nel corso degli anni, non sopportava comunque di vedere qualcuno che, inerme, veniva maltrattato. E per quanto Oswald fosse stato il Re di Gotham, e probabilmente sarebbe presto tornato a esserlo, adesso era vulnerabile e gli altri se ne stavano approfittando.
“Sicuro, professore, di volere che continuino?” ribatté con distacco, rivolgendo lo sguardo a lui.
“È il suo ultimo giorno, sarebbe un peccato non lasciare che si divertano,” rispose, senza nessuna inflessione particolare nella voce, ma poi fece comunque cenno agli uomini di guardia di intervenire.
Jim rilassò i pugni e si avviò per primo verso l’ingresso, decidendo che per il momento era meglio che Oswald non lo vedesse. Inoltre non aveva molto tempo per mettere in atto l’altra metà del suo piano.
Tornato alla centrale, anziché cercare Harvey, andò dove sapeva che avrebbe trovato Fries, ovvero in una stanza degli interrogatori, pronto per il prossimo - e forse ultimo - round di domande.
Jim si assicurò che la stanza adiacente fosse vuota prima di entrare da lui, perché il loro discorso rimanesse segreto. Ora doveva solo sperare che l’uomo lo ascoltasse e collaborasse.
Quando entrò, Victor Fries lo accolse con un’occhiata carica di rabbia. Lo incolpava della sua cattura e non ne faceva mistero. Forse un giorno, dopo la morte di sua moglie, avrebbe accusato lui di tutto quanto, come Jervis Tetch aveva fatto in passato. Jim non si poteva permettere di ritrovarsi davvero con un altro nemico giurato. Anche per questo doveva promettergli, adesso, quella che gli sarebbe sembrata una via d’uscita.
Malgrado l’odio ben presente nel suo sguardo, Fries non fiatò, limitandosi a guardarlo.
In quei giorni i detective si erano alternati nella sala interrogatori, cercando di ottenere il massimo da lui prima di spedirlo a Blackgate, perciò doveva essere stanco di quella routine. Stanco e distrutto emotivamente, dato che la moglie era sempre più malata, e lui ora non poteva davvero fare niente per aiutarla.
“Abbiamo poco tempo, quindi ascoltami. Sto per proporti un accordo confidenziale che ti permetterà di continuare i tuoi esperimenti e di avere aiuto anche per tua moglie.”
“Cazzate!” ribatté Fries, senza esitazione.
“Prima prova ad ascoltarmi. Hugo Strange, conosci questo nome? Ti vuole ad Arkham, la struttura che dirige, per sapere di più sui tuoi esperimenti. È uno scienziato geniale, se esiste qualcuno che può aiutarti a salvare tua moglie, quello è lui.”
Improvvisamente Fries si zittì e sgranò gli occhi.
Poco dopo, quando Carlos Alvarez entrò nella stanza interrogatori per fargli altre domande, Jim - che era tornato nella sala adiacente - assistette a una scenata tanto folle che nessuno, nemmeno Barnes, ebbe da ridire quando lui modificò la richiesta di trasferimento, dichiarando che il suo posto era ad Arkham. Gli avrebbero fatto una perizia psicologica al suo arrivo, dato che i tempi per il trasferimento stringevano.
Fries aveva colto l’opportunità al volo, ben consapevole di avere poco tempo per tentare di salvare sua moglie, e che Strange sarebbe stato la sua opzione migliore.
Ora, Jim non voleva né lasciare la donna alla mercè di Hugo Strange, né che lui - grazie alle conoscenze di Fries - iniziasse subito a riportare in vita i morti, ma si sarebbe occupato di tutto quanto, una cosa alla volta.
Prima doveva pensare a Oswald. Prima doveva presentarsi ai cancelli di Arkham, la sera tardi dopo il trasferimento di Victor Fries, e vedere se il direttore avrebbe mantenuto la sua parte dell’accordo.
“Tutto bene, Jimbo? Andiamo a bere qualcosa?” gli chiese Harvey.
Il suo amico doveva aver notato che qualcosa non andava. Jim era stato evasivo, pensieroso e indaffarato per l’intero giorno, e non lo aveva mai reso partecipe davvero delle sue intenzioni, il che era insolito e lo sapeva bene, ma non aveva avuto alternative.
Inoltre Jim, anche se apparentemente era lo stesso di sempre, aveva sulle spalle l’esperienza di altri tredici anni di vita in quella città dimenticata da Dio. Perciò era probabile che il suo atteggiamento fosse diverso da quello che avrebbe avuto un tempo, ma per questo non poteva fare niente, se non fingere che andasse tutto bene.
“Magari domani,” gli rispose, perché quella sera non poteva davvero. “Due giorni di fila mi sembra eccessivo, non abbiamo più l’età,” aggiunse, e questa volta il suo partner accennò un sorriso.
Forse era riuscito a dissipare i suoi dubbi.
In ogni caso, appena uscito dalla centrale non si diresse a casa, bensì ad Arkham.
Vedere quel posto per ben due volte nello stesso giorno quasi gli diede la nausea, perché sapeva cosa stava accadendo lì dentro eppure, per il momento, non poteva farci niente. Quindi ignorò il senso di profondo fastidio che provava e si avvicinò al cancello per suonare, annunciando la sua presenza.
Dopo alcuni minuti, che Jim trascorse al freddo e sentendosi sempre più teso, avvertì il rumore della porta che si apriva. Subito vide un uomo della sicurezza uscire seguito da Oswald, e quella scena gli permise di rilassare le spalle, anche se non del tutto.
Il criminale era vestito come il giorno in cui lo avevano arrestato, ovvero in un modo trasandato che lo faceva sembrare un’altra persona. Un abbigliamento che aveva adottato per nascondersi tra la gente povera di Gotham, dove alla fine la GCPD lo aveva trovato comunque.
Aveva i capelli piatti sulla testa e un’espressione smarrita sul viso, ma quando spostò lo sguardo dalla guardia a Jim sgranò gli occhi e il detective vi lesse lo scintillio della speranza.
Mentre l’uomo apriva il cancello e gli intimava di uscire, Oswald non smise mai di guardare Jim, nemmeno per un istante.
Il cancello era di nuovo chiuso e la guardia se ne stava andando quando Jim gli si avvicinò e Oswald schiuse le labbra.
“James… Cosa…?” chiese, ma non terminò mai la frase.
“Dopo tutti i favori che mi hai fatto, ti dovevo almeno questo,” disse, non sapendo davvero come giustificare con lui le sue azioni.
“Non mi dovevi niente,” replicò Oswald, abbassando lo sguardo e offrendogli un sorriso carico di quella che, a Jim, sembrò gratitudine.
“Sì invece. Dopo Galavan, almeno,” precisò, perché non trovava comunque giusto che pagasse per un crimine che invece era suo. “Ma se preferisci, puoi tornare dentro.”
“Oh no, non vorrei vedere mai più questo posto, se non per raderlo al suolo,” si affrettò a rispondere, al che Jim accennò un mezzo sorriso.
Per una volta condivideva il suo pensiero.
Senza più dire niente, gli fece segno di seguirlo fino alla sua auto.
Nei giorni in cui la GCPD lo aveva cercato per sbatterlo dietro le sbarre, Jim non si era limitato ad attendere l’inevitabile. Aveva pensato a un modo per liberarlo, perché non fosse obbligato a scontare quella pena che invece sarebbe spettata a lui. La cattura di Fries gli aveva solo fornito l’opportunità perfetta.
Inoltre, aveva compreso subito che sarebbe stato meglio farlo uscire da Arkham prima del previsto, perché non vivesse le stesse esperienze che, ai tempi, lo avevano reso una tale minaccia per la città, e infine anche per Jim stesso.
“Dove stiamo andando?” gli chiese Oswald, dopo un po’.
In effetti Jim non stava guidando né verso villa Falcone, dove sapeva che si era insediato Butch Gilzean, né verso il proprio appartamento, del quale immaginava che Oswald conoscesse l’ubicazione.
“È una sorpresa,” rispose, semplicemente, e vide con la coda dell’occhio che il criminale si era irrigidito.
Ad Arkham doveva essersela vista brutta, pur essendoci rimasto solo qualche giorno. Forse temeva che Jim lo stesse portando in un posto isolato per ucciderlo, e questo sarebbe bastato a farlo scattare, a farlo agire per primo.
Il detective non lo aveva tirato fuori da Arkham perché lo uccidesse tredici anni prima del previsto, perciò decise di spiegarsi davvero.
“Quando sei sparito, l’appartamento di tua madre è stato presidiato per le indagini e dopo il tuo arresto è stato svuotato e rimesso in affitto.”
“Che cosa?” esclamò Oswald, spiazzato dalla notizia che evidentemente non era giunta prima alle sue orecchie.
“Me lo aspettavo, ma non ho potuto fare niente,” continuò Jim, mantenendo calmo il tono di voce. “Però sono riuscito a portare via qualcosa e a metterlo in un magazzino. Non è molto, ma ho pensato che sarebbe stato meglio di niente.”
Il criminale si zittì, forse ponderando il significato dietro alle sue parole.
“Comunque siamo arrivati, presto lo vedrai tu stesso,” annunciò, parcheggiando nei pressi del complesso di magazzini in questione.
Il suo stipendio di detective non era un granché, non lo era mai stato, ma Jim non era entrato alla GCPD per soldi. Purtroppo, questo spesso era limitante. Lo era stato quando aveva pagato il proprietario dell’appartamento della signora Kapelput perché gli lasciasse prendere quelle cose, e anche quando aveva preso in affitto il magazzino, dovendo anticipare la cifra per l’intero mese.
Però si trattava di qualcosa che, se fosse stato al suo posto, avrebbe voluto. Era un piccolo gesto, forse, ma sperava che tanti piccoli gesti avrebbero fatto la differenza, anche perché non sapeva ancora cosa fare, nel concreto, per evitare che Oswald diventasse la persona che un giorno lo avrebbe ucciso.
Quando scese dall’auto, gli porse un ombrello che aveva con sé perché potesse aiutarsi a camminare con quello, senza dire nulla, come se fosse la cosa più ovvia da fare, e fece strada.
Il criminale lo seguì a pochi passi di distanza, mentre Jim si assicurava di non andare troppo in fretta, per non lasciarlo indietro né obbligarlo a sforzarsi. Però non voleva nemmeno che gli camminasse accanto, come se per loro fosse normale andare in giro insieme.
Non lo era affatto e non lo sarebbe mai stato, eppure si accorse di non provare niente nel saperlo alle proprie spalle.
Neanche due minuti dopo, Jim si fermò davanti a uno dei magazzini, si piegò per inserire la chiave nel lucchetto e lo sbloccò, quindi poté sollevare la saracinesca.
Oswald, che adesso si trovava accanto a lui, spalancò gli occhi e schiuse le labbra. Dopo un istante di silenziosa ammirazione, entrò nel magazzino e si guardò intorno, scoprendo uno a uno gli oggetti che il detective era riuscito a salvare. Non era molto, considerando tutto ciò che aveva dovuto lasciare, ma riempivano comunque il piccolo spazio a disposizione.
Aveva preso soprattutto foto e altri oggetti che gli avrebbero sicuramente ricordato sua madre, e altro che invece era suo, tra cui alcuni completi. Se avevano dei gioielli, il proprietario di casa aveva provveduto a farli sparire prima del suo arrivo.
“Ho già pagato l’affitto per l’intero mese,” lo informò, dopo chissà quanto tempo.
Jim era rimasto sulla soglia a osservarlo in silenzio, mentre si rigirava la chiave tra le mani. Oh, se Barnes avesse ordinato un controllo su di lui, in che bel casino si sarebbe trovato… ma lo aveva fatto per un buon motivo. Ne sarebbe valsa la pena, doveva essere così.
“James, sono senza parole,” gli disse Oswald, tornando a rivolgergli lo sguardo. “Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per me…”
In effetti poteva immaginarlo. Solo sua madre doveva avergli riservato delle premure in modo disinteressato, mentre tutti gli altri agivano sotto minacce o per ottenere un compenso. In quell’occasione, però, nessuno aveva agito. Nemmeno un sottoposto rimasto fedele, che avrebbe atteso pazientemente il suo ritorno dopo Arkham. Nessuno. Quindi ci aveva pensato Jim.
Il detective fece spallucce e, quando Oswald gli si avvicinò, allungò la mano per consegnargli la chiave. Prima di prenderla, lui la guardò come se fosse una cosa preziosissima.
“Lo hai fatto per ottenere qualcosa in cambio? Temo di non essere in grado di ricambiare alcun favore al momento.”
“Diciamo che in futuro, quando mi vorrai uccidere, potresti ripensare a questo giorno,” rispose, più per fare una battuta che per altro.
Non credeva che bastasse così poco, ma non aveva una risposta migliore da dargli.
“Oh, non credo che accadrà mai,” ribatté Oswald, con un sorriso a increspargli le labbra e a tingergli il tono di voce.
“Non si può mai sapere. Vedi se c’è qualcosa che può servirti subito, starai da me per stanotte e su questo non transigo. Nessuno deve sapere che sei tornato in libertà.”
Ancora una volta Oswald sembrò sorpreso, e come biasimarlo? Jim stava affrontando la questione con distacco perché ci aveva riflettuto molto e non aveva trovato un’altra opzione accettabile.
Alla fine Oswald non replicò. Prese uno dei completi, una foto di famiglia e poco altro e, dopo aver messo tutto quanto in un borsone, chiuse a chiave il magazzino e lo seguì.
Chapter Text
Jim Gordon, ai tempi, probabilmente si sarebbe infastidito molto nel sapere Oswald Cobblepot in casa sua, e non sarebbe stato tranquillo nel trascorrere la notte tra le sue stesse quattro mura. Il Jim di adesso, però, era diverso.
Se ripensava a quel fatidico giorno al molo, quando Oswald gli aveva sparato, non provava niente. Assolutamente niente. E, anche quella mattina, quando si svegliò e trovò Oswald ancora addormentato sul suo divano, con una coperta tirata fin sotto al mento, non provò proprio niente.
“Perché mi hai aiutato ad uscire da Arkham? Sii sincero, Jim. È ovvio che non sia stata una mossa legale, e che per la GCPD io mi trovi ancora lì,” gli aveva chiesto quella sera, dopo che lui gli aveva offerto il divano, un cuscino e quella coperta, e si era raccomandato che non scappasse nella notte.
“Perché penso che tu possa ancora cambiare,” gli aveva risposto, perché quella era la sua sincera speranza e, per quanto la probabilità fosse remota, doveva aggrapparsi ad essa. “Ma sicuramente non accadrà in una cella di Arkham, né in una di Blackgate.”
Di questo, invece, era sicuro al cento percento. Arkham non aveva fatto niente per Oswald, e la prigione lo aveva reso solo più arrabbiato di prima. Jim sperava che, in questa linea temporale, Oswald sarebbe rimasto lontano dai guai, e quindi anche fuori da Blackgate.
Ai tempi, dopo che Gotham era stata ricollegata al continente, il criminale che adesso si trovava in casa sua aveva dato il peggio di sé, e lo stesso aveva fatto Edward Nygma insieme a lui. La sua speranza era anche quella che, tenendoli lontani, non sarebbe successo.
Anche per questo, una delle sue mosse successive sarebbe stata nei confronti di Nygma, ma prima doveva rimediare a ciò che aveva fatto consegnando Fries a Strange. E, prima ancora, doveva mettere Oswald su quella che sperava fosse la strada più giusta per lui.
Accese la macchinetta del caffè quasi senza pensare, sentendo che aveva davvero bisogno di berne una tazza, e pochi secondi dopo un fruscio gli fece capire che il suo ospite si era svegliato.
“Buongiorno,” gli sentì dire infatti.
Jim non si voltò.
“‘giorno. Sto facendo del caffè, ne vuoi?”
“Con piacere. Potrei… fare una doccia?”
Jim colse l’esitazione nella sua voce. Forse non si sentiva a suo agio in quell’appartamento, o forse era la presenza del detective a non permettergli di rilassarsi. In ogni caso, non aveva niente in contrario, anzi la sua richiesta gli sembrava lecita. Prima di rispondere, si voltò finalmente a guardarlo e lo trovò vestito come il giorno prima e con i capelli arruffati dal sonno.
Quella sì che era un’immagine diversa dal solito, qualcosa che lui non aveva mai visto prima.
“Fai pure,” gli disse, facendo un cenno in direzione del bagno.
Il detective non si mosse da lì, nell’attesa che il caffè venisse pronto. Mentre ascoltava il rumore dell’acqua della doccia che scorreva, sovrastato quasi del tutto da quello prodotto dalla macchinetta del caffè, si chiese se non ci fosse qualcosa che non andava in lui.
Se fosse normale che, per la maggior parte del tempo, lui non provasse assolutamente niente. Ma forse una parte di lui era morta su quel molo… O forse, dopo ciò che aveva vissuto, era normale sentirsi svuotati.
Giunse a questa conclusione proprio mentre versava il caffè in due tazze, dopodiché spostò il pensiero altrove, in cerca dello zucchero. Oswald lo raggiunse poco dopo, trovandolo già seduto in cucina.
I suoi capelli erano ordinati adesso, ancora umidi forse, ma diversi da come li portava di solito. Quanto all’abbigliamento, invece, era tornato l’Oswald che lui ricordava, con i suoi completi eleganti dalle tinte scure.
Vederlo così forse avrebbe dovuto provocare una reazione in lui, fargli provare almeno la consapevolezza che aveva davvero ospitato un criminale in casa sua, lo stesso che in futuro lo avrebbe ucciso. Eppure Jim gli rivolse lo sguardo solo per un istante, per poi riprendere a bere il suo caffè, non provando assolutamente niente.
Oswald si sedette dall’altro lato del tavolo, davanti alla tazza che Jim aveva riempito per lui, e bevve un primo sorso di caffè. Il detective lo vide chiudere gli occhi mentre lo assaporava.
“Temevo che sarebbe trascorso molto più tempo, fino a quando avrei potuto assaggiare ancora del buon caffè. Ad Arkham non lo servono,” spiegò, forse perché si era accorto del suo sguardo.
“Questo non è un buon caffè, è solo decente,” replicò senza alcuna enfasi, sorvolando su quanto gli aveva raccontato.
“Lo è invece. Inoltre tutto è più buono, quando a offrirlo è un amico.”
Jim si ritrovò a sbuffare impercettibilmente a quelle parole, pronunciate forse con innocenza. Forse, per la prima volta, senza un secondo fine.
“Se mai assaggerai qualcosa di cucinato da me, cambierai idea,” sottolineò, sperando che non leggesse nella sua frase delle implicazioni che in realtà non c’erano. “E comunque non… No, lasciamo stare.”
Avrebbe voluto dirgli, per abitudine, che non erano affatto amici. Un'abitudine antica, quella, che era stata sua molti anni prima, ma che evidentemente era ancora radicata in lui. Eppure decise che non ce n’era bisogno.
Non credeva di essere suo amico, non lo sarebbe mai stato, qualsiasi considerazione avesse lui del loro rapporto. Malgrado questo, pensò che non aveva senso opporsi. Se era così che lo vedeva, considerando l’occasione, allora forse avrebbe potuto fare finta di niente.
Dopotutto, a lui cosa costava?
“Non smetterò mai di esserti grato per avermi fatto uscire da Arkham,” gli disse Oswald, dopo qualche secondo di silenzio trascorso a bere il caffè. “Ciò che fanno lì dentro… non è terapia, Jim. È tortura.”
Il detective non replicò.
Lo sapeva. Non ne conosceva la vera entità, ma lo sapeva già. Ricordava bene la volta in cui Oswald lo aveva visto lì e gli si era avvicinato, pregandolo di aiutarlo. Non lo aveva mai visto così disperato, a chiedergli apertamente aiuto. Allora aveva persino urlato la verità su quanto successo, ovvero che era Jim il colpevole dell’omicidio di Galavan. Un comportamento causato, senza dubbio, da ciò che subiva là dentro.
Jim non era intervenuto quella volta, e anche questa aveva aspettato alcuni giorni, ma era felice di averlo fatto alla fine. O meglio, si era tolto un peso dal petto, un peso fatto di sensi di colpa.
Era strano, dato che si trattava dell'uomo che in futuro lo avrebbe ucciso? Jim, dopotutto, non era certo di ciò che stava facendo.
E c’erano altri verso i quali si sentiva in colpa, ma forse, con un po’ di impegno e di fortuna, sarebbe riuscito a cambiare le cose anche per loro.
“La scorsa notte ti ho ospitato, ma non puoi restare qui,” gli disse, dopo un’altra manciata di secondi. “Però ho trovato un posto dove credo ti accoglieranno, e dove nessuno ti cercherebbe mai.”
In risposta, Oswald corrugò la fronte.
“Ho indagato sul tuo conto per capire dove nasconderti e ho scoperto che tua madre, da giovane, ha lavorato presso la casa di una famiglia che non vive molto lontano da qui,” mentì.
Non aveva indagato affatto. Si trattava di informazioni acquisite per caso in passato, che avevano fatto luce su come Oswald fosse diventato improvvisamente l’erede della fortuna dei Van Dahl. Su quanto successo agli altri membri della famiglia, aveva ancora tante domande - e forse poteva intuirne già le risposte - ma avrebbe pensato a una cosa per volta.
“Ritieni che nasconderebbero in casa loro un pericoloso criminale che tutti credono rinchiuso ad Arkham?” chiese, con una punta di sarcasmo nella voce.
“Sì, perché non ti conoscono. Fidati, è così,” sottolineò, sperando che non gli facesse ulteriori domande a riguardo.
“Sembri sicuro di ciò che dici… Cosa stai suggerendo che faccia?”
“Io ti accompagno lì, tu chiedi del padrone di casa e gli dici di chi sei figlio. Vorrai approfittarne per scoprire di più sul passato di tua madre, o sbaglio?”
Temeva di aver toccato un tasto dolente nominandola, ma Oswald non si scompose. Forse aveva già affrontato il lutto, soprattutto dal momento in cui aveva ripagato Galavan con la stessa moneta.
Comunque si mostrò ancora incerto riguardo al suo piano e gli fece qualche altra domanda, ma alla fine si arrese alla sua insistenza e, dopo aver recuperato il suo bagaglio e l’ombrello che Jim gli aveva offerto il giorno prima, lo seguì fino alla sua macchina.
“Prima hai detto che non smetterai mai di essermi grato per ciò che ho fatto,” disse Jim, dopo diversi minuti, facendo riferimento alla sua scarcerazione da Arkham.
La villa dei Van Dahl era ancora distante e, benché il silenzio tra loro non fosse affatto opprimente per lui, decise che sarebbe stato meglio riempirlo, provare ad approfittarne fintanto che potevano parlare.
“Allora immaginiamo che in futuro io abbia un favore da chiederti,” aggiunse, senza permettergli di replicare per primo. “Confido che tu abbia ancora il mio numero di telefono…”
“È così,” gli confermò Oswald, al che Jim annuì rimanendo concentrato sulla strada.
Non sapeva cos’era successo, ai tempi, nella casa dei Van Dahl, ma sicuramente c’entrava Oswald. Aveva sentito dire che il capofamiglia era morto per malattia e poi gli altri erano spariti misteriosamente. Jim lo aveva saputo distrutto per la morte del padre che aveva appena ritrovato, perciò non credeva che lo avesse ucciso lui… Ma gli altri?
Il detective sperava fortemente che non stesse portando in quella casa l’uomo che sarebbe stato la causa della loro fine.
“Allora chiamami, se dovesse succedere qualcosa di spiacevole. Non agire spinto dalla rabbia e non chiamare uno dei tuoi vecchi sottoposti. Chiama me,” ripeté, con enfasi.
Non ricevendo alcuna risposta, si voltò un attimo nella sua direzione e lo trovò a scrutarlo con un’espressione confusa.
“Soprattutto se si tratta di questioni che possono essere risolte dalla GCPD, senza l’uso della violenza.”
A quelle parole, Oswald sospirò rumorosamente e Jim comprese che forse non lo aveva preso sul serio, ma almeno lui ci aveva provato. Dopotutto, non aveva davvero idea di cosa fosse successo in quella casa, che forse sarebbe successo anche in questa linea temporale.
“E sii discreto finché sei qui. Se tornassi in contatto con i tuoi sottoposti, o andassi in giro liberamente per Gotham, si scoprirebbe che non sei più ad Arkham e sarebbe un problema anche per me,” sottolineò, temendo che non lo avesse capito.
Ricordava fin troppo bene come erano andate le cose quando lo aveva spinto giù dal molo ordinandogli di non tornare. E lui cosa aveva fatto? Era tornato, ovviamente, perché quello faceva tutto parte del suo piano sin dall’inizio. Jim aveva davvero rischiato grosso a causa sua, quella volta.
“Non hai di che preoccuparti Jim, lo capisco,” concordò, il che lo fece sentire un po’ più tranquillo.
Gli stava facendo quelle raccomandazioni, ma sapeva di non poter avanzare pretese su di lui e sul suo comportamento. Lo sapeva fin troppo bene, ma almeno ci aveva provato.
Ci volle ancora un po’ di pazienza per arrivare alla villa dei Van Dahl, ma Oswald non gli sembrava nervoso, il che era positivo. Una volta giunti a destinazione, Jim non scese dall'auto ma rimase in attesa di vederlo entrare prima di andare via, per assicurarsi che non facesse di testa sua.
Così vide la domestica emergere dalla porta principale e, subito dopo di lei, quello che doveva essere il signor Van Dahl in persona, che rivolse a Oswald uno sguardo sorpreso e lo invitò a entrare.
Jim, a questo punto, poteva solo sperare in bene.
Edward Nygma. Jim non vedeva l'ora di saperlo rinchiuso ad Arkham, dopo tutto il dolore che gli aveva provocato ai tempi, facendolo incriminare ingiustamente.
Per questo si era lasciato con Lee, e ciò aveva dato inizio a una catena di eventi distruttivi.
Per quanto Lee fosse ancora una sua collega, per quanto adesso avesse una seconda possibilità anche con lei, Jim non provava più niente nei suoi confronti. Non voleva riprenderla con sé e tentare di mettere in scena un copione diverso, per far funzionare le cose.
E non voleva più che lei lo psicanalizzasse, il che sarebbe sicuramente successo.
Inoltre frequentare qualcuno, mentre portava avanti la sua missione personale, avrebbe reso il tutto ancora più complicato… ma non era questo il punto.
Quando Lee era stata insieme a Edward, Jim aveva creduto fermamente che lo stesse usando e così era stato. Alla fine lei aveva lasciato Gotham, abbandonando tutto ciò che aveva costruito, e poi erano crollati i ponti.
Lee era cambiata così tanto nel corso degli anni in cui l'aveva conosciuta… cambiata in peggio, e anche per colpa sua. Infine era sparita dalla sua vita.
Lee era un’altra fonte di sensi di colpa per Jim, che in questa linea temporale intendeva tentare di rimediare, ma per permetterle di avere una vita serena doveva solo starle alla larga. Lei doveva essere libera dalla sua influenza e, con un po’ di fortuna, sarebbe rimasta al sicuro.
Non era per amore che Jim l'aveva lasciata andare, ma perché credeva che fosse davvero la scelta più giusta.
In ogni caso, per quanto vedere Nygma alla GCPD gli annodasse lo stomaco e dovergli parlare per lavoro fosse anche peggio, Jim doveva resistere ancora un po’, perché non era arrivato il suo turno.
Prima toccava a Strange e, per lui, Jim aveva in mente un piano ben preciso. Per attuarlo, innanzitutto, sarebbe dovuto andare a villa Wayne.
“Sono sulle tracce del mandante dell'omicidio dei tuoi genitori,” disse a Bruce.
Era sabato, Jim era passato a trovarlo e Alfred aveva preparato per loro il solito tè, dopo che il detective si era accomodato nel salottino dove il ragazzo sembrava trascorrere la maggior parte delle sue giornate.
“Il mandante?” chiese, corrugando la fronte.
“Sì, c'è più di una persona dietro,” rivelò, senza però entrare nei dettagli.
“Dimmi chi è,” gli chiese il padrone di casa, e il fatto che suonò come un ordine lo preoccupò.
Ma era normale, secondo Jim, che fosse arrabbiato.
“Non posso, per il momento. È un caso di cui mi sto occupando da solo, senza coinvolgere la GCPD, ma voglio riuscire ad arrestarlo e per farlo mi servirà un mandato. Per questo sono qui… Sai dirmi dove trovare Selina?”
“Cosa c'entra Selina?” chiese Bruce, chiaramente confuso.
E come biasimarlo? Jim gli stava dando delle briciole di informazioni, ma era tutto ciò che poteva fare.
Nei suoi ricordi, Bruce aveva indagato da solo, trovato Machis, e poi lo aveva quasi ucciso, ma alla fine il sicario si era tolto la vita da solo, senza rivelare loro il nome del mandante. Questo aveva allungato i tempi dell'indagine, ma Jim adesso sapeva che dietro al loro omicidio c'era Hugo Strange.
La questione era molto più complicata di come poteva sembrare, ma avrebbe dato a Bruce il tempo di indagare e di capire tutto da solo, dato che sembrava intenzionato a farlo comunque. A lui ciò che importava adesso era arrestare Strange, tenerlo lontano da chiunque volesse usare le sue conoscenze per scopi malevoli, e far chiudere Indian Hill.
“Ho bisogno di chiederle un favore. Solo così riuscirò a ottenere quel mandato,” tagliò corto, sperando che Bruce collaborasse.
Alla fine il ragazzo cedette perché Jim non si dimostrò intenzionato a farlo per primo. E così, qualche ora dopo, il detective raggiunse quello che a tutti gli effetti sembrava il covo di Selina Kyle. Come promesso da Bruce la trovò proprio lì, da sola, che si preparava per andare a fare chissà cosa.
Selina era una ladra, lo era da tempo e avrebbe continuato su questa strada, qualsiasi cosa Jim e Bruce avessero fatto per tentare di condurla sulla retta via. Lei non sembrava intenzionata a cambiare, era questo il punto, e in fin dei conti si trattava del male minore. Non era come i pazzi con cui Jim ormai era abituato ad avere a che fare. Loro erano il vero nemico.
“Io che cosa ci guadagno?” chiese lei, quando Jim le fece la sua richiesta.
Lo guardò con la sua solita espressione a metà tra la noia e il fastidio, ma Jim sapeva come farla cedere. Con i soldi, che in quel periodo sembravano essere la risposta a ogni problema.
Ma il detective non avrebbe avuto grandi spese nell’immediato futuro, perciò riteneva di potersi permettere di investire nel risanamento di Gotham.
“Duecento dollari in contanti, che posso darti subito.”
La ragazza spinse le labbra verso l'alto, pur non cambiando la sua espressione generale, e il detective intuì che ci stesse riflettendo.
“Cinquecento. Se sei disposto a pagare bene deve essere roba grossa, e io non rischio la pelle per così poco.”
“Duecento adesso e gli altri trecento a lavoro finito,” mise in chiaro Jim, intenzionato a non transigere su questo.
“Andata,” accettò, facendo spallucce.
Selina Kyle era già stata ad Arkham, ci si era intrufolata di nascosto. Ai tempi aveva trovato Indian Hill quasi per caso, e non era riuscita a uscire se non con il loro intervento, ma adesso la situazione era ben diversa.
Jim sapeva che il laboratorio si trovava nei sotterranei del manicomio, perciò le aveva detto di recarsi esplicitamente lì. Inoltre la situazione doveva essere molto più tranquilla, perché Strange non aveva ancora iniziato a riportare in vita i morti. O almeno, Jim sperava che fosse presto per quello.
Ciò che aveva chiesto alla ragazza era di entrare non vista e scattare delle foto di ciò che avveniva nel laboratorio, foto che avrebbero attirato l'attenzione su Arkham e che gli avrebbero permesso di ottenere un mandato di perquisizione.
Misero in atto quel piano la sera stessa.
Jim si posizionò abbastanza lontano da non farsi notare e attese nella sua auto per alcune ore. Stava iniziando a pensare che non sarebbe tornata, quando Selina emerse dalla strada buia, aprì lo sportello del passeggero e si sedette accanto a lui.
Dopo essersi lamentata per il lavoro ingrato, gli mostrò le foto scattate là dentro e Jim le esaminò con calma.
Erano foto di cadaveri conservati in alcune vasche, ma anche di prigionieri vivi. Tra questi, Jim riconobbe Alice Tetch e decise di tenere quella foto per sé. Quanto ai cadaveri, in un paio di foto intravide quelli che sembravano Fish Mooney e Valeska e, per evitare di alzare un polverone, tenne da parte anche quelle.
Valeska, in particolare, lo preoccupava molto. Se i suoi fanatici avessero saputo che il suo corpo era lì, forse lo avrebbero trafugato prima o avrebbero tentato qualche altro atto sconsiderato. Jim non poteva permetterselo.
“Conosco una persona che lavora per il Gotham Gazette. Portale le foto e dille dove le hai scattate, ma non fare il mio nome,” disse, riprendendosi la macchina fotografica e facendo per ridarle le altre foto.
“Ehi, la mia parte del lavoro è finita!” si lamentò lei, aggrottando le sopracciglia.
“Solo se non vuoi altri soldi. I giornalisti pagano bene per scoop di questo genere.”
La ragazza considerò le sue parole per qualche secondo, dopodiché accettò quelle foto - e quell'ultima richiesta - senza fiatare.
Così Jim accese l'auto e guidò fino a dove sperava che avrebbero trovato Valerie Vale.
Chapter Text
Con Valerie Vale, Jim aveva avuto una breve relazione. Non in questa linea temporale, no, qui lei probabilmente non lo conosceva nemmeno, e al detective le cose stavano bene così.
Quando Selina uscì dal locale davanti al quale lui l'aveva lasciata, e gli fece un cenno per comunicargli che l'obiettivo era stato raggiunto, Jim non si stupì di vedere la ragazza andare via subito dopo, anziché accettare il passaggio che le avrebbe ovviamente offerto. Selina era sfuggente, lo sarebbe sempre stata ma, in fondo, non era lei che Jim doveva provare a cambiare.
Lunedì mattina il detective si svegliò presto per scoprire che, come aveva previsto, le foto che le aveva chiesto di scattare erano finite sulla prima pagina del Gotham Gazette. Tra di esse c'era anche un prezioso scatto che ritraeva Strange insieme a Fries, il che lasciava intuire che il criminale non fosse ad Arkham per sottoporsi a delle cure e per scontare la sua pena, come avrebbe dovuto, o almeno che il professore stesse approfittando della sua presenza per altri scopi.
Armato della sua copia del giornale, Jim si presentò da un giudice che non ebbe problemi a rilasciare subito un mandato di perquisizione. Perciò, quando arrivò alla centrale quella mattina, lo fece pronto ad andare in guerra. Pronto a parlare con Barnes e a raccontargli del mandato che aveva richiesto di sua iniziativa, ma anche a lasciargli la gestione dell'indagine che aveva tutta l’aria di essere una cosa grossa.
Barnes gli riservò un’occhiata sospettosa, ma non ebbe niente da ridire. Organizzò subito una squadra e la guidò fino ad Arkham. Con loro non c'erano solo agenti e detective, ma anche Edward Nygma, perché non sapevano dove si trovava l'entrata del laboratorio e avrebbero avuto bisogno di tutto l’aiuto possibile per trovarla.
Con il mandato a spianare loro la strada, a niente servirono le parole di Hugo Strange, che sosteneva che non ci fosse alcun piano sotterraneo, apparendo calmo come al solito.
Jim rimase in disparte, soprattutto quando si accorse che i suoi colleghi stavano cercando nella direzione giusta.
In compenso, guardandosi intorno insieme agli agenti che stavano procedendo con l'ispezione completa, notò Fries affacciato alla piccola finestra sulla porta della sua cella e anche il criminale lo vide.
“Gordon!” lo chiamò, con la voce carica di tensione. “Che cosa sta succedendo?”
Era ovvio che non sapesse niente, perché le notizie prima di arrivare ai reclusi venivano filtrate e ciò richiedeva del tempo, o addirittura non arrivavano mai. Inoltre la GCPD aveva agito d'anticipo, intervenendo subito. Era chiaro che al manicomio era giunta comunque voce dell'articolo, perché loro avevano trovato il personale di Arkham in fermento quando erano arrivati, ma non potevano aver avuto il tempo di nascondere la polvere sotto al tappeto.
O almeno, questo era ciò che Jim sperava.
“Pare che ci sia un laboratorio segreto in cui Strange conduce esperimenti illegali. Lo stiamo cercando,” rispose, mantenendo un'espressione neutra.
Victor Fries gli rivolse una lunga occhiata carica di risentimento.
Quell'uomo, che lui aveva arrestato mettendo fine ai suoi tentativi di salvare la moglie, rischiava di diventare la spina nel fianco personale di Jim, come lo era stato Tetch ai tempi. L'ipnotizzatore aveva poi collaborato con Crane e con Valeska, ma non aveva mai smesso di avercela con Jim, mai. E aveva avuto svariate occasioni per dimostrargli quanto fosse pericoloso.
Fries non era ancora diventato Freeze, l'uomo che era morto e che Strange aveva riportato in vita rendendolo un tutt'uno con il freddo, nonché uno degli spietati criminali che infestavano Gotham. Ma, dato che Jim aveva cambiato la sua storia, probabilmente questo non sarebbe mai successo.
Victor Fries però era comunque uno scienziato geniale esperto di criogenia, e ce l'aveva con Jim per i suoi buoni motivi.
“Sapevi che qui avrei potuto continuare i miei esperimenti, quando hai detto che Strange mi voleva. Tu lo sapevi!” dichiarò, alzando progressivamente il tono di voce.
“Non ne avevo idea,” rispose Jim, mantenendosi impassibile.
“No, tu lo sapevi e mi hai voluto fregare!” insistette, questa volta in un ringhio basso e graffiante. “Ora sarò bloccato qui!”
“Hai commesso dei crimini quando non eri sano di mente,” replicò Jim, con nonchalance. “Al prossimo controllo, se risulterai sano verrai rilasciato e i tuoi crimini ti saranno perdonati. È un protocollo che non approvo, ma è così che funziona.”
Era vero, Jim lo aveva visto succedere ad altri reclusi. Sani di mente o meno, se dovevano uscire da lì allora lui avrebbe preferito trasferirli tutti a Blackgate, ma non aveva voce in capitolo. E così, se lo aspettava fin dall'inizio, anche Fries prima o poi sarebbe tornato in libertà.
“Se nel frattempo mia moglie muore, giuro che me la pagherai molto cara,” lo minacciò, a denti stretti.
Jim gli rivolse uno sguardo severo.
“Comportati bene. Arriverà un nuovo direttore, se qui va come credo, e allora il tuo caso verrà riesaminato,” disse, anche se quella era una verità amara per lui, e finse di non aver sentito la sua minaccia. “Ma sappi, Freeze, che se una volta fuori da qui ricomincerai a uccidere, allora ti spedirò a Blackgate personalmente, e con molto piacere.”
“Freeze?” ripeté il criminale, in un tono più calmo.
Jim arretrò di un passo mettendo distanza tra sé e la porta blindata. Aveva parlato solo nella speranza che Fries non lo credesse al corrente di tutto e non gli portasse più rancore di così, ma aveva esagerato. Comunque, non si aspettava gravi ripercussioni per questo.
Tornò dagli altri, perché restare a parlare con lui non gli sembrava una mossa prudente, inoltre riteneva che non avessero altro da dirsi.
Il Jim di quel tempo non si sarebbe mai comportato in quel modo, aggirando la legge o piegandola a suo piacimento. Il Jim di adesso, però, da disilluso per non essere riuscito a salvare la città si era ritrovato con la possibilità di cambiare le cose, ed era intenzionato ad andare fino in fondo.
Non ci volle molto perché i colleghi trovassero l'entrata del laboratorio sotterraneo. Una volta scesi di sotto e vista la situazione con i loro occhi, fu chiaro a tutti come procedere. Barnes arrestò personalmente Hugo Strange e organizzò il trasporto di tutto il materiale di Indian Hill perché venisse analizzato. Quanto ai pochi individui reclusi in quella zona segreta del manicomio, non era ancora chiaro cosa fare di loro ma prima di tutto andavano portati alla centrale e interrogati.
Tra loro c'era Alice Tetch.
Jim l'aveva vista in foto e sapeva che probabilmente l'avrebbe incontrata presto, se al loro arrivo ad Arkham non ci sarebbe stata la fuga dei prigionieri, come era successo la prima volta. Questa volta agire tempestivamente, sapendo cosa avrebbero trovato, era stata la chiave per poter gestire meglio la situazione.
In ogni caso, il detective non si era preparato all'incontro con lei. La sua liberazione da Arkham comportava soltanto una cosa, ovvero che suo fratello avrebbe iniziato a cercarla. Lui sapeva che lei era al manicomio, dove Strange stava studiando gli effetti del virus trasmesso dal suo sangue, e presto i giornali locali avrebbero parlato di come il professore era stato arrestato e il suo laboratorio segreto smantellato.
Un bello smacco anche per la Corte dei Gufi, Jim sperava.
Ma questo significava che Alice sarebbe stata in pericolo e Jim, in quanto detective della GCPD incaricato di interrogarla, non poteva ancora proteggerla.
Alla fine non fece niente di particolare, infatti, promettendosi di occuparsene al più presto possibile. Si limitò a fare il suo dovere, ovvero chiederle chi fosse e perché si trovasse lì. La ragazza, ovviamente, mentì. Disse che era stata rapita e di non sapere perché Strange la tenesse prigioniera.
Dopo aver ottenuto un parere esterno sulla sua sanità mentale, Alice venne lasciata libera di andare, dato che era maggiorenne.
Jim non sapeva ancora come sarebbe stato meglio agire, ma sperava di fare in tempo a salvarla, questa volta, e nel farlo sperava anche di liberarsi di Tetch una volta per tutte.
“Sei diverso in questi giorni, Jimbo,” gli disse Harvey, quella sera.
Avevano dovuto destreggiarsi tra interrogatori e scartoffie per il resto della giornata, così quando il suo amico gli aveva proposto di uscire a bere lui aveva accettato. C'erano ancora delle questioni urgenti di cui occuparsi, certo, ma non credeva fosse una cattiva idea festeggiare perché parte del problema si era risolto, e persino pacificamente.
“Cosa vuoi dire?” chiese, volendo sentire perché Harvey lo pensava.
“Te ne stai sempre chiuso in te stesso,” rispose, corrugando la fronte. “E ancora una volta sembrava sapessi cosa avremmo trovato ad Arkham. È stato come con il caso precedente e con quello prima ancora.”
Jim stirò le labbra in un sorriso e scosse la testa.
“Non lo sapevo, come avrei potuto?” replicò, sperando di poter chiudere presto il discorso, senza il bisogno di trovare delle scuse.
Non poteva ricordare a memoria ogni caso affrontato più di dieci anni prima, ma aveva un'idea di come procedere e di quali piste scartare. E se era sempre silenzioso e pensieroso era proprio perché aveva tante cose su cui riflettere. In quanto ad Arkham…
“E in un certo senso tutti sapevano di Arkham, era sul giornale di questa mattina.”
“Sì, ma tu l'hai portato alla centrale per primo insieme a un mandato per perquisire il manicomio. Dannazione, Jim, sembrava che sapessi tutto e volessi intervenire prima che Strange scappasse portando i suoi esperimenti con sé.”
Ancora una volta, Jim non si scompose.
“Non ho resistito alla tentazione di chiedere subito un mandato per vedere se era tutto vero. Era ovvio che, se avessimo esitato, avrebbe fatto sparire le prove,” sottolineò, come se niente fosse.
“Già, ma normalmente avresti dovuto parlare con Barnes e lui avrebbe chiesto il mandato, o ti avrebbe ordinato di farlo,” insistette, e Jim si domandò dove volesse arrivare.
Dopotutto, non gli aveva creduto quando aveva provato a dirgli la verità, e per lui alla fine era stato meglio così.
“Ho solo preso l'iniziativa,” disse, ma era chiaro che il suo amico non gli credeva, quindi sospirò. “E va bene, è un periodo in cui tutto sembra andare storto e avevo bisogno di sfogarmi. Quando ho letto l'articolo, è stato più forte di me.”
“Si tratta di Lee?” gli chiese Harvey, dopo un paio di secondi di silenzio, questa volta parlando in un tono più calmo e tinto da una nota di empatia.
“Sì… ma non solo di lei. L'ho lasciata io, Harvey. Prima di Galavan, non faceva che tentare di psicanalizzarmi e limitarmi. Non dico che fosse un male, anzi so che ero molto arrabbiato, ma dopo è cambiato tutto. Non riuscivo più a immaginare un futuro con lei.”
In parte era vero, solo che non si trattava del problema principale, che occupava davvero la sua mente.
“Deve essere uno schifo lavorare con la propria ex. Non ti invidio,” disse Harvey, al che Jim tese le labbra in un mezzo sorriso forzato.
“E poi c'è Fries. Ce l'ha con me da quando lo abbiamo arrestato, è diventata una questione personale.”
Almeno quel pensiero credeva di poterlo condividere con il suo migliore amico.
Il vecchio Freeze che ricordava era in grado di congelare le persone e lasciarle lì, vive, anche per lungo tempo. In effetti si trattava di ciò che sperava di riuscire a fare per sua moglie. Il Freeze di adesso non ne era ancora in grado, ma uccideva con il suo raggio congelante e forse un giorno non troppo remoto lo avrebbe puntato contro di lui.
Jim sperava solo di aver già fatto la differenza per la città, per allora.
“È sempre un caso personale per i bastardi che sbattiamo dentro,” sottolineò Harvey.
Non aveva tutti i torti… solo che alcuni di loro erano molto più vendicativi, creativi e spietati di altri.
“Che ne è stato dei cadaveri trovati nel laboratorio sotterraneo di Arkham?”
Se c'era una questione urgente, forse anche più della protezione di Alice Tetch, probabilmente era questa.
Jim sapeva che Jervis Tetch sarebbe presto arrivato a Gotham per cercare la sorella, e che forse qualcuno della Corte dei Gufi avrebbe tentato di impedire il trasferimento di Strange verso un luogo sicuro, ma prima di tutto voleva elaborare un piano per quei cadaveri, per togliersi il pensiero una volta per tutte.
Non aveva dimenticato che tra di essi c'era quello di Valeska.
“Sono stati portati all'obitorio stamattina presto,” lo informò Lee, senza un accenno di sorriso.
Cercava di mostrarsi serena in sua presenza, pur non sorridendo, ma era chiaramente a disagio. Dopotutto, si erano appena lasciati.
Guardandola, Jim riusciva a ricordare tutti i bei momenti trascorsi insieme, ma soprattutto ricordava come era cambiata negli anni a causa sua. Come aveva dichiarato di odiarlo, come lo aveva costretto a iniettarsi il virus di Alice Tetch... Come aveva sedotto Nygma per poi abbandonarlo, e andarsene con i soldi di una rapina fatta con lui.
Però, malgrado anche Jim non si sentisse del tutto a suo agio a parlarle, aveva preferito di gran lunga chiedere a lei piuttosto che rivolgere la stessa domanda a Edward.
Indeciso sul da farsi, alla fine annuì e si voltò verso la porta con l'intenzione di andarsene.
“Jim, non ci parliamo da giorni e la prima cosa che mi chiedi riguarda i cadaveri trafugati da Strange?” sottolineò lei, con una punta di indignazione nella voce.
“Hai ragione, sono stato indelicato…” ammise, voltandosi nella sua direzione. “Come stai?”
“Come vuoi che stia?” chiese lei, corrugando la fronte.
“Altra domanda stupida, lo so,” disse, prima che potesse puntualizzarlo lei stessa.
Invece di ribattere, la sua ex gli rivolse uno sguardo preoccupato.
“Piuttosto, tu come stai? Non hai una bella cera…”
Lui non era più il Jim che lei aveva conosciuto fino a quel momento. Era un uomo con tredici anni di esperienza in più - e tante delusioni - sulle spalle. Che se ne fosse accorta? In effetti, avevano vissuto insieme per un periodo e nei ricordi di lei doveva essere ancora tutto molto vivido. Sicuramente lo conosceva meglio di Harvey, che si era comunque accorto che qualcosa non andava.
“Sono solo stanco,” dichiarò, ma lei non ne sembrò convinta.
Gli si avvicinò con calma e posò una mano sulla sua guancia destra, e fu un contatto intimo che in qualche modo lo riportò indietro ai vecchi tempi. Tempi che, adesso, non erano poi tanto lontani... Ma Jim, anche con lei che scaldava la sua guancia fredda con il suo tocco gentile, non provò assolutamente niente.
Forse accorgendosi di qualcosa di diverso nei suoi occhi, qualcosa di spento magari, Lee ritrasse la mano. Il suo sguardo preoccupato, però, non mutò.
Non disse altro, e Jim, dopo averle rivolto un lungo sguardo confuso, lasciò il suo ufficio per tornare al piano di sopra.
Trafugare dei cadaveri non doveva essere un compito difficile. Sarebbe bastato assumere dei tizi poco raccomandabili che se ne occupassero per lui, e Jim sapeva bene dove trovarne. Sarebbe stato più difficile, piuttosto, farli sparire definitivamente, ma il piano di Jim era quello di bruciarli senza farsi scrupoli.
Conosceva un posto dove c'era una grande fornace industriale, una fabbrica abbandonata da anni, e decise che sarebbe stato il posto ideale. Per questo non perse tempo, prelevò altri soldi dal suo conto corrente e ingaggiò una banda che avrebbe svolto il lavoro. Si presentò a loro col volto coperto e allo stesso modo assistette mentre gettavano nella fornace i resti di Fish Mooney e di Jerome Valeska.
Sperava che l'eliminazione del cadavere di Jerome avesse delle grandi ripercussioni positive sul futuro di caos che attendeva la città. Sperava che, con il suo corpo sparito nel nulla, suo fratello Jeremiah sarebbe rimasto per sempre bloccato dalla paura di incontrarlo.
Jim, di certo, non sarebbe entrato nel suo labirintico bunker per occuparsi di lui.
Immaginava che prima o poi la pazzia di famiglia sarebbe emersa, anche senza Jerome a provocarlo e a infettarlo con un gas creato appositamente per quello scopo... Ma quando sarebbe successo, sperando di avere molti meno criminali pericolosi intorno, forse Jim avrebbe saputo gestirlo diversamente.
Mentre guardava il suo corpo bruciare provò un senso di liberazione. Jerome era morto, sarebbe morto comunque a un certo punto, ma adesso i suoi fanatici non avrebbero potuto riportarlo in vita. Inoltre dalle sue ceneri non sarebbe emerso il fratello, Jeremiah. Non ancora, almeno, il che era già una piccola vittoria.
Ora toccava al suo prossimo obiettivo. Ora toccava a Edward Nygma.
Notes:
Lo so, un capitolo senza Oswald (in una fanfiction sulla Gobblepot) è uno spreco, ma era necessario! Jim doveva occuparsi di tante questioni urgenti... Ma vi prometto che nel prossimo capitolo lui ci sarà. Dopotutto, lo abbiamo lasciato dai Van Dahl... dove la situazione non è esattamente tranquilla.
Vorrei sottolineare tante cose di questo capitolo, ma ho deciso di non farlo. Spero che le abbiate colte da soli e, se vorrete lasciarmi un commento, sarei molto felice di leggerlo.
Chapter Text
I criminali con i quali Jim aveva sempre avuto a che fare, a Gotham, avevano tutti un elemento in comune. Ovvero era facile che si alleassero tra loro, che in seguito diventassero nemici giurati, per poi allearsi ancora in un susseguirsi di tradimenti, odio, tregue e perdono, come se niente fosse.
Jim aveva assistito a questo schema innumerevoli volte, con Pinguino e l’Enigmista, ma anche con il gruppo di Barbara, e non lo aveva mai compreso fino in fondo anche perché non aveva mai voluto farlo davvero.
Quanto a lui, un conto in sospeso ce l'aveva eccome e non lo aveva affatto dimenticato, né si sentiva incline al perdono.
E il suo conto in sospeso era con Edward Nygma.
L'uomo che aveva continuato a lavorare come se niente fosse dopo aver fatto sparire due colleghi, e che poi ne aveva ucciso un terzo per far ricadere le accuse su Jim. Come se non bastasse, una volta rinchiuso a Blackgate, Jim aveva rischiato la vita e perso per sempre Lee.
Per non parlare della volta in cui Nygma aveva tentato di ucciderlo personalmente, schiacciandolo con una pressa industriale, con l'intenzione di liberare Lee dal ricordo della loro storia d'amore.
Edward non poteva rimanere impunito. Jim non poteva fare finta di niente mentre lui continuava imperterrito a degenerare, faceva del male alle persone che aveva intorno e trascinava persino Oswald con sé. Anche grazie alla sua influenza sarebbe diventato l'uomo che poi lo avrebbe ucciso, Jim ne era certo.
Per questo aveva pensato a un piano anche per lui, e si trattava di un piano molto semplice.
I corpi delle sue vittime erano sepolti in un posto che soltanto Edward conosceva, ma doveva aver commesso qualche errore con loro, trattandosi dei suoi primi omicidi. Quindi, dopo averli trovati, sarebbe stato facile ricondurli a lui… Anche perché le persone che aveva ucciso erano la sua ragazza e l’ex di lei.
Ciò che l’Enigmista non poteva immaginare era che Jim sapeva dove si trovavano i cadaveri, dato che aveva già assistito al loro ritrovamento.
Il suo piano, quindi, prevedeva che qualcuno trovasse - per caso - i corpi e chiamasse la polizia. Da lì, ne era certo, sarebbe stato facile risalire a lui.
Per metterlo in pratica, Jim dovette ancora una volta dare fondo ai suoi risparmi. Pagando qualcuno per perlustrare quel punto specifico del bosco, senza dire cosa avrebbe dovuto cercare, non sarebbe stato coinvolto e collegato al ritrovamento.
Per quanto sapesse che non avrebbe avuto bisogno di fare grosse spese nell’immediato futuro, aveva prelevato decisamente troppi soldi dal suo conto corrente, in quel periodo. Mancava ancora un po’ di tempo a quando avrebbe ricevuto il prossimo stipendio e questo era preoccupante. Soprattutto perché non aveva ancora capito come fare a proteggere Alice Tetch, senza fondi a cui attingere.
Un’idea ce l’aveva, e sperava che funzionasse, ma di soldi gliene sarebbero serviti molti, per metterla in pratica…
Qualche giorno dopo, Strange era stato portato al sicuro in una struttura segreta e le indagini sui corpi di Kirsten Kringle e Tom Dougherty erano iniziate. Fu allora che Jim venne sorpreso da una telefonata inaspettata. Dato che si trovava al lavoro, e che quella chiamata doveva riguardare qualcosa di strettamente confidenziale, si affrettò verso l’uscita prima di rispondere.
“Sì?” disse, semplicemente, perché non trovava prudente chiamare per nome il suo interlocutore, non in quel luogo e in quel momento.
“Jim!” esclamò Oswald, e il detective corrugò la fronte mentre si domandava cosa fosse capitato che lo avesse reso tanto agitato. “Devi venire alla villa! Avevi detto di rivolgermi a te, se fosse successo qualcosa…”
“Cos'è successo?” chiese, aspettandosi il peggio.
“Te lo spiegherò al tuo arrivo.”
“Ti rendi conto che io sono al lavoro?” sottolineò.
“Mio padre è stato quasi ucciso da sua moglie, Jim,” esalò, con rabbia. “Adesso ti decidi a venire qui o devo risolvere la questione a modo mio?”
“Arrivo,” sospirò.
Trovare una buona scusa per chiedere ad Harvey di coprirlo fu complicato, ma non gli richiese più di un paio di minuti, dopodiché Jim si precipitò alla sua auto e partì in direzione della villa dei Van Dahl.
Gli dispiaceva lasciare la centrale mentre i suoi colleghi si affaticavano per capire chi avesse ucciso Dougherty e Kringle, ma Jim non voleva farsi notare perciò alla fine si disse che non sarebbe successo niente se non lo avessero visto in giro per un po’.
Quanto a Oswald, ora Jim capiva meglio cosa doveva essere successo ai tempi. Sapere che gli eventi di allora non si erano verificati allo stesso modo, però, gli fece provare una piccola soddisfazione.
In questo caso, non era stato lui a impegnarsi per rimediare agli sbagli commessi nella sua linea temporale originale. O meglio, si era impegnato all’inizio, ma poi aveva lasciato Oswald alla sua vita, libero di agire come preferiva, e Oswald aveva agito diversamente.
Lui non aveva ceduto ai suoi istinti distruttivi e aveva chiamato Jim, rispettando il suo volere e dimostrandosi capace di ragionare in modo lucido.
Sì, Jim si sentiva soddisfatto già per questo. Si trattava solo di una piccola vittoria, ma gli fece pensare che le sue fatiche avessero un senso.
Quando arrivò alla villa dei Van Dahl, bussò alla porta e ad aprirgli fu la cameriera.
Jim era già stato lì, in passato. La prima volta che aveva varcato la soglia di quella grande casa era stato nel periodo in cui Oswald era scomparso, e la città rischiava di sprofondare nel caos a causa di Valeska.
Ai tempi, la villa era immersa nella penombra e in uno dei saloni lui e i colleghi avevano trovato un dipinto raffigurante Oswald, sul quale era stato disegnato un punto interrogativo verde. In seguito l'Enigmista aveva dichiarato di averlo ucciso, anche se poi non si era rivelato propriamente vero.
La scena che si ritrovò davanti Jim questa volta, entrando in quello stesso salone, fu ben diversa.
Tre persone stavano sedute e avevano le mani legate dietro alla schiena, un cane si trovava a terra morto accanto a una macchia lasciata da un liquido scuro e del signor Van Dahl non c'era traccia.
In compenso, Oswald era lì e sembrava essersi completamente ripreso dai giorni trascorsi ad Arkham, non solo perché adesso indossava degli abiti ancora più costosi di prima, ma anche - e soprattutto - perché stava riservando a quei tre uno sguardo omicida, sintomo del fatto che non fosse cambiato affatto, dentro di sé. Ma Jim non si era aspettato altrimenti.
E poi, come non notare il pugnale che aveva in mano, pronto all'uso?
“Jim!” esclamò, e lo raggiunse sulla soglia prima che lui potesse varcarla.
Da quel punto potevano tenere d'occhio la situazione e, allo stesso tempo, parlare liberamente, se a bassa voce.
“Grace ha servito del vino per me e mio padre, ma lui ha accidentalmente versato il suo bicchiere e il cane, accorso a bere, è morto sul colpo,” raccontò in modo veloce.
Era chiaro che fosse ancora agitato.
“Dobbiamo renderla un'indagine ufficiale,” dichiarò Jim, adesso che sapeva di cosa si trattava. “Chiamo Harvey.”
“No! Meglio risolverla tra noi e ufficializzare il tutto in seguito.”
Jim mise via il telefono, che aveva già prontamente impugnato.
Se avesse chiamato i rinforzi, si sarebbero insospettiti nel vedere lui fuori da Arkham ed era ovvio che Oswald non volesse questo. Dopotutto, era passato troppo poco tempo da quando vi era stato rinchiuso.
“Serve almeno qualcuno che possa analizzare il veleno,” sottolineò, e la sua mente andò subito a Lee.
Forse avrebbe potuto concedere loro un minimo di segretezza, forse, ma poi avrebbe fatto a Jim una paternale infinita, comprendendo che lui c'entrava qualcosa con la prematura scarcerazione di Oswald. Inoltre chiamare lei per un caso significava lasciare Edward, da solo, ad analizzare le prove di due omicidi che lui stesso aveva commesso. Prove alle quali non aveva accesso, dato che era troppo coinvolto con le vittime, ma conoscendolo avrebbe comunque trovato un modo. No, non si poteva fare.
“Edward,” propose Oswald, mentre Jim pronunciava a mezza voce lo stesso nome.
Lo scienziato, al telefono, si dimostrò agitato e non interessato a collaborare. Insolito, per lui, ma Jim capiva perché si stava comportando così.
Anche al suo arrivo, esaminò la situazione con freddezza e raccolse le prove sbrigativamente, mentre rispondeva male o in modo nervoso ai loro discorsi relativi a quanto era accaduto. A Jim parve anche di vederlo parlare da solo, a un certo punto.
Oswald gli rivolse uno sguardo stranito, ma non gli domandò mai il perché del suo comportamento.
Nel frattempo Grace e i suoi figli chiesero più volte di essere liberati, dicendo che Oswald era pazzo e loro non avevano fatto niente, e Jim assicurò loro che sarebbe successo presto. Quando invece provarono a rivolgersi a Nygma, lui li ignorò o replicò in modo decisamente infastidito.
Oswald, intanto, era rimasto a osservare la situazione stando in disparte, come se non si fidasse a lasciare quei tre con loro, come se loro avrebbero potuto decidere di liberarli ed essere indulgenti. Ogni tanto Jim alzava lo sguardo su di lui e si accorgeva delle occhiate che Oswald gli riservava, ma non riusciva a interpretarle.
“Devo tornare al laboratorio per fare delle analisi complete,” annunciò con freddezza Edward, procedendo con passo sicuro verso la porta senza guardare nessuno.
Fu allora che Oswald scattò in piedi per seguirlo, mentre gli chiedeva cosa gli fosse successo.
Jim conosceva la risposta, perciò rimase concentrato sul suo lavoro. Sperava solo che l'amicizia tra quei due non fosse tanto profonda da far sì che Oswald decidesse di farlo uscire da Arkham, una volta rinchiuso lì. Altrimenti sarebbe stato tutto inutile.
Poco dopo lui tornò nel salone, questa volta da solo.
“Come sta tuo padre?” gli chiese Jim, che non lo aveva ancora visto.
“Era scosso, ma sta bene. Ho chiesto al suo medico di visitarlo, per ogni evenienza,” spiegò, rivolgendo uno sguardo duro alle spalle di Jim, verso Grace e i figli che erano ancora legati.
“Parliamo un momento, in privato,” gli disse il detective, e Oswald gli rivolse uno sguardo smarrito ma annuì.
Si spostarono in un altro ambiente della casa, un secondo salotto più grande, probabilmente progettato per ospitare delle feste. Qui, Jim sospirò impercettibilmente prima di decidersi a dare voce ai suoi pensieri.
“Dobbiamo rendere l'indagine ufficiale. Insieme ad Harvey, porterò la signora Van Dahl alla centrale dove verrà regolarmente interrogata. Dubito ci sia modo di provare la complicità dei figli.”
Alle sue parole, Oswald indurì lo sguardo e si mise a picchiettare la gamba destra a terra in un gesto nervoso che a Jim non passò inosservato.
“Tu non puoi farti trovare qui e rispedire ad Arkham,” sottolineò.
Se fosse successo, i suoi sforzi per liberarlo e poi mandarci Edward sarebbero stati vani.
Oswald gli rivolse uno sguardo confuso e smise di agitarsi.
“Sei preoccupato per me, James?” gli chiese, e quella domanda lo lasciò interdetto per un lungo momento. “A questo avrei già pensato, in realtà,” aggiunse, ed estrasse da una tasca della giacca un foglio accuratamente piegato.
Jim lo esaminò e scoprì che si trattava di un certificato di Arkham che stabiliva che lui era tornato sano. La firma apposta in calce era quella di Reed, il nuovo direttore del manicomio, e la data lo faceva risalire a qualche giorno prima.
Quel documento era stato ovviamente ottenuto con delle minacce, ma gli fece tornare in mente il fatto che anche Freeze era di nuovo in libertà, adesso. Il che era frustrante dal punto di vista di coloro che volevano far rispettare la legge, ma rendeva plausibile anche la storia di Oswald.
Così Jim annuì e tornò a rivolgergli lo sguardo, accorgendosi che Oswald lo stava scrutando attentamente.
“Quando mi hai permesso di uscire da lì, hai detto che posso ancora cambiare, ma ti confesso di non volerlo fare,” gli disse, con calma ma anche con una certa intensità nella voce. “Io ritengo di andare più che bene, così come sono.”
“Non volevo dire il contrario,” ribatté Jim, temendo di averlo offeso e che sarebbe stato l'inizio della fine per lui. “Mi sono espresso male…”
“Allora cosa intendevi?” indagò Oswald, che non sembrava disposto a lasciar cadere l'argomento.
“Che posti del genere servono a punire le persone, non a farle cambiare, e che a te non avrebbe fatto niente di buono.”
Oswald corrugò la fronte, chiaramente non soddisfatto dalla sua risposta.
“Oggi, quando mi hai chiamato, mi hai dimostrato che ho fatto la scelta giusta.”
A quelle parole, Oswald schiuse le labbra e boccheggiò.
“Che cosa posso dire? Te lo dovevo, a questo punto. Sei stato un amico migliore di quanto avrei potuto immaginare… Nessun altro avrebbe fatto qualcosa del genere, per me,” dichiarò, e Jim ponderò le sue parole in silenzio. “Persino i miei sottoposto più fedeli mi avrebbero lasciato a marcire ad Arkham. Tu, invece, senza che ti chiedessi niente, mi hai aiutato. Non lo dimenticherò.”
Jim sospirò impercettibilmente. Sapere di non essere già finito sulla sua lista nera era un sollievo, lo era anche perché forse, molto presto, avrebbe dovuto chiedergli un favore.
“Tornando all'indagine,” intervenne, per riportare il discorso sulla questione più urgente, “ci penseremo io e Harvey. Se Barnes vede il certificato e sente una versione incoerente da parte dei tuoi familiari, è la fine.”
“A proposito, non ti ho ancora ringraziato per avermi portato qui,” disse Oswald, come se ciò che aveva detto Jim non fosse importante. “Elijah Van Dahl è mio padre… Fatico ancora a capacitarmene. Ma tu lo sapevi già?”
“No,” rispose, senza alcuna enfasi.
Sperava che l'apatia che sentiva dentro lo aiutasse a mascherare quella menzogna, anche se Oswald era bravo a capire le persone.
“In ogni caso, non lo dimenticherò,” ripeté, offrendogli un sorriso tirato.
“Allora, se mai arriverà il giorno in cui deciderai di uccidermi, ripensa a questo momento,” replicò con nonchalance Jim, prendendo il cellulare per comporre il numero di Harvey, senza perdere altro tempo.
“Jim, spiegami cosa sto vedendo, perché da solo non lo capisco,” disse Harvey, una volta messo piede nel salotto. “Prima di tutto, l'emergenza per cui sei dovuto correre via era Cobblepot? E loro chi sono, i suoi ostaggi?”
“So che faticherai a crederci, ma no,” rispose, e gli fece segno di seguirlo in corridoio, dove avrebbero potuto parlare in privato. “Oswald ha scoperto di essere il figlio di Elijah Van Dahl, loro sono la moglie e i suoi figli. Lei ha tentato di uccidere lui e suo marito con del vino avvelenato.”
“Oh cavolo… Ma prima di occuparci di questo, non mi spieghi cosa ci fa fuori da Arkham?”
Jim si passò una mano tra i capelli in un gesto nervoso. Era ovvio che Harvey volesse delle spiegazioni a riguardo, ma lui non aveva avuto il tempo di pensare a una giustificazione adeguata.
“Non dirmi che sei stato tu? Lo hai aiutato a scappare?” continuò, in un tono alterato. “Jim, è un pazzo assassino e finalmente la città si era liberata di lui!”
Per quanto in passato Jim avrebbe pensato la stessa cosa, ora sapeva che non era davvero così. Oswald poteva fare del bene per Gotham, lo aveva dimostrato ai tempi quando era diventato sindaco, ma anche per come aveva gestito la malavita sin da quando ne aveva preso il controllo. Pax Penguina a parte, ovviamente.
“No, non proprio,” rispose, conscio che la verità fosse molto più complicata da spiegare.
Non poteva fargli capire perché lo volesse fuori da Arkham senza parlargli di Edward e soprattutto di Freeze, che era tornato in libertà a causa sua.
“Ha un certificato che dimostra che è sano, solo che è datato qualche giorno dopo il suo effettivo rilascio e arrivo in questa casa…”
“Jim!” esclamò Harvey, indignato.
“So che sembra tutto assurdo, ma ti spiegherò a tempo debito. Puoi fidarti di me?”
“A questo punto non lo so più,” esalò, assottigliando lo sguardo. “Jim, cosa ti è capitato? Quasi non ti riconosco!”
Harvey aveva tutte le ragioni di comportarsi così. Jim, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso… E per quanto, anche in passato, era capitato che si trovassero in disaccordo diverse volte per poi sistemare le cose tra loro, Jim non voleva litigare con il suo migliore amico. Sentiva di non averne le forze. Inoltre aveva davvero bisogno della sua collaborazione adesso.
“Lo capisco, ma ti garantisco che so cosa sto facendo.”
“Non so se questo mi basta,” ribatté Harvey, rivolgendogli una lunga occhiata carica di sospetto. “Questo caso rischia di trascinarci giù entrambi e tu vuoi che io mi fidi e ti segua? Devi darmi almeno un buon motivo per farlo.”
“Non poteva restare ad Arkham, Harvey. Altrimenti sarebbe rimasto a stretto contatto con una persona che avrebbe fatto meglio a evitare. Per il bene della città, intendo.”
Dirgli che era stato mandato ad Arkham per un crimine che in realtà aveva commesso lui era fuori discussione. Anche spiegargli ciò che aveva fatto con Freeze lo era, per questo aveva deciso di accennare qualcosa riguardo a Edward, anche se aveva preferito rimanere sul vago.
L’espressione del suo partner si fece confusa, ma fu allora che il medico di Elijah Van Dahl scese al piano di sotto, attirando la loro attenzione. Chiese se loro erano i detective chiamati per ricostruire i fatti e riferì che le medicine lasciate accanto al letto del padrone di casa, che gli venivano somministrate giornalmente, non erano quelle prescritte da lui. Altro elemento preoccupante che confermava che qualcosa non andava, in quella famiglia.
“E va bene Jim, andiamo in fondo a questa storia,” disse Harvey, quando il dottore si diresse alla porta. “Ma non credere che me ne dimenticherò.”
Il suo amico era arrabbiato, era chiaro, ma Jim era grato che almeno non volesse tirarsene fuori.
Il caso Kringle non era stato affidato a loro, perciò avevano il dovere occuparsi di altre segnalazioni e disordini. Quella di Oswald era proprio una situazione di quel tipo.
Certo, Barnes non fu felice quando scoprì che lui era già tornato in libertà, né quando seppe che si trovava alla centrale per dare la sua deposizione in modo ufficiale. Non che Oswald fosse contento di trovarsi lì.
Comunque, Jim era sorpreso che stesse collaborando fino a quel punto.
Alla fine l’indagine non si rivelò complicata. La moglie del signor Van Dahl aveva sostituito le sue medicine e infine era ricorsa al veleno, volendo uccidere sia lui sia il figlio ritrovato da poco. Quanto ai figli di lei, non c’era modo di provare che fossero a conoscenza del suo piano.
Forse Elijah Van Dahl non avrebbe mai testimoniato contro Grace, ma - a prescindere da questo - era malato e scosso a causa delle scoperte appena fatte, perciò si fecero bastare la dichiarazione di Oswald, del medico di famiglia e di Olga, ovvero la governante, anche se per parlare con lei servì un interprete. Le prove, in ogni caso, erano schiaccianti.
Anche alla centrale, Edward collaborò il minimo indispensabile, chiaramente distratto e preoccupato da questioni che non avevano a che fare con quel caso. Harvey invece rimase sempre al suo fianco, ma lo stava chiaramente ignorando e Jim non aveva la forza mentale per affrontarlo, né sapeva quali sarebbero state le parole giuste da usare con lui.
Sapeva solo di non poter ricorrere alla verità, perché non gli avrebbe creduto. Oppure, se l’avesse fatto, metterlo al corrente di tutto quanto avrebbe potuto cambiare le cose creando degli scenari imprevedibili per Jim, che quindi avrebbe perso il suo vantaggio. E purtroppo, considerando la mente geniale di alcuni dei malviventi che infestavano - o avrebbero infestato - la città, lui aveva solo quello e sapeva di dovercisi aggrappare con tutte le sue forze.
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Jim Gordon, nella penombra del suo appartamento, prese coscienza del fatto di essere stanco e di sentirsi davvero solo.
Harvey lo ignorava da giorni, rispondendo brevemente quando parlavano di un caso e comportandosi in modo sfuggente per il resto del tempo. Jim intanto stava fingendo che non ci fosse alcun problema pur di non dover affrontare di nuovo il discorso che li aveva portati a quel punto.
Nel frattempo Edward era stato arrestato e trasferito ad Arkham, il che era un sollievo perché così non avrebbe dovuto più vederlo al lavoro, né preoccuparsi che si accanisse contro di lui, o che uccidesse ancora.
Erano passati alcuni giorni dalle indagini a villa Van Dahl, che si erano concluse con Grace arrestata per tentato omicidio.
Freeze era tornato in libertà già da prima, ma non aveva più fatto parlare di sé. Un altro di cui ancora non si avevano notizie era Jervis Tetch, ma Jim sapeva che presto sarebbe arrivato a Gotham e allora sarebbe stata la fine. Allora, probabilmente, sarebbe stato troppo tardi per aiutare Alice.
Ma, a dirla tutta, Jim non sapeva come muoversi a questo punto, e il pensiero lo tormentava.
Non poteva parlare con nessuno della sua missione personale e di ciò che stava passando. Si sentiva più solo di quando Sofia Falcone lo aveva reso capitano della GCPD, strappando il ruolo ad Harvey, e il suo amico - che già ce l’aveva con lui - aveva iniziato a prendere le distanze del tutto.
Si sentiva più solo di quando, con Gotham isolata e divisa tra le bande, aveva cercato di convincere il continente a mandare aiuti, ma questi gli erano stati continuamente negati.
Inoltre si sentiva vuoto.
Perciò, mentre ripuliva la sua pistola stando seduto nella penombra del soggiorno, non si stupì più di tanto quando un pensiero distruttivo gli attraversò la mente. L’invitante prospettiva di smettere di cercare di salvare tutti e di impedire ai disastri di verificarsi, perché magari i suoi sforzi sarebbero stati inutili.
Forse avrebbe fatto meglio a smettere di tentare, così disperatamente, di tenere Gotham insieme. Dimenticare la sua intenzione di impedire ai criminali di fare i loro comodi, anzi persino di diventare ciò che un giorno avrebbe terrorizzato la città.
Avrebbe potuto, semplicemente, lasciar perdere. E per farlo, per non subire ripercussioni in seguito, per non diventare preda dei sensi di colpa che ne sarebbero conseguiti, avrebbe potuto scegliere una via d’uscita semplice, immediata e a portata di mano. Ovvero la sua pistola.
Quindi bevve un altro sorso di whisky, posò l’arma davanti a sé, sul tavolo, e ruminò quel pensiero nella sua mente, senza davvero elaborarlo o considerarne i pro e i contro.
Si sentiva vuoto, stanco, solo, ma non c’era una vera via d’uscita che non avesse delle conseguenze… se non quella. E improvvisamente, per la prima volta in vita sua, gli sembrò una scelta invitante anziché assurda.
Aveva già vissuto quegli eventi e aveva visto come sarebbe andata a finire per lui. Perciò, perché aspettare?
Forse aveva solo bevuto troppo. Forse una bella dormita, senza gli incubi che lo tormentavano costantemente, lo avrebbe rimesso in sesto. O forse… forse no.
Così, prima ancora di rendersene conto, tese le dita per arrivare a toccare la pistola e infine la strinse in mano.
Fu allora che qualcuno suonò il campanello, interrompendo il loop di pensieri distruttivi in cui era intrappolato. Non curandosi di mettere via l’arma, Jim la posò di nuovo sul tavolo e si alzò pigramente per scoprire chi aveva deciso di disturbarlo.
Corrugò la fronte quando aprì la porta e vide che fuori dal suo appartamento c’era Oswald, che adesso gli rivolgeva un sorriso teso.
Era vestito elegante, come al solito, e aveva i capelli acconciati in un modo impeccabile e stravagante, malgrado fuori stesse piovendo a dirotto.
“Che ci fai qui?” gli chiese, forse più bruscamente di come avrebbe voluto, infatti quell'ombra di sorriso abbandonò subito le sue labbra.
“Non ci vediamo da qualche giorno e quindi mi domandavo come te la stessi passando.”
L'espressione sul volto di Jim non mutò. Non erano così amici da preoccuparsi l'uno per l'altro, anzi non lo erano affatto. Ma perché sprecare il fiato per sottolineare l'ovvio?
“Sto alla grande,” rispose, senza alcuna enfasi.
“A vederti non si direbbe. Posso entrare? Qui fuori si gela...”
Jim avrebbe tanto voluto dirgli di tornare a casa sua, se aveva freddo, ma represse quel commento acido con un sospiro mentre si spostava e gli faceva cenno di entrare.
Forse era lì per un altro motivo, solo che non ne aveva ancora parlato. E Jim, dopotutto, non aveva niente di meglio da fare. Aveva trascorso quell’intero weekend a casa, nella piatta apatia.
Non gli passò inosservato il fatto che lo sguardo del suo ospite si era posato sulla pistola abbandonata sul tavolo, e poi sulla bottiglia di whisky mezza vuota, entrambe rimaste in attesa del suo ritorno.
“Cosa stavi facendo?” gli chiese Oswald, con una nota di preoccupazione nella voce, dopodiché gli rivolse lo sguardo.
“Pulivo la pistola,” rispose brevemente, mentre apriva lo sportello di un mobile in cucina per prendere un altro bicchiere. “Vuoi del whisky?”
“Perché no?”
Perché no. Jim si rese conto che era proprio ciò che aveva pensato poco prima, guardando la sua arma.
Adesso, davanti a sé aveva l'uomo che un giorno lo avrebbe ucciso, e gli stava versando del whisky.
Il detective stava iniziando a pensare che probabilmente era tutto quanto inutile e nel giro di una decina di anni si sarebbero trovati di nuovo su quel molo, per lo stesso motivo…
“Da quant'è che non dormi, Jim? E stai mangiando adeguatamente?” gli chiese Oswald, e il suo interessamento fu per lui inaspettato.
Possibile che il suo aspetto lo tradisse? In effetti, aveva dovuto tagliare le spese quando aveva iniziato a dare soldi a chiunque per fare in modo che le cose andassero come voleva lui, il che era stato frustrante all’inizio, e di dormire bene non c’era modo, con tutto ciò che aveva per la testa. Ora, ripensare a tutto questo lo faceva solo sentire stanco.
In ogni caso, riteneva che quella fosse un'intromissione nella sua sfera personale.
“Credo che questi non siano affari tuoi.”
“Non posso preoccuparmi per un amico?” gli chiese Oswald, corrugando la fronte.
“Non siamo amici,” sottolineò, dando finalmente voce a quel pensiero.
Oswald gli rivolse un sorriso tirato e uno sguardo che gli fece capire che era stato solo fiato sprecato.
“Mi hai fatto rilasciare da Arkham e permesso di conoscere mio padre. Forse non ti rendi conto di quanto questo sia stato importante per me… E, da parte tua, mi è parso di capire che sia stato un gesto disinteressato.”
“Non lo è stato,” tuonò Jim, versandosi un altro po’ di whisky.
“Cosa intendi dire?”
Jim non rispose. Non poteva farlo senza mentire e, francamente, era stanco anche di quello. Stanco di tutto.
Oswald sospirò prima di riprendere parola.
“Ti conosco, James. Sei capace di annullarti per il tuo lavoro… ma in questo periodo sembri cambiato molto. Qualunque sia la questione che ti turba a tal punto, non ti sembra eccessivo reagire in questo modo?”
Jim serrò la mascella. Anche Oswald aveva notato che qualcosa in lui era diverso rispetto a prima, ma era l’ultima persona con cui voleva parlarne.
“Eccessivo… Tu non mi conosci affatto,” puntualizzò. “Non sai cosa sto passando, nessuno lo sa.”
“Perché evidentemente tu non ne parli.”
Il detective gli rivolse una lunga occhiata severa. Alla fine decise di non rispondere e abbassò lo sguardo sul suo bicchiere nuovamente pieno e poi sulla pistola, carica e pronta all’uso.
“Temo che tu abbia bevuto troppo, Jim… E quella dovresti metterla via.”
Invece, secondo lui, doveva fare l’esatto contrario.
Con un movimento lento, ci appoggiò sopra la mano destra per spostarla più avanti sul tavolo, avvicinandola al suo ospite.
“Perché invece non la prendi e fai ciò per cui sei venuto qui,” lo sfidò, spinto da una forza interiore che arrivava da chissà dove. “Sparami e facciamola finita.”
Oswald sgranò gli occhi, guardò la pistola e poi tornò a osservare lui.
“Non sono venuto per ucciderti, Jim. Come puoi pensarlo?”
“Perché lo farai, presto o tardi. E allora tanto vale toglierci il pensiero subito.”
Oswald boccheggiò e, per sua sorpresa, non tese affatto le mani verso l’arma.
“Le volte in cui mi hai detto che io deciderò di ucciderti… Non scherzavi? Tu credi davvero che lo farei? Per quale motivo?”
“Perché è così,” insistette, senza davvero dargli una spiegazione.
“Hai fatto qualcosa che ti fa credere che io ti voglia morto?”
Jim attese una manciata di secondi prima di rispondere.
“No,” disse alla fine, e Oswald alzò gli occhi al cielo.
Il detective ebbe l’impressione che adesso non fosse più preoccupato, bensì che si fosse arrabbiato. Il che forse era un bene, così avrebbe ceduto alla rabbia e messo fine al suo supplizio.
“Puoi metterti l’anima in pace, James. Dubito fortemente che accadrà,” replicò, con una nota aspra nel tono di voce.
Jim si ritrovò a rilassare le spalle mentre un senso di sconfitta lo attraversava. Mentre quella sensazione tingeva vagamente il vuoto che aveva dentro, che lui avvertiva da molti giorni ormai.
“Non posso… mettermi l’anima in pace,” ripeté, questa volta senza guardarlo negli occhi, e senza più alcuna inflessione nella voce. “Gotham ha bisogno di un salvatore e non sono io. Non riuscirò a risolvere tutto.”
“Ancora una volta non ti stai spiegando affatto. Come credi che io possa capirti?”
“Non lo voglio infatti.”
“Almeno dimmi se c’è qualcosa che posso fare per te. Mi hai aiutato più di quanto avrebbe mai fatto chiunque altro, non posso voltarmi dall’altra parte adesso che ti stai autodistruggendo.”
Jim sospirò e ponderò per diversi secondi le sue parole.
Non sapeva che espressione stesse facendo Oswald, perché aveva smesso di guardarlo in faccia. Jim aveva lo sguardo fisso sul tavolo, si sentiva uno schifo e aveva l’impressione che, scoprendo come il suo ospite lo stava guardando, si sarebbe sentito ancora peggio.
“Mi serve un favore,” ammise stancamente, spostando lo sguardo sul proprio bicchiere.
Da quanti anni non cercava Oswald per un favore? Tanti, davvero, e non credeva che sarebbe più successo. Sia perché quel periodo era ormai finito, sia perché, con la conoscenza di ciò che sarebbe successo dopo, pensava che avrebbe potuto occuparsi di tutto senza rivolgersi a lui.
Che avrebbe potuto fare tutto da solo… No, forse non era così e doveva accettarlo per riuscire nel suo intento. Forse doveva provare di nuovo a parlare con Harvey…
“Questo suona come qualcosa di mia competenza. Dimmi tutto, vecchio amico.”
Jim sospirò sentendo quelle parole che gli erano tanto familiari. Le ultime volte, Oswald le aveva pronunciate con astio. Era successo persino quel fatidico giorno, al molo, prima che gli sparasse. Forse a Jim era mancato sentirgliele pronunciare in quel modo, calmo e carico di un’accezione piacevole che lui non comprendeva fino in fondo. O, forse, che non voleva riconoscere.
“Mi servono dei documenti falsi e abbastanza soldi per lasciare la città e ripartire da capo.”
“Jim!” esclamò Oswald, e alzando lo sguardo su di lui il detective vide che aveva corrugato la fronte. “È successo qualcosa di tanto grave che adesso vuoi andartene da Gotham?”
Nel suo tono c’erano sia sorpresa sia indignazione.
“No, non si tratta di me. Devo far sparire una persona, prima che sia troppo tardi.”
A quelle parole vide Oswald rilassare le spalle e lo sentì sospirare. Ma il suo fu un sospiro talmente silenzioso che Jim non fu certo se lo avesse sentito davvero o se lo avesse soltanto immaginato.
“So a chi rivolgermi per i documenti, ma mi servono maggiori informazioni.”
“Okay,” rispose arrendevolmente, con lo sguardo di nuovo basso nel tentativo di scegliere bene le sue parole successive. “Si chiama Alice Tetch… Potrei sapere dove trovarla, ma… No, è successo tutto troppo presto, non sarà già lì. Devo prima di tutto trovarla…”
Oswald non interruppe il suo farneticare, si limitò a osservarlo con uno sguardo confuso che Jim notò solo quando, alla fine, si decise ad alzare gli occhi su di lui.
“Sono per lei i documenti,” spiegò, sentendo di non avere chiara la situazione in quel momento.
Forse aveva davvero bevuto troppo e sarebbe stato meglio affrontare il discorso più tardi, a mente lucida.
“Chi è questa ragazza e perché vorresti che lasciasse la città?” chiese il suo ospite, in un tono cupo che Jim non riuscì a interpretare.
“Perché qui non è al sicuro. Deve andarsene prima che sia troppo tardi.”
Forse leggendo la preoccupazione nel suo sguardo, Oswald annuì e Jim ebbe l’impressione che avesse capito. Il che era un sollievo, perché così il problema si sarebbe risolto senza che lui dovesse dargli ulteriori spiegazioni.
“Manderò i miei uomini a cercarla e ti farò sapere dov’è. Quanto ai documenti e ai soldi necessari, organizzerò io tutto quanto. Però voglio che tu faccia una cosa in cambio.”
Jim corrugò la fronte.
Voleva averlo in pugno? Stava per chiedergli qualcosa di illegale, come aveva già fatto una volta, quando lo aveva mandato a recuperare crediti per lui? Era crudele, considerando quanto Jim era - e probabilmente appariva - disperato.
“L’hai detto tu che ho fatto molto per te…” esalò, lasciando la frase in sospeso.
“Sì, James, e non lo sto negando. Credo ancora che non ci siano conti in sospeso tra amici, ma di doverti comunque molto… Eppure è di tanti soldi che stiamo parlando adesso. Quindi, in cambio, verrai a cena con me questa sera.”
Jim strabuzzò gli occhi, spiazzato dalla sua richiesta.
“Voglio vederti mangiare un pasto decente. Posso pretendere almeno questo?”
“Uscire a cena… con te?” ripeté, perché gli sembrava surreale.
“Esatto. Ormai non è più un segreto che io sia stato rilasciato da Arkham, quindi non ci saranno problemi. Anche se avrei preferito invitarti a casa mia, ma mio padre è ancora scosso per via di ciò che è successo. Inoltre ha permesso ai suoi figliastri di restare, e non sono esattamente amichevoli.”
Jim lo ascoltò solo marginalmente. Prima di replicare, spostò lo sguardo sull’orologio alla parete e scoprì che erano quasi le sette di sera. Non aveva pranzato, ma in compenso aveva iniziato a bere molto presto. Troppo presto, adesso se ne rendeva conto.
“Mi cambio,” dichiarò, alzandosi, perché riteneva che quello fosse un piccolo prezzo da pagare per il favore che gli aveva chiesto.
Inoltre sapeva che mettere qualcosa sotto ai denti gli avrebbe fatto bene… anche se non aveva i soldi necessari per concedersi alcun lusso.
“Fatti anche una doccia, non abbiamo fretta. Nel frattempo io penserò alla prenotazione,” disse Oswald, offrendogli un sorriso tiepido.
Jim annuì e decise che avrebbe fatto in fretta, perché quella situazione iniziava già a stargli stretta.
Mentre si lavava, e successivamente si vestiva, sentì di avere la mente già più lucida di prima. Che fosse a causa dell’alcol, della stanchezza, della solitudine, oppure del fatto che non pensasse ad altro che agli eventi sui quali intervenire per cambiare le cose, doveva essere arrivato allo stremo. Era così, altrimenti non avrebbe mai pensato di togliersi la vita, né di provocare Oswald al fine di farsi sparare da lui.
Era forse impazzito?
Non fece in tempo a trovare una risposta al suo quesito perché ormai era pronto, perciò decise di tornare dal suo ospite, nella speranza che la loro serata insieme non si sarebbe protratta per le lunghe.
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Jim aveva trovato decisamente strano che Oswald fosse andato da lui per controllare come stesse, e che alla fine lo avesse invitato a cena. Trovò ancora più strano dover salire sulla sua auto e sedersi accanto a lui mentre uno dei suoi sottoposti guidava fino al ristorante, facendo finta che fosse tutto normale.
Fingendo di non essere un detective che si trovava nell’auto di un pericoloso criminale che, per quanto ne sapeva, poteva aver già ripreso il suo posto al vertice della malavita di Gotham. Dopotutto, se non lo aveva fatto, era solo questione di tempo.
Scendendo dalla macchina, Jim scoprì che il ristorante scelto da Oswald non era affatto un locale economico come quelli che frequentava lui sin dai suoi tempi da detective, posti che non aveva mai smesso di apprezzare anche in seguito. Ma avrebbe dovuto immaginarlo.
Non emise un suono mentre varcavano la soglia, mentre Oswald dava il suo nome al capo sala che li aveva accolti, né quando si sedettero al loro tavolo, situato in uno spazio appartato della sala. Un tavolo che avrebbe permesso a Jim di rilassarsi e non pensare a niente, soprattutto non agli sguardi di altri avventori che avrebbero potuto riconoscerli e domandarsi cosa ci facessero insieme.
Non emise un suono nemmeno quando lesse i prezzi riportati sul menù, ma avrebbe tanto voluto farlo. Non aveva soldi per permettersi una cena in quel posto, non in quel momento specifico della sua vita, figuriamoci per pagare per entrambi.
“Offro io Jim, scegli quello che preferisci,” gli disse Oswald, forse intuendo i suoi pensieri dal suo silenzio o dall’espressione sul suo viso.
“Ah… Veramente credevo…”
“Oh no, non volevo che mi offrissi la cena,” puntualizzò, interrompendolo. “Desideravo soltanto che cenassi. È evidente che in questi giorni tu sia dimagrito e non abbia nemmeno dormito bene. Per quello dovresti valutare, magari, di andare in una farmacia.”
“Ci penserò su,” ribatté sollevando un sopracciglio e tornando a guardare il menù.
Non aveva fatto in tempo a pensare che Oswald avesse compiuto un gesto inaspettatamente gentile, che lui aveva rovinato tutto parlando troppo. Jim non aveva bisogno di sentirsi dire cosa avrebbe dovuto fare, perché lo sapeva già. Semplicemente, non lo avrebbe fatto, perché doveva occuparsi di questioni più urgenti.
E anche perché ormai era quasi al verde, quindi fino al prossimo stipendio si sarebbe potuto permettere solo lo stretto necessario.
Decise, per dispetto, che avrebbe ordinato il taglio di carne più costoso presente sul menù.
Oswald lo fece innervosire di nuovo due minuti dopo, quando stabilì che non avrebbero preso niente di alcolico dato che Jim aveva già bevuto troppo.
Il detective sospirò piano mentre il cameriere si allontanava dopo essersi annotato le loro ordinazioni.
“Allora, James… Adesso mi dici chi è questa ragazza che vuoi proteggere? Si tratta della tua nuova fidanzata, magari?”
Quella domanda gli fece sgranare gli occhi.
“Ovviamente no,” rispose, corrugando la fronte.
“Non è così ovvio, dimentichi che io non ho idea di chi sia.”
E per Jim era meglio che le cose rimanessero tali.
“Se non è questo, allora perché devi proteggerla? Non è una questione in cui può intervenire la GCPD, mi è parso di capire,” continuò, non avendo ricevuto risposta.
“Diciamo che qualcuno la sta cercando e sarebbe meglio se non riuscisse a trovarla,” tagliò corto.
“Questo lo avevo immaginato,” sottolineò Oswald, offrendogli un sorriso tirato. “Vorrei solo capire in cosa sto per essere coinvolto.”
Jim abbassò lo sguardo sul tavolo mentre rifletteva. In effetti la sua era una richiesta legittima, per quanto non sarebbe stato davvero coinvolto, ma non poteva comunque accontentarlo. Anche perché, ne era certo, si trattava soprattutto di un modo per farsi gli affari suoi, o per studiare le sue intenzioni.
“Lei era ad Arkham. E non intendo che era una dei pazienti, era rinchiusa a Indian Hill,” rivelò. “Ora che è libera, qualcuno lo scoprirà e si metterà sulle sue tracce. Qualcuno di pericoloso.”
“È stata lei a dirti questo?” domandò Oswald.
Doveva aver compreso che Jim non volesse entrare nei dettagli, perché lo stava - inaspettatamente - rispettando, evitando di insistere oltre.
“Non proprio… Diciamo che lo so e basta. A proposito, gestisci ancora il night club?”
“Non direttamente, ma sì,” rispose, come se niente fosse.
Se gestiva il Lounge, era anche probabile che fosse già tornato a occupare la sua posizione di potere.
“Allora, se in futuro arriverà un tizio con un cappello a cilindro e un orologio da taschino, in cerca di lavoro, stai in guardia e mandalo via.”
Ai tempi, quando Tetch era arrivato a Gotham, il club era in mano a Barbara. Ora tutto sarebbe successo prima, e Jim non osava immaginare cosa avrebbero potuto fare il Cappellaio e Pinguino insieme. Non doveva succedere, soprattutto non dopo i suoi sforzi per tenere Oswald lontano da Nygma.
Certamente non doveva essere stata solo un’influenza esterna, come quella di Edward, a cambiare così tanto Oswald. Era stato un processo lento, costituito da tante fasi… ma Nygma ne era stato parte e Jim non aveva idea di cosa avesse fatto. Non saperlo lo rendeva nervoso, considerando che stava cercando di cambiare il futuro.
Oswald gli rivolse uno sguardo confuso, ma annuì e non commentò.
Poco dopo, il cameriere tornò al tavolo con le loro ordinazioni e solo allora Jim si accorse di avere molta fame. Quindi si concentrò sulla sua cena, che divorò nel giro di qualche minuto.
Oswald invece si prese il suo tempo, consumando la carne con movenze calme e misurate, eleganti persino. Jim lo osservò a malapena, immaginando che si comportasse così per darsi un tono.
“Come sta tuo padre?” gli chiese, giusto per riempire il silenzio che si era creato.
Oswald si tamponò le labbra con il tovagliolo prima di rispondere.
“Non riesce ancora a credere a ciò che ha tentato di fare Grace. Spesso va a trovarla a Blackgate, facendosi accompagnare dai suoi figli…” rivelò, riuscendo a nascondere a malapena la tristezza dietro alla sua espressione neutra.
Teneva molto a suo padre, doveva essere così. Era comprensibile, lo aveva ritrovato all’improvviso dopo una vita trascorsa credendolo morto. Per non parlare del fatto che aveva da poco perso sua madre.
A questo si aggiungeva il fatto che Elijah Van Dahl fosse malato e gli restasse poco da vivere, veleno o non veleno, perché Jim ricordava di aver sentito, ai tempi, che era morto per malattia.
Il fatto che Oswald tenesse a lui, come aveva tenuto a sua madre, lo rendeva stranamente umano agli occhi del detective. Peccato che, sotto quella facciata, si nascondesse un assassino senza scrupoli, che nel giro di tredici anni gli avrebbe puntato la pistola contro e avrebbe premuto il grilletto in nome di una vendetta personale.
“Mio padre è molto malato,” continuò. “La sua non è una malattia da cui si può guarire, purtroppo, e sapere di Grace è stato un duro colpo. Lui sta molto peggio ora, malgrado abbia ricominciato a prendere le medicine… Ma non poteva essere altrimenti. Ha visto anche lui cos’è successo al cane e il vino lo aveva servito lei.”
“Hai fatto la cosa giusta,” gli assicurò Jim, che lo pensava davvero.
Lo aveva visto turbato, per questo aveva deciso di dirlo. Probabilmente, ai tempi, Oswald aveva ucciso la signora Van Dahl e con lei anche i suoi figli. Sapere che adesso le cose erano andate diversamente lo confortava, in un certo senso. Grazie alle sue azioni, delle vite erano state risparmiate… Per non parlare del fatto che Oswald avesse scelto di affidarsi a lui, anziché agire d’impulso. Secondo Jim, doveva pur significare qualcosa.
“Lo credi anche tu?” gli chiese Oswald, in cerca di un’ulteriore conferma.
Era strano vederlo esitante, incerto riguardo a una delle sue scelte. Proprio lui, che di solito era così ostinato.
“Certo. Lei voleva uccidervi, vi siete salvati entrambi per un colpo di fortuna. A quel punto non potevi fare finta di niente. È stata quella donna a causare tutto questo.”
Oswald annuì con aria pensierosa.
“Avrei voluto ucciderla, se devo essere sincero,” ammise, con lo sguardo fermo sul suo bicchiere. “Ma come fare, con mio padre e i suoi figli in casa? E se lo avessi fatto, anche se avessi simulato un incidente, forse lui ne avrebbe sofferto ancora di più…”
Jim non commentò, evitando di interrompere la sua riflessione ad alta voce.
“Poi però mi sono ricordato delle tue parole. Avevi detto di chiamare te, se fosse successo qualcosa. Era come se… te lo aspettassi,” dichiarò, e alzò lo sguardo per incontrare il suo. “E così ho fatto.”
Jim non seppe interpretare le emozioni che si celavano dietro alla sua espressione. Non c’era sospetto nel suo sguardo, né un’accusa. C’era… qualcos’altro. Qualcosa di intenso.
Poi Oswald piegò le labbra in un sorriso e fece ondeggiare la testa da un lato all’altro.
“Dopo una notte trascorsa tenendoli in ostaggio, mentre pensavo a come gestire la situazione, s’intende,” aggiunse, ed era chiaro che il ricordo lo divertisse. “Ma sai già che non ho torto loro un capello.”
“Sì, anche se Barnes avrebbe tanto voluto arrestarti per sequestro di persona,” commentò, ricordando che Oswald aveva dovuto far intervenire il suo avvocato per farlo desistere. “Meglio non scherzare con lui. Non tollera la minima infrazione della legge.”
“Mi stai mettendo in guardia, detective?” domandò Oswald, ancora con il sorriso sulle labbra.
“Dico solo che è stato molto complicato farti tornare in libertà, e non vorrei che si rivelasse vano,” replicò, restando sul vago perché, in fondo, erano in pubblico.
“A proposito, non mi hai mai spiegato come hai fatto.”
Jim sospirò piano. Lo spazio in cui si trovava il loro tavolo permetteva di parlare liberamente, perché nessuno degli altri ospiti avrebbe potuto sentire in modo chiaro ciò che si stavano dicendo, oltre i separé che dividevano l’ambiente, ma non si poteva mai sapere. Comunque, questa volta decise di dirgli la verità.
“Ho offerto a Strange uno scambio. Sapevo che voleva una certa persona e ho organizzato la cosa,” svelò, facendo spallucce.
In realtà non si era trattato di una questione da poco. Inoltre, Fries era già tornato in libertà a causa sua. E, per questo, Jim era certo che Gotham gli avrebbe presentato il conto, prima o poi.
Ma perché ne aveva parlato a Oswald in modo chiaro? Lui era il nemico, dopotutto. Jim non sapeva perché si era sentito libero di dirglielo. Forse era l’atmosfera di quel posto che gli aveva fatto lentamente abbassare le difese… Perché, anche se era strano da riconoscere, in quel momento si sentiva a suo agio.
Anziché fare altre domande, Oswald gli rivolse un sorriso compiaciuto.
“Non avrei mai detto che sarebbe arrivato il giorno in cui avresti aggirato la legge,” commentò.
“Non l’ho fatto ogni volta in cui ti ho chiesto una soffiata?” sottolineò, con l’intenzione di spostare la sua attenzione lontano da quel pensiero.
“No, ritengo che si trattasse di qualcosa di diverso,” rispose Oswald.
Il cameriere di prima tornò a prendere i piatti vuoti, salvandolo da quel discorso scomodo.
“Gradite qualcos’altro?”
“La carta dei dolci,” rispose Oswald, per entrambi, e il cameriere li lasciò di nuovo soli.
“Io sono a posto così,” dichiarò Jim, immaginando il costo che avrebbero avuto anche quelli.
Oswald aveva pensato di offrirgli la cena e, in effetti, a Jim sembrava di sentirsi già meglio adesso che aveva mangiato, ma il dolce sarebbe stato qualcosa di troppo, di non necessario.
“Insisto. Vorrei offrirti anche il dessert perché tu mi hai ascoltato riguardo a mio padre,” gli disse, con una punta di nervosismo nella voce.
Jim rimase interdetto. Se era per quello, allora… poteva anche accettare.
“Ti ricordo che siamo qui perché io ti ho chiesto dei soldi,” gli fece notare, perché non se ne dimenticasse.
“Non è solo questo, invece,” ribatté, e Jim non capì davvero cosa intendesse. “Inoltre avresti anche potuto decidere di ignorarmi e rendere pesante questa occasione. James, io non ho molti amici, ed è per questo che do molta importanza a quelli che ho.”
Ascoltandolo, il detective comprese che era serio. Non parlava con un secondo fine, o per assicurarsi il suo appoggio in futuro. Teneva davvero al loro rapporto.
“Sei serio… quando dici che siamo amici…” pensò ad alta voce, quasi volendo indagare ancora a riguardo.
“Sì, certo. Hai fatto tanto per me, anche solo considerando l’ultimo mese… Davvero non ti rendi conto di quanto questo possa significare per me? Eppure te l’ho già detto,” sottolineò, e Jim si rese conto che era vero, lo aveva fatto.
Oswald non stava fingendo per assicurarsi il suo favore anche in futuro. Credeva davvero in ciò che diceva.
Eppure, se tra tutti i criminali della città Jim avesse dovuto designare il suo nemico ultimo, quello era lui. Certo, ai tempi Tetch aveva portato su un altro livello la sua vendetta, decidendo di rendergli la vita impossibile, e Valeska era stato un osso duro più di chiunque altro…
Oswald, d’altro canto, era stato determinante nella soluzione di innumerevoli casi, con le sue soffiate. Era intervenuto quando la Corte dei Gufi voleva spargere il virus di Alice Tetch in una stanza piena di persone innocenti e Jim non aveva potuto chiamare nessun altro. Era stato lui a dirottare il dirigibile di Valeska, evitando una catastrofe.
Ma era stato sempre lui a dargli filo da torcere con le sue licenze di cattiva condotta e con le sue pretese sulla città. E, infine, era stato lui a ucciderlo, su quel molo.
Allora perché Jim sentiva quella strana connessione tra loro, adesso che sedeva al suo stesso tavolo e lo ascoltava parlare dei suoi problemi personali? Adesso che, in qualche modo, Oswald era riuscito a farlo aprire un po’ sui propri, di problemi?
Una parte di lui era certa che Oswald avrebbe dimenticato presto la loro presunta amicizia, l’impatto positivo che sosteneva Jim avesse avuto su di lui in quel periodo, e si sarebbe messo a fargli la guerra… così, come se niente fosse.
Proprio come lui e gli altri criminali non facevano che tradirsi a vicenda, perdonarsi, tornare a odiarsi e stringere nuovamente alleanze, ancora e ancora. Così anche quel breve momento di connessione sarebbe sfumato, e senza alcun senso di colpa Oswald avrebbe rivolto la sua pistola contro di lui.
Jim invece non era fatto così. Jim non poteva permettersi di lasciarsi andare e abbassare la guardia, solo perché Oswald gli aveva teso una mano.
Non poteva dimenticare che era lui il vero nemico.
Però, malgrado questo, per quella sera decise di non opporsi. Era troppo stanco per farlo. Quindi scelse un dessert dal menù, il più costoso dato che era certo che un’occasione del genere non gli sarebbe ricapitata, e lasciò che la serata terminasse senza intoppi, quasi fossero davvero amici.
Permise a Oswald persino di riaccompagnarlo a casa, risparmiando così i soldi del taxi.
L’indomani, quando arrivò al lavoro, Jim si sentiva già meglio. Non solo aveva mangiato bene, ma aveva anche dormito dopo tanto tempo, perché un’altra preoccupazione si era fatta meno pressante. Certo, Alice era ancora là fuori e suo fratello sarebbe potuto arrivare a Gotham da un momento all’altro, ma Jim non stava più aspettando con le mani in mano.
Quindi varcò la soglia della centrale sentendosi pervaso da una nuova speranza, e augurandosi che Oswald lo chiamasse presto per comunicargli la posizione di Alice Tetch.
Si sorprese quando scoprì che Harvey era già arrivato, ma soprattutto quando si accorse che il suo amico stava apparentemente aspettando lui, perché gli andò incontro non appena lo vide.
“Qualcosa non va?” gli chiese Jim, corrugando la fronte.
“Non qui,” disse Harvey, prendendolo per un braccio.
Lo condusse alle scale e poi giù fino all’archivio, dopodiché controllò che non ci fosse nessun altro.
“Adesso vuoi dirmi che succede?”
“Questo dovrei chiederlo io a te!” esclamò Harvey, rivolgendogli un’occhiata confusa. “Questa mattina mi ha chiamato Cobblepot. Sul mio cellulare! Non so come abbia fatto a ottenere il mio numero, quel bastardo…”
Jim corrugò la fronte. Oswald aveva chiamato Harvey? Perché?
“Mi ha detto che ieri ti ha trovato ubriaco, con la tua pistola in mano, e ha pensato che volessi ucciderti,” disse, scrutandolo attentamente, e Jim schiuse le labbra per quanto ne rimase spiazzato.
Oswald non solo aveva capito le sue intenzioni, ma le aveva anche riferite ad Harvey… Il che un po’ lo aveva colto di sorpresa e un po’ lo aveva infastidito. Anzi, lo infastidiva profondamente.
“Non ti giustifichi nemmeno?” chiese il suo amico. “Mi stai dicendo che è vero?”
“No, Harvey. Ha frainteso.”
“Anche quando tu gli hai chiesto di spararti? Me l’ha detto lui, Jim! Dimmi che mi stava prendendo per il culo!”
Jim serrò la mascella e corrugò la fronte, ancora più infastidito.
“Perché te l’avrebbe detto?” esalò, improvvisamente pentito di averlo fatto entrare in casa sua, la sera prima.
Avrebbe dovuto lasciarlo sull’uscio, a prendere freddo, e mandarlo via a conversazione finita.
“Perché ti controllassi. Pinguino ha detto a me di tenerti d’occhio, perché tu non possa fare niente di stupido! Ti rendi conto dell’assurdità della situazione?” esclamò, indignato, e Jim non seppe proprio come replicare. “Adesso basta, facciamola finita. Mi devi dire cosa sta succedendo,” aggiunse, con una nota definitiva nella voce.
Jim sapeva di non poter continuare a far finta di niente per sempre. Soprattutto perché Harvey era arrabbiato con lui da giorni, ormai.
“Siediti,” lo invitò, temendo che l’avrebbe presa molto male.
Non c’era nessuno nell’archivio e il suo partner aveva chiuso la porta. La sedia dell’archivista era libera, perciò Harvey ci si accomodò continuando a tenere d’occhio Jim, che rimase in piedi davanti a lui, sotto il suo sguardo severo.
“Perché Cobblepot era con te ieri? C’entra il fatto che lo hai fatto uscire da Arkham?” chiese, e Jim si stupì perché non aveva immaginato che volesse iniziare proprio da quello. “Sono fatti tuoi se c’è qualcosa tra di voi, Jim, ma almeno permettimi di capire.”
“Cosa stai insinuando? No!” ribatté, allibito.
“Allora cosa ci facevate insieme, di domenica, a casa tua?”
“Non so cosa volesse, Harvey, ma è passato da me senza avvisare. Mi ha trovato ubriaco e stanco, era un pessimo momento, ma non aveva nessun diritto di dirtelo.”
“Sono il tuo migliore amico, Jim! O almeno credevo di esserlo, prima di questo. Se qualcosa non va, è con me che dovresti parlarne.”
Jim rimase in silenzio per un paio di secondi. Era vero, avrebbe dovuto parlarne con lui sin dall’inizio. Avrebbe dovuto farlo quando si era reso conto che la situazione stava diventando troppo pesante, almeno. Invece si era tenuto tutto dentro, ed ecco il risultato.
“Lo sei e hai ragione,” gli concesse, con un sospiro. “È tutto un casino… Non sapevo se mi avresti creduto e pensavo di potermene occupare da solo, per limitare i danni.”
“Beh, è chiaro che tu non ci sia riuscito. Forza, sputa il rospo,” insistette, e Jim annuì mentre ponderava le sue parole successive.
“Quella storia che ti ho raccontato, su Oswald che tra tredici anni mi porta al molo e mi spara… era vera. Io ho già vissuto tutto questo e, per quanto possa sembrare impossibile, sono tornato indietro. È dalla sera della morte di Galavan che si susseguono eventi che io conosco già.”
Il suo amico gli rivolse una lunga occhiata seria, ma non commentò. Non era convinto, Jim glielo leggeva in faccia e non poteva biasimarlo.
A Gotham tutto era possibile. Lo aveva imparato a sue spese, quando Galavan era tornato in vita, quando i mostri di Strange avevano iniziato a seminare il caos, e poi era stato il turno di Tetch, di Valeska, di Crane, di Ivy. Jim ormai non dava niente per scontato… ma quegli eventi non si erano ancora verificati, e alcuni di essi non si sarebbero verificati mai.
Harvey sapeva quanto la malavita fosse radicata nella loro città. Sapeva quanto i criminali potessero essere spietati e persino creativi. Ciò che non sapeva era che potesse verificarsi qualcosa di quasi sovrannaturale, come quello che era capitato a Jim.
“Quando abbiamo trovato la poliziotta congelata, sapevo che era stato Fries e sapevo dove trovarlo, prima che fosse troppo tardi. Sapevo di Indian Hill, dei crimini di Nygma, e che sarebbe successo qualcosa alla villa dei Van Dahl, anche se non sapevo cosa.”
“È per questo che hai voluto Cobblepot fuori da Arkham?” gli chiese, anziché obiettare.
“Sì e no. Sapevo di suo padre e che non gli restava molto da vivere, ma se l’ho fatto uscire da Arkham è perché lo volevo lontano da Nygma,” rivelò.
C’era anche il fatto che si trovasse lì per un crimine commesso da Jim, che sapeva lo stessero torturando e si sarebbe di nuovo sentito in colpa per questo, ma rivelarlo ad Harvey sarebbe stato troppo.
“Mi stai dicendo che c’entri qualcosa con il ritrovamento dei cadaveri della Kringle e di Daugherty?”
“Sì. Sapevo dove fossero e ho mandato qualcuno a cercarli, facendo in modo che non si potesse risalire a me,” rispose, e Harvey sgranò gli occhi. “Ai tempi avevo iniziato a indagare sulla sparizione della Kringle, e Nygma, per non essere scoperto, mi aveva incastrato per la morte di un collega. Sono finito a Blackgate, Harvey, dove hanno tentato di uccidermi, e sarei rimasto lì se tu non mi avessi fatto evadere.”
“Frena, Jim, mi stai dando troppe informazioni,” lo interruppe il suo amico, corrugando la fronte e sollevando le mani in segno di resa. “Quindi sei serio?”
“Serissimo,” gli garantì. “So che è difficile da credere, ma è questo il peso che sto portando sulle spalle.”
“No, va bene. Ti credo,” dichiarò Harvey, abbassando le braccia e assumendo un’aria pensierosa, e Jim rilassò le spalle. “Quindi cosa stai cercando di fare, nello specifico? Punisci i criminali prima che la situazione possa peggiorare?”
“Qualcosa del genere. Sembrerà assurdo, ma non abbiamo ancora visto niente. Nygma, Fries e tutti gli altri continueranno a farla franca e a commettere crimini sempre più gravi, finché la città non si trasformerà in un campo di battaglia.”
Aveva omesso molti dettagli, certo, ma voleva che il suo amico avesse chiara la situazione e capisse perché lui stava combattendo.
“E questo quando dovrebbe accadere?” chiese, sgranando gli occhi.
“All’incirca fra due anni… Tre, al massimo. Ma ho già cambiato molte cose, quindi non posso esserne sicuro. Per esempio, spero che Nygma non esca mai da Arkham. Quanto a Fries, sarebbe diventato più pericoloso se io non fossi intervenuto,” rispose e sospirò. “Harvey, so che sto aggirando la legge per portare avanti la mia missione, ma non posso fare altrimenti. Non pretendo che tu capisca e che mi appoggi.”
“No, Jimbo, sono con te. Se quello che dici è vero, ti servirà tutto l’aiuto possibile.”
Sentendo le sue parole Jim si rilassò completamente, sebbene fosse stupito dall’esito della loro conversazione.
“Ma non mi hai ancora spiegato cos’è successo ieri…” sottolineò, rivolgendogli uno sguardo preoccupato.
Jim sospirò ancora una volta prima di rispondergli. Non si riferiva al suo incontro con Oswald, bensì ai suoi pensieri distruttivi, era chiaro.
“Erano giorni che giravo attorno a una situazione senza capire come risolverla e stavo iniziando a perdere le speranze.”
“Per così poco?”
“Non è così poco,” ripeté, perché lui non poteva capire.
E poi era anche stanco, ubriaco, mangiava male da giorni… Insomma, era stato un insieme di cose e solo adesso, che poteva pensare in modo più lucido, se ne rendeva conto.
“Comunque Oswald mi ha offerto una soluzione.”
“Oswald, l’uomo che a detta tua ti ucciderà?” sottolineò Harvey, sollevando un sopracciglio.
“Sì, so che è ridicolo,” ammise, rivolgendogli un mezzo sorriso.
“Va bene, non commenterò oltre,” disse il suo migliore amico, mettendosi a braccia conserte. “Adesso però dimmi di cosa si tratta, così posso darti una mano.”
Il sorriso sul viso di Jim si fece più sincero. Si sentiva comunque stanco ed era ancora ossessionato dal pensiero di cosa stesse per accadere, ciò che lui doveva impedire a tutti i costi, però… Sì, non doveva più occuparsene da solo. Il che era già un piccolo sollievo.
Chapter Text
Alice Tetch.
Jim ne parlò ad Harvey, senza entrare troppo nei dettagli riguardo al virus e alle sue conseguenze. Ciò che gli disse era che la sua presenza a Gotham comportava un rischio, ma soprattutto che suo fratello sarebbe stato un pericolo, non solo per lei ma per tutti quanti.
Jim ricordava ancora di quando Tetch lo aveva ipnotizzato, ai tempi. Era stato in grado di spingerlo al suicidio e lui si era salvato per un colpo di fortuna, ogni volta. E poi era riuscito a vincere il condizionamento dell’ipnosi, ma solo perché aveva ancora un motivo per continuare a combattere, qualcosa che lo spingesse ad aggrapparsi alla vita.
Ma lui, adesso, non aveva più quel qualcosa. Lo sapeva bene perciò, nel caso Tetch lo avesse ipnotizzato di nuovo, si aspettava un finale ben diverso per quella storia.
In ogni caso, Oswald lo aveva chiamato per comunicargli dove trovare Alice, perché gli uomini che aveva mandato a cercarla l’avevano finalmente avvistata, e così lui e Harvey avevano deciso di andare da lei quella sera stessa.
Lei lavorava in un bar a Narrows, un posto malfamato e dimenticato dalla legge.
Jim varcò la soglia del locale sperando che nessuno li riconoscesse, che nessuno volesse attaccare briga giusto perché erano della polizia. Trovarono la ragazza al bancone, che puliva un bicchiere tenendo lo sguardo basso, con aria assente.
Il posto non era caotico né troppo affollato, malgrado l’ora tarda, il che era una fortuna per loro che avevano bisogno di parlarle con calma. E se l’avevano raggiunta lì e non a casa sua, era solo perché credevano che, in questo modo, non sarebbe scappata.
“Ciao Alice,” disse Jim, sedendosi davanti a lei.
La ragazza incontrò subito il suo sguardo e sgranò gli occhi. Poi guardò anche Harvey, che si era accomodato accanto a lui. Li aveva riconosciuti, era ovvio. Dopotutto, erano stati loro a interrogarla, dopo che era stata liberata da Indian Hill.
“Detective…” disse, a mezza voce. “Cosa ci fate qui?”
Jim scambiò uno sguardo con Harvey e capì che l’amico avrebbe lasciato parlare lui, perciò tornò a rivolgersi alla barista.
“Abbiamo bisogno di parlarti. Sappiamo che qualcuno ti sta cercando e crediamo di poterti aiutare.”
Ancora una volta la giovane sgranò gli occhi e Jim vi lesse una scintilla di terrore.
“Non mi serve aiuto… E non sapete di cosa state parlando,” dichiarò, e diede loro le spalle per mettere in ordine alcune bottiglie, o almeno per fingere di farlo.
“Io lo so, invece. Devi nasconderti meglio di così, altrimenti ti troverà.”
“Lui non è a Gotham!” esclamò la ragazza, tenendo basso il tono di voce e rivolgendogli uno sguardo di fuoco.
“Arriverà, prima o poi. La chiusura di Indian Hill era su tutti i giornali, devono averne parlato anche al di fuori della città,” sottolineò, certo che anche lei lo sapesse.
“Che cosa volete da me?” chiese, guardando l’uno e poi l’altro.
Era spaventata, era chiaro, ma stava cercando di fare la dura. Forse sarebbe scappata davvero, se l’avessero approcciata fuori da lì anziché durante il suo orario di lavoro.
“Aiutarti, come ho detto. So chi è tuo fratello e non voglio che terrorizzi la mia città.”
Forse perché aveva detto chiaramente di chi stavano parlando, la ragazza sembrò ancora più spaventata. Come se avesse avuto la conferma che Jim non stesse bluffando.
“Come fai a conoscerlo?”
“Questo non ha importanza,” rispose. “A che ora finisci il turno? Ti posso offrire una via d’uscita sicura. Possiamo parlarne con calma.”
Ancora una volta, la ragazza guardò prima l’uno e poi l’altro, dopodiché abbassò lo sguardo.
“Non ho niente da darvi in cambio…”
“Non vogliamo niente,” intervenne Harvey. “Siamo della GCPD. Non sarà un’operazione ufficiale, ma se qualcuno è in pericolo dobbiamo fare qualcosa.”
Lei annuì, sembrando finalmente convinta.
“Stacco tra un’ora. Bevete qualcosa?”
“Due birre,” disse Harvey, mettendo sul bancone i soldi per entrambi.
Passarono l’ora successiva a bere, molto lentamente, quell’unico boccale di birra ciascuno, seduti a un tavolo da cui potevano tenere d’occhio la situazione.
Intanto Harvey toccò l’argomento viaggi nel tempo, domandando se la realtà da cui proveniva Jim fosse stata riavvolta e adesso lui la stesse riscrivendo, o se invece esistessero più linee temporali. Ne parlarono solo per occupare il silenzio di quell’attesa, consapevoli che gli altri clienti fossero troppo lontani per sentirli, grazie anche alla musica di sottofondo. Jim però non aveva risposte alle sue domande, e così chiusero il discorso concordando sul fatto che si trattasse di “roba da nerd”, e che ciò che contava adesso era salvare il salvabile.
Proprio pensando a questo Jim non aveva riflettuto troppo a lungo su quanto gli era accaduto. Non avrebbe avuto modo, da solo, di comprenderlo davvero. A conti fatti, era arrivato molto presto alla conclusione di venire dal futuro e di dover cambiare le cose in meglio, per la città, ma non credeva che gli servisse sapere altro.
Quando finalmente Alice fece loro un cenno, senza farsi vedere dalle altre persone presenti nel locale, si prepararono a uscire e lei fece lo stesso.
Li condusse fino al suo appartamento e nel tragitto Jim notò che aveva paura, a muoversi per quelle strade di notte. Che avesse paura che suo fratello potesse sbucare dall’ombra di un vicolo da un momento all’altro, o magari temeva la gente che abitava a Narrows, non era chiaro, ma in entrambi i casi lui trovava giusto che fosse prudente.
Forse era persino la loro vicinanza a renderla nervosa, perché erano due uomini, due sconosciuti, e li stava conducendo fino a casa sua.
In ogni caso, lei non ebbe ripensamenti quando arrivarono a destinazione. Li invitò all’interno e ad accomodarsi, dopodiché si sedette a sua volta, mantenendosi a distanza. Era ancora agitata.
“Perché mi avete cercata adesso? Sapete che lui sta venendo qui?” chiese, torturandosi le mani.
“No, ma sono certo che lo farà presto. Crederà che non hai lasciato la città, per questo devi andartene finché puoi,” disse Jim.
“Ma non ho soldi,” obiettò lei, nel tipico tono di chi si sentiva bloccato in una situazione senza via d’uscita.
“Te li daremo noi,” la rassicurò lui, perché erano parte di ciò che aveva chiesto a Oswald. “Insieme a dei documenti falsi. Avrai una nuova identità e potrai ricominciare da capo, lontano da qui.”
“Non so se me la sento...”
“Tu non sei di Gotham, giusto?” le chiese Harvey. “Allora perché restare? Se vivi a Narrows, immagino che farai fatica ad arrivare a fine mese.”
Lei non rispose, semplicemente abbassò lo sguardo.
“Mi assicurerò che tu riceva abbastanza soldi per prendere un bell’appartamento in affitto e per avere tutto ciò che ti serve. Troverai un altro lavoro, ti rifarai una vita,” aggiunse Jim, e questa volta lei lo guardò negli occhi.
“Non è un trucco per consegnarmi a lui?” chiese, con il sospetto ben presente nel suo tono di voce.
“No, vogliamo l’esatto contrario. So che non ci conosci, ma puoi fidarti,” le garantì.
Alice non sembrava del tutto convinta, ma alla fine annuì.
Prima di andarsene, Jim le chiese se aveva una foto che potevano usare per i suoi nuovi documenti e lei gliela consegnò. L’avrebbe data a Oswald, perché pensasse lui al resto, come aveva promesso.
Diversi giorni trascorsero mentre loro si occupavano dei preparativi.
Non ci volle molto per ottenere i documenti, dopodiché Jim e Harvey organizzarono la sua partenza. Sarebbe andata a nord, in un altro stato, dove non aveva motivo di recarsi e perciò dove Tetch non l’avrebbe mai cercata.
Nel suo appartamento lasciarono degli indizi che suggerivano che fosse andata da tutt’altra parte, in un posto turistico sulla costa est. Oswald li aveva aiutati a fabbricare delle prove, lettere false che le avrebbe spedito da lì una presunta amica, invitandola a raggiungerla.
Si presentò anche nell’appartamento della ragazza, una volta, per vedere come stessero gestendo la situazione e per consegnarle i soldi, in contanti. Erano più di quanti lei ne avesse visti in tutta la sua vita, anzi più di quanti Jim stesso ne avesse mai visti tutti insieme, tanto che si domandò se Oswald non avesse appena rapinato una banca.
Ma dopotutto era un Van Dahl, adesso, perciò i soldi non dovevano essere un problema per lui.
La ragazza anticipò alcuni mesi di affitto al suo padrone di casa, e non gli chiese affatto di disdire il contratto. In questo modo, se Jervis fosse arrivato nell’immediato futuro e fosse riuscito a rintracciarla, avrebbe trovato l’appartamento e le prove - false - della sua fuga.
Poi Jim prenotò un volo di sola andata usando il nuovo nome della ragazza, che sarebbe diventato la sua identità da quel momento in avanti.
Sperava di non aver dimenticato niente, ma dato che si era consultato con Oswald a riguardo credeva di poter stare tranquillo.
Furono lui e Harvey ad accompagnarla a prendere il treno che l’avrebbe portata sul continente, verso l’aeroporto. Era mattina presto quando la salutarono, separandosi da lei ai controlli.
La ragazza non sembrava più agitata adesso. Sembrava pronta a iniziare la sua nuova vita, impaziente di lasciare quel posto dimenticato da Dio dove suo fratello, presto o tardi, sarebbe arrivato a cercarla, condannandola.
E, se avevano fatto tutto per bene, non avrebbe mai capito dove si trovava in realtà.
La cittadina dove si sarebbe stabilita l’aveva scelta lei, da sola, senza comunicarla a loro che ne conoscevano giusto lo stato. In questo modo, anche se fossero stati ipnotizzati, non avrebbero potuto rivelare con precisione dove era andata.
Con un po’ di fortuna, Tetch non avrebbe mai capito che loro c’entravano qualcosa con la scomparsa di sua sorella. Avrebbe seguito gli indizi falsi e sarebbe andato altrove, lasciando Gotham per sempre. Questo era ciò che Jim sperava con tutto sé stesso.
Dopo averla accompagnata, lui e Harvey si fermarono a fare colazione al bar della stazione. Era davvero presto, troppo presto per recarsi direttamente al lavoro, ma tardi per tornare a casa a riposare.
Jim, guardando in faccia il suo amico, poteva leggere nei suoi lineamenti quanto fosse stanco. Erano stati giorni frenetici, in cui avevano continuato a lavorare persino dopo aver lasciato la centrale, per occuparsi della partenza di Alice. Ma soprattutto erano stati preoccupati entrambi, impegnandosi a fare tutto per bene e prima che fosse troppo tardi.
Dopo un lungo silenzio che riempirono semplicemente bevendo del caffè, Harvey sospirò.
“E pensare che volevi fare tutto da solo… Non so proprio come avresti potuto,” esalò, rivolgendogli uno sguardo stanco.
“Già, nemmeno io.”
Anche solo la pressione psicologica era stata schiacciante. Per non parlare di tutti i soldi che erano serviti, e che Jim non sarebbe riuscito a radunare nemmeno nel giro di alcuni mesi. Doveva ammetterlo, il sostegno di Harvey era stato prezioso, ma l’aiuto di Oswald era stato fondamentale. Jim, in un certo senso, gli doveva molto, anche se lui avrebbe detto il contrario.
Sperava che ne valesse la pena... Che non si rivelasse fatica sprecata.
Il peggio era che quel problema era risolto, ma si trattava solo dell’inizio. Jervis Tetch non si era ancora visto a Gotham, ma prima o poi avrebbe fatto la sua comparsa, e dopo di lui ci sarebbero stati tanti altri. Jim non riusciva ancora a vedere la luce in fondo al tunnel.
Dopo quei fatti, i due detective poterono trascorrere qualche giorno tranquillo. Anche se “tranquillo” non era propriamente il termine corretto, perché c’erano sempre delle questioni di cui occuparsi alla GCPD, e spesso si trattava di casi di omicidio. Jim sapeva più o meno come muoversi per risolverli in fretta, ma avevano molto da fare comunque.
Poi, in un pomeriggio piovoso che Jim stava trascorrendo chino sulle scartoffie, si sorprese quando vide di essere stato raggiunto da Butch Gilzean in persona.
“Butch…” disse, posando la penna e corrugando la fronte.
“Jim, Oswald mi manda a darti questa,” dichiarò, e gli consegnò una busta completamente nera. “Dice anche che il tizio si è presentato al club, ma lui l’ha mandato via. Confida che avresti capito.”
Doveva riferirsi a Jervis Tetch, il che gli provocò un moto di preoccupazione per un breve istante. Era arrivato, si trovava a Gotham. Ora la speranza era che seguisse le tracce di sua sorella fino all’appartamento abbandonato, e qui trovasse gli indizi che avevano fabbricato appositamente per depistarlo.
Dopo averlo pensato, il detective concentrò la sua attenzione sulla busta. Sotto lo sguardo attento di Butch, la aprì ed estrasse un cartoncino nero con degli eleganti decori argentati sugli angoli. Le lettere che vi erano stampate erano anch’esse in inchiostro argento, e ciò che c’era scritto gli fece schiudere le labbra, perché non si era aspettato affatto che si trattasse di questo.
Elijah Van Dahl era morto e l’indomani ci sarebbe stato il suo funerale.
“Lui tiene davvero che tu ci sia, per qualche motivo,” disse Butch in un tono calmo, anzi spento.
Invece di rispondere a parole, Jim annuì e ripose il cartoncino all’interno della busta.
Il funerale del signor Van Dahl si teneva in una grande chiesa addobbata con fiori bianchi. La cerimonia non era niente di speciale, le solite parole di un parroco che non conosceva affatto il defunto, e che non sarebbe riuscito a dare conforto alla famiglia. In qualche modo gli fece pensare a quando era stato al funerale del suo, di padre, anche se si trattava di così tanti anni prima che ormai ne conservava solo dei vaghi ricordi. Tra questi, il fastidioso odore dell’incenso, le lacrime di sua madre, la pioggia leggera che li aveva attesi all’esterno...
Jim stava assistendo all’omelia da solo, in disparte, seduto in uno dei posti in fondo. Dato che la chiesa era praticamente vuota, da dove si trovava riusciva a vedere Oswald seduto in prima fila, con al suo fianco Butch Gilzean.
Dall’altra parte della navata sedevano i suoi fratellastri, vestiti completamente di nero. Guardavano davanti a loro tenendo la schiena dritta. Il loro atteggiamento, anche se li vedeva da lontano e di spalle, era molto diverso da quello di Oswald, che sedeva ricurvo in avanti e ogni tanto volgeva il capo in direzione della bara, lasciata aperta per chi voleva porgere i suoi omaggi al defunto.
Non era stato al funerale di sua madre, non aveva potuto. Jim ci pensò per la prima volta in quel momento, trovando impossibile non farlo. Subito dopo la sua morte, Oswald si era dovuto nascondere perché ricercato con l’accusa di aver attentato alla vita di Galavan. Poi, dopo l’effettiva morte di Galavan, si era nascosto e infine era stato spedito ad Arkham.
Era successo tutto in così poco tempo da sembrare incredibile… e crudele. Jim se ne rendeva conto davvero solo adesso.
Alla fine del sermone, il parroco lasciò del tempo per gli ultimi saluti al defunto. Un paio di persone si alzarono per avvicinarsi alla bara, mentre i pochi altri presenti andarono dai due fratelli a far loro le condoglianze, forse non conoscendo nemmeno Oswald, non sapendo che fosse il figlio biologico di Elijah Van Dahl.
Butch Gilzean, ancora seduto accanto a lui, sollevò una mano e gli diede due colpetti leggeri su una spalla.
Jim si alzò dopo un paio di secondi di esitazione. Non si avvicinò alla bara, perché non aveva mai conosciuto il signor Van Dahl. Sapeva che aspetto avesse e che era morto di malattia, ma nient’altro.
Non lo considerava nemmeno una delle persone per cui non aveva potuto fare niente, infatti Jim era ben consapevole di non aver avuto alcun potere su di lui e sul suo destino. La sua morte era un monito, dimostrava che certe cose dovevano accadere comunque, qualsiasi sforzo lui intendesse compiere per impedirle.
Malgrado tutto, però, non riusciva a sentirsi completamente estraneo al dolore che si respirava in quella chiesa. Al dolore di Oswald, un figlio che aveva appena perso suo padre.
Jim, in quel momento, si sentì certo più che mai di aver fatto bene a portarlo alla villa dei Van Dahl, subito dopo Arkham. In questo modo aveva potuto conoscerlo, trascorrere con lui più tempo possibile prima della sua inevitabile dipartita. Sapeva di aver fatto la cosa giusta lasciando Oswald fuori da casa sua, quel giorno.
E così, con passo lento e misurato, non senza attirare l’attenzione dei pochi presenti, che non lo conoscevano, si portò al fianco di Oswald.
Lui sollevò subito lo sguardo su Jim, con un movimento del capo secco e nervoso, e il detective notò che aveva gli occhi arrossati da un pianto silenzioso. Nella mano sinistra, guantata, stringeva un fazzoletto sgualcito di stoffa scura.
“Jim,” esalò, senza staccare gli occhi da lui, e il detective sentì qualcosa agitarsi nel suo stomaco.
Un sentimento indefinito, forse una dolorosa empatia per ciò che stava affrontando.
“Condoglianze,” gli disse piano, offrendogli la sua mano destra.
Oswald la guardò, poi rivolse nuovamente lo sguardo a lui. Mise in tasca il fazzoletto e scattò in piedi ma, anziché afferrare la sua mano, si avvicinò di più e si strinse a lui in un abbraccio.
Il detective, per un lungo istante, non seppe come reagire. Oswald non gli era mai stato tanto vicino e la stretta che aveva su di lui era serrata ma non dolorosa, non eccessiva. Era bisognosa.
E così Jim si ritrovò ad appoggiare piano le mani sulla sua schiena, mentre il suo sguardo incerto incontrava quello stranito di Butch Gilzean.
Oswald aveva ripreso a piangere in silenzio, aggrappato a lui. Jim se ne accorse perché lo sentì tremare leggermente tra le sue braccia e questo gli smosse di nuovo qualcosa nel profondo.
Erano quasi alti uguali, eppure gli sembrò che lui fosse piccolo e fragile, mentre lo avvolgeva con le sue braccia. Mai come quella volta gli era sembrato tanto umano e vulnerabile. Mai.
Dopo aver fulminato con lo sguardo Butch, che si schiarì la voce e si alzò per lasciarli soli, Jim prese a muovere la sua mano sinistra sulla schiena di Oswald in un gesto che sperava gli fosse di conforto.
“So che è dura… ma andrà tutto bene,” sussurrò, consapevole che in una situazione del genere non ci fossero parole giuste.
Dopo un tempo che sembrò interminabile, sentì Oswald tirare su col naso, dopodiché si allontanò lentamente da lui. Le sue lacrime dovevano essere finite tutte sul cappotto di Jim, perché il suo viso non ne era bagnato affatto. In compenso i suoi occhi erano ancora più arrossati di prima, se possibile.
Jim ci mise un istante di troppo a spostare le mani dalla sua schiena, il che lo fece sentire un tantino a disagio.
“Grazie per essere venuto,” disse, e Jim si limitò ad annuire. “Avevo bisogno di vedere un amico.”
“C’era Butch con te, fino a poco fa,” gli fece notare.
Oswald tese le labbra in un sorriso prima di rispondere, ma bastava guardarlo per capire quanto fosse distrutto emotivamente.
“Ho apprezzato anche la sua presenza, ma non è proprio la stessa cosa,” dichiarò, senza far capire davvero a Jim cosa intendesse. “Hai tempo per restare, o…”
Non terminò mai la frase, lasciandola in sospeso.
“Posso restare,” gli accordò Jim.
Ormai aveva preso la giornata libera e, sentendosi chiedere in quel modo di rimanere, non si era sentito di rifiutare.
Ancora una volta Oswald gli rivolse un sorriso teso, ma in qualche modo gli sembrò anche riconoscente.
Jim rimase accanto a lui mentre quattro uomini, probabilmente suoi sottoposti, trasportavano la bara - ormai chiusa - verso lo spazio del cimitero circostante dove sarebbe stato sepolto. Oswald si incamminò per seguirli per primo, dopo aver recuperato il bastone appoggiato alla sua sedia, e Jim andò con lui. Anche Butch, rimasto in attesa fuori dalla chiesa, quando li vide si unì a loro.
Tutti gli altri li seguirono, con Sasha e Charles Van Dahl in testa al gruppo.
Il parroco pronunciò qualche altra parola di rito mentre la bara veniva calata, e in quel momento Jim si accorse che Oswald stava cercando di non scoppiare a piangere di nuovo.
Ancora una volta Jim si sentì partecipe del suo dolore, pur non sapendo cosa fare di ciò che stava provando.
Chapter Text
Diversi minuti dopo la fine del funerale, Jim si ritrovò - non sapeva nemmeno lui come - seduto a un tavolo circolare di un ristorante, tra Oswald e Butch.
Non si erano allontanati poi molto dal cimitero, e non si trovavano in un posto costoso che avrebbe anche garantito loro della privacy. Era come se Oswald avesse scelto un ristorante a caso, giusto per togliersi il pensiero del pranzo, e considerando come doveva sentirsi aveva senso.
In ogni caso, Jim era un pochino a disagio in quella situazione.
Unica nota positiva, i prezzi del menù erano decisamente abbordabili.
Gli altri sottoposti di Oswald si erano dileguati subito dopo che tutti erano usciti dal cimitero, lasciando solo loro due a fargli compagnia. Adesso lui fissava la tavola con uno sguardo perso, restando in silenzio.
Anche Butch se ne stava zitto, segno che doveva sentirsi a disagio almeno quanto Jim.
Dopotutto, era un detective seduto al fianco di due criminali. Era ovvio che guastasse l’atmosfera, già triste di per sé.
Dopo aver ordinato, Jim si alzò per dirigersi in bagno a rinfrescarsi le idee lavandosi il viso. Era finito in una situazione strana, dalla quale non sarebbe uscito presto dato che aveva promesso a Oswald di restare, quindi tanto valeva stare al gioco… Ma come avrebbe fatto a sopravvivere, con quell’atmosfera tesa?
Quando tornò in sala, vide Butch alzarsi e camminare verso di lui con uno sguardo corrucciato, chiaramente diretto al bagno a sua volta.
“Ehi, so che non sono il benvenuto. Non so perché mi voglia qui,” lo informò, mettendosi a braccia conserte.
Voleva assicurarsi di non discutere con lui a tavola, altrimenti la situazione sarebbe solo peggiorata.
“Lascia stare Jim, lo so io,” dichiarò Butch, superandolo senza guardarlo in faccia e chiudendo la porta del bagno dietro di sé.
Con un sospiro, il detective tornò al loro tavolo. Oswald era rimasto da solo e, nel suo stato attuale, non era un bene che lo restasse a lungo. Se non fosse stato così, non sarebbe arrivato al punto da chiedere a Jim di fargli compagnia.
“Butch sembra di cattivo umore… Che cosa gli è preso?” domandò, sperando di riuscire a distrarlo dai suoi pensieri.
Oswald finalmente gli rivolse lo sguardo, che Jim riconobbe come più spento del solito.
“Immagino si tratti di Tabitha, le cose tra loro non vanno come lui sperava,” rivelò, come se niente fosse.
Tabitha Galavan.
Lei non era davvero una preoccupazione per Jim, pur avendolo fatto penare ai tempi di suo fratello. Era una grande combattente, instancabile persino, a giudicare da quanto gli aveva raccontato una volta Alfred. A parte questo, non avrebbe fatto particolari danni perché, prima o poi, Oswald l’avrebbe uccisa.
Per quanto fosse stato un ordine di suo fratello, era stata lei a uccidere sua madre e Oswald - Jim lo sapeva - stava covando del profondo rancore nei suoi confronti. Faceva finta di niente, mentre lo teneva in caldo ancora per un po’... ancora per qualche anno, magari, come era già successo ai tempi.
Chissà se Jim avrebbe potuto evitare la sua morte, in qualche modo. Comunque, riteneva che fosse troppo presto per pensarci.
“Quei due hanno una relazione?” chiese, fingendo di non saperlo.
Non si era mai interessato alla vita amorosa dei criminali, ma loro erano stati una coppia molto chiacchierata, per come si erano presi e lasciati nel tempo. Il ruolo che aveva avuto Barbara nella loro relazione rimaneva un mistero per lui, ma non aveva l’obiettivo di venirne a capo.
“Così pare. Ho lasciato che vivessero a villa Falcone, perché io ormai mi sono stabilito a casa di mio padre,” dichiarò, in un tono stanco.
Non faceva nemmeno finta di non aver ripreso il controllo della malavita di Gotham. Non gli interessava, apparentemente, che Jim lo sapesse… O forse si aspettava che lui lo avesse già capito, il che in effetti era vero.
Butch tornò da loro un attimo dopo, appena prima dell'arrivo del cameriere con le loro ordinazioni.
Dopo un altro lungo momento di silenzio, Jim si accorse che Oswald stava mangiando a malapena, con un'espressione spenta sul viso.
“Tuo padre vorrebbe che mangiassi…” gli disse, e Oswald si voltò per rivolgergli uno sguardo sorpreso.
Jim aveva forse pestato una mina? Probabilmente sì. Giunto a questa conclusione, attese l'inevitabile scoppio d'ira… che non arrivò mai.
“Hai certamente ragione...” gli rispose invece, tornando concentrato sul proprio piatto.
“Allora, Jim…” disse dopo un po’ Butch, che non aveva preso parola fino a quel momento, forse per non toccare argomenti scomodi. “Toglimi una curiosità: come vanno le cose con Lee? Barbara non faceva che parlare di voi due, quando c’era Galavan.”
A giudicare dall’occhiataccia che gli rivolse Oswald e dalla sua espressione infastidita, Butch doveva aver pestato diverse mine con la sua domanda. Una di queste doveva essere Galavan, le altre a Jim erano sconosciute.
“Non stiamo più insieme,” tagliò corto, prima che Oswald potesse dire qualsiasi cosa al suo sottoposto. “Siamo solo colleghi adesso.”
“E non è strano lavorare a stretto contatto con la propria ex?” chiese ancora, guadagnandosi un'altra occhiata severa.
Era più strano che un criminale gli facesse certe domande, secondo lui, anche se probabilmente il suo era solo un modo per riempire il silenzio.
“Non stiamo davvero a stretto contatto, e comunque a me non interessa più,” puntualizzò.
Lee non gli interessava davvero, ma era vero anche che c'era del disagio tra loro, visti i loro trascorsi. Inoltre lei doveva essere ancora innamorata di lui, considerando che si erano lasciati da poco, e conoscendola. Conoscendo come sarebbero andate le cose, se solo non l'avesse lasciata per proteggerla e perché sapeva che per loro non ci sarebbe stato alcun futuro.
Jim si era arreso a rimanere solo da molto tempo ormai, tanto che non provava alcuna emozione residua per nessuna delle sue ex, nemmeno quelle storiche come Barbara e Lee, con le quali era quasi riuscito a costruire davvero qualcosa. Quasi, perché poi Gotham - e lui stesso - aveva rovinato tutto.
Per qualche motivo Oswald sembrava essere tornato tranquillo, il che era positivo.
“Come stanno andando le cose al lavoro?” gli chiese lui.
Che volesse forzare un minimo la conversazione, o solo spostare il discorso altrove, Jim non lo sapeva, ma era felice che Oswald gli stesse dando l’occasione di riempire quel silenzio tanto pesante.
“Come al solito. Non mancano mai gli omicidi a Gotham. A proposito, grazie per avermi avvisato… dell'arrivo del tizio, intendo,” disse, senza entrare nei dettagli perché era chiaro che Butch non ne sapesse nulla.
“Figurati. So quanto lo stessi aspettando e mi avevi detto di restare in guardia. Mi è sembrato il minimo.”
Jim annuì.
Gli era comunque grato. In un periodo delicato come quello, Oswald aveva saputo che Tetch era arrivato al club - saputo da altri, probabilmente, perché era impensabile che si trovasse lì in quei giorni invece che a casa - e lo aveva avvisato, anziché pensare unicamente a sé stesso. Non tutti lo avrebbero fatto. Il vecchio Oswald, probabilmente, non lo avrebbe fatto.
“E non ha fatto niente di… strano?” indagò, ancora una volta senza entrare nello specifico.
Oswald corrugò la fronte.
“Non ero presente di persona al suo arrivo, ma no, a quanto mi hanno riferito.”
Dopo il pasto, Butch dichiarò che se ne andava via, se la sua presenza non serviva più, e Oswald lo congedò.
“Jim, penso io al conto, tu aspettami pure fuori se preferisci,” gli disse Oswald, e così lui comprese che il suo compito non era ancora terminato.
Uscì dal ristorante come gli aveva proposto e prese una boccata d'aria fresca, sentendosi subito meglio. Restare là dentro, con tutti e due, era stato opprimente, anche se in qualche modo ce l'aveva fatta.
Per sua sorpresa trovò Butch ancora lì, e l'uomo gli rivolse un’occhiata neutra. Sembrava pensieroso.
“Quindi adesso siete amici…” osservò, avvicinandosi a lui.
“Così pare,” disse Jim, perché in quel momento non si era sentito di negarlo.
Non si riteneva davvero suo amico, non dopo ciò che si aspettava facesse in futuro... ma se per quel giorno a Oswald serviva che lo fosse, allora avrebbe interpretato il ruolo. Evidentemente non poteva resistere alla prospettiva di dare sostegno a qualcuno che stava soffrendo.
Jim sapeva di essere capace di sacrificarsi per gli altri, invece questo lato di sé non lo conosceva affatto.
Butch sollevò piano il braccio che terminava con la protesi in metallo.
“Considera anche me un amico, e guarda cosa è stato capace di fare,” lo mise in guardia, alludendo alla sua mano tagliata.
Jim sapeva che era successo in una situazione disperata, quando sua madre era stata rapita da Galavan e lui voleva ritrovarla. Ma sapeva anche che Oswald era in grado di comportarsi persino peggio di così. Inoltre una mano mozzata era pur sempre una mano mozzata, non c’erano attenuanti.
E Jim si aspettava ancora che Oswald lo avrebbe ucciso, a un certo punto.
“Lo so,” gli disse, senza porsi domande sul perché Butch avesse voluto affrontare il discorso.
Alla fine se ne andò senza aggiungere altro, dopo aver semplicemente annuito, e una manciata di secondi dopo Jim venne raggiunto da Oswald.
“Vogliamo andare?” propose, rivolgendogli un sorriso tirato che era ben lontano dall'essere genuino.
“Dove, di preciso?” chiese il detective, per capire quali fossero le sue intenzioni.
“Sono atteso dal notaio per la lettura del testamento. Vorrei… che tu restassi al mio fianco, se non ti è troppo di disturbo.”
A quella richiesta, pronunciata con esitazione, Jim non poté fare a meno di annuire.
Non sapeva perché Oswald volesse proprio lui, quando avrebbe potuto portare con sé Butch e tenere lui all’oscuro di quanto avrebbe ereditato. O ancora, sarebbe potuto andare da solo, chiedendogli di rimanere fuori. Invece, dopo che uno dei suoi sottoposti fu arrivato apposta in auto per portarli a destinazione, il criminale volle che entrasse con lui nell’ufficio. Jim non si oppose.
Il notaio li attendeva seduto dietro a una grande scrivania, davanti alla quale avevano già preso posto Sasha e Charles Van Dahl. Un segretario portò una sedia in più per Jim e così si sedettero entrambi, sotto gli sguardi apertamente ostili dei fratelli.
Oswald doveva essere stato felice, al suo arrivo a casa loro, di scoprire di avere una famiglia oltre che un padre. Ora che suo padre era morto, però, non gli rimaneva più nessuno, perché era ovvio che loro non volessero avere a che fare con lui. Ed era chiaro anche che sapessero dell’intenzione della madre di uccidere sia lui sia Elijah, anche se Jim non aveva potuto provarlo in nessun modo.
“Se ci siamo tutti, procederei con la lettura del testamento,” annunciò l’anziano notaio, indossando gli occhiali.
Jim non era particolarmente coinvolto dalla situazione, che di fatti non lo riguardava, ma aveva notato quanto Oswald fosse nervoso. Che sperasse di aver ereditato il più possibile, oppure che tra quelle righe ci fosse un’implicita - e ultima - dimostrazione di affetto da parte di suo padre, Jim non lo sapeva.
Era la prima volta che viveva qualcosa di simile.
Quando era morto il suo, di padre, non c’era stato nessun testamento da leggere. Gli unici parenti rimasti in vita erano lui, sua madre e lo zio Frank, che non si era nemmeno presentato al funerale. Non c’era mai stato per loro, il che era stato causa di rancore, ma ormai Jim sapeva cosa era successo davvero.
Sapeva anche che suo zio sarebbe tornato, e allora Jim avrebbe agito diversamente per provare a salvarlo.
Il notaio lesse il testamento mentre Oswald e i suoi fratellastri mantenevano un silenzio teso e carico di aspettative. Alla fine scoprirono che Elijah aveva lasciato tutto al suo figlio biologico, a parte un po’ di soldi per gli altri due. Considerando quanto fosse grande il suo patrimonio, doveva trattarsi solo di una cifra simbolica, anche se per uno come Jim - che aveva uno stipendio misero e che ultimamente aveva rischiato di rimanere al verde - avrebbe rappresentato una vera fortuna.
Dopo aver rivolto un’ultima occhiataccia risentita a Oswald, loro se ne andarono senza dire una parola. Lui invece salutò il notaio con una stretta di mano e uscì dall’ufficio senza alcuna fretta, seguito da Jim che era rimasto in religioso silenzio, per rispetto.
Il sottoposto che li aveva accompagnati li stava ancora aspettando fuori, perciò salirono entrambi in auto. Anche qui Oswald non disse nulla, forse perché stava ancora riflettendo su quanto era accaduto. Forse, come era stato per Jim alla morte di suo padre, non si capacitava del fatto che fosse tutto vero.
“Portaci al cimitero,” disse il detective, e l’autista anziché obbedire restò in attesa di una parola di Oswald, che invece di chiedere spiegazioni rivolse a lui un’occhiata confusa. “Prendiamo la mia auto, l’ho lasciata lì,” spiegò brevemente.
Dopo un istante in cui lo osservò e basta, Oswald annuì.
“Fai come dice,” ordinò all’autista, che finalmente accese il motore.
L’atmosfera al cimitero era pesante, dopo quanto successo. Jim non propose di rientrarci per tornare alla tomba e nemmeno Oswald disse di volerlo fare, quindi il detective fece strada nel parcheggio fino al posto dove aveva lasciato la macchina.
Fu strano, inizialmente, sedersi al posto di guida mentre Oswald si accomodava accanto a lui. Ma in effetti, con tutto ciò che stava accadendo in quei giorni, avrebbe dovuto riconsiderare la sua definizione di “strano”.
Nessuno dei due disse niente mentre Jim guidava con una meta ben precisa in mente. Una volta arrivati, dopo aver parcheggiato, rivolse un’occhiata a Oswald e capì che era confuso sul perché si trovassero lì, ma seguì comunque Jim fuori dall’auto senza fiatare.
Gotham non aveva molte zone verdi, ma c’era comunque qualche parco. Una volta entrati nel folto del verde, sarebbe sembrato di essere altrove, non più in quella caotica città che li opprimeva entrambi con varie preoccupazioni, e sperava che questo sarebbe stato d’aiuto.
Si avviò per primo verso l’entrata, regolando il suo passo per non lasciare Oswald indietro, e assicurandosi che stesse camminando senza troppa fretta, alle sue spalle.
“Perché ci troviamo qui?” gli chiese lui dopo un po’, con un tono di voce che non nascondeva la malinconia che stava provando.
Jim si fermò e lasciò che raggiungesse il suo fianco. Erano quasi arrivati al centro del parco, ma già si respirava un’aria diversa, più pulita in qualche modo, ma non era solo questo. Da sopra le cime degli alberi si vedevano ancora gli alti edifici della città, certo, ma erano lontani.
“Quando ero piccolo ed era appena morto mio padre, restare a casa era soffocante. Allora uscivo, lo facevo di nascosto dato che mia madre non voleva, e cercavo il parco più vicino. In realtà una qualsiasi zona verde andava bene, non c’era molta scelta dove abitavo,” raccontò, e notò che Oswald gli stava rivolgendo uno sguardo interessato. “Speravo potesse aiutare anche te a distrarti… e a credere di essere altrove, lontano da ogni pensiero spiacevole.”
“Come se ingannassi la mente,” osservò, al che il detective annuì. “Posso dare una chance alla tua idea. Jim, non ti facevo un amante del verde.”
Dopo averlo detto riprese a camminare per primo, diretto al centro del parco.
“Non lo sono, di base, ma a volte fa bene rifugiarsi in un posto del genere. O almeno, per me a quei tempi è stato così… ma sono passati tanti anni.”
“Comunque sia, è stato un pensiero gentile. Ti ringrazio,” gli disse Oswald, rivolgendogli uno sguardo fugace.
Non c’era quasi nessuno nel parco, essendo pomeriggio presto di un giorno in settimana. Si vedevano solo delle mamme con i loro bambini piccoli in un’area giochi, a cui loro evitarono di avvicinarsi per non lasciarsi disturbare da quelle vocine stridule e felici, e qualche raro passante qua e là. Era un posto particolarmente tranquillo, in quel momento.
E, mentre passeggiava con passo lento accanto a Oswald, Jim si domandò quando sarebbe tornato tutto alla normalità. Quando lui avrebbe superato il lutto, e avrebbe ripreso con i crimini e con le sue pretese ambiziose, decidendo di diventare sindaco, di creare le sue assurde licenze e tutto il resto. Quando sarebbero tornati a essere solo un detective e un criminale, come era giusto che fosse. Perché era questo il vero rapporto che c’era tra loro.
Malgrado questi pensieri, e il sentore che fosse davvero strano trovarsi con lui in una situazione del genere, Jim si sentiva comunque in pace, forse grazie alle sensazioni che gli trasmetteva il parco.
Da quanto non trascorreva del tempo così, all’aria aperta, semplicemente a cercare di non pensare affatto? Tanto, troppo tempo. Quando era tornato a Gotham per lavorare alla GCPD, quello era stato l’ultimo dei suoi pensieri, anzi nemmeno l’ultimo.
Doveva ammettere che quella passeggiata, iniziata da poco, gli stava già facendo bene. Si sentiva sereno, come se avesse lasciato le sue preoccupazioni all’ingresso, e quella era una sensazione che non credeva avrebbe provato tanto presto. E invece era inaspettatamente a portata di mano…
“Ti va un caffè?” propose, quando notò un chioschetto incastonato nel verde, tra le varie piante e cespugli di cui non conosceva il nome.
Voltandosi nella direzione di Oswald, gli parve che la sua domanda lo avesse appena trascinato fuori da uno stato di rilassamento, o di riflessione forse. Ci mise un istante di troppo a rispondere, come se non avesse capito subito cosa gli avesse detto.
“Volentieri,” rispose alla fine, e Jim si diresse da solo al chiosco.
Ordinò del caffè per entrambi e tornò da lui, poi notò una panchina libera nelle vicinanze e gli fece segno di seguirlo lì. Si sedettero, e Jim badò bene di mantenere una certa distanza da lui, ma anche di far sì che non sembrasse ovvio.
“Quanto ti devo per il caffè?” gli chiese Oswald, subito dopo averne bevuto un primo sorso.
Jim scosse la testa.
“Niente. Mi hai offerto da mangiare ben due volte in questi giorni, che sarà mai un caffè? Almeno questo posso permettermelo.”
“Si trattava di questo, quindi. Ti hanno diminuito lo stipendio di recente?” gli chiese, assumendo un’aria confusa.
“No… Ho solo accettato il fatto che i soldi possono risolvere parecchi problemi e, dato che avevo molti problemi, ne ho spesi troppi,” rivelò e fece spallucce, decidendo di non dire più di questo.
“Se hai dei debiti, Jim, io posso aiutarti,” disse Oswald, come se per lui fosse una questione di poco conto.
Ma l’ultima cosa che Jim voleva era avere quel tipo di debito con lui.
“No, non ne ho e d’ora in poi starò più attento,” dichiarò, anche se in realtà non sapeva se ci sarebbe riuscito.
Il suo pensiero principale in quel periodo era stata Alice Tetch, e con lei il fatto che non avrebbe mai potuto finanziare la sua partenza da solo. In ogni caso, la questione ormai era risolta. Al resto avrebbe pensato più avanti, doveva solo resistere fino al suo prossimo stipendio senza morire di fame, e intanto organizzare le sue mosse successive.
“Avevi ragione, si sta inaspettatamente bene qui,” gli concesse Oswald dopo un po’, guardandosi intorno.
Jim non commentò, tenendo per sé il fatto che anche lui si sentisse meglio.
“Adesso cosa farai?” gli chiese, riferendosi alla sfera personale e non a quella dei suoi affari criminali.
Immaginava che lui avrebbe capito anche senza specificarlo.
“Innanzitutto, tornerò a casa e farò cambiare ogni serratura. I figli di Grace hanno già portato via le loro cose, ma non si è mai abbastanza prudenti,” dichiarò, facendo vagare lo sguardo nei dintorni. “Poi stavo valutando di iscrivere Olga, la governante, a un corso perché possa imparare la nostra lingua. Non riesco a capire perché mio padre non abbia provveduto a farlo prima.”
Nominando suo padre la sua espressione non cambiò. Forse aveva versato tutte le sue lacrime, per il momento.
“Come ti senti adesso?” osò chiedergli.
Era una domanda troppo personale posta in un contesto troppo delicato, eppure Jim aveva sentito la necessità di farlo.
“Non lo so, James. Mi sembra tutto così surreale…”
Il detective annuì. Conosceva bene quella sensazione.
Non l’aveva provata solo per suo padre, da piccolo, ma anche per delle morti più recenti come quella di suo zio Frank, che in quel momento era ancora vivo. L’aveva provata persino per Alice Tetch e per tutti gli altri che non era riuscito a salvare.
“Fatico ancora ad accettare che sia vero. Fino a qualche giorno fa eravamo insieme, sebbene fosse molto malato, e adesso improvvisamente non c’è più…” aggiunse, e gli rivolse lo sguardo. “Ma forse è ancora più assurdo trovarmi qui, in un parco, a bere un caffè con te.”
Jim gli offrì un sorriso tirato. Oswald voleva solo sdrammatizzare, era ovvio, ma non poteva ribattere perché provava lo stesso.
“Ti accompagno a casa?” gli offrì, dopo un po’.
Il suo bicchiere di caffè era già vuoto e le sue mani erano tornate a essere fredde ormai.
“Sì, ti ringrazio,” rispose Oswald, e insieme si avviarono con calma verso il parcheggio.
Notes:
Spero che la storia vi stia piacendo.
Ogni tanto condivido su Tumblr dei retroscena di quello che scrivo, mi trovate cercando hereforchill.
Chapter 10
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Lucius Fox aveva iniziato a lavorare alla GCPD.
Era una novità di quei giorni, ma niente di sorprendente per Jim che lo aveva già conosciuto, quando aveva vissuto per la prima volta quegli eventi.
Qualcosa era cambiato da allora, ma la presenza di Lucius alla centrale suggeriva che Bruce avesse già esposto la corruzione della Wayne Enterprises, il che significava che Jim avrebbe dovuto parlargli per metterlo in guardia sulla Corte dei Gufi, che presto si sarebbe interessata a lui.
In ogni caso, era strano sapere che Fox lavorava alla centrale e dover fingere di non conoscerlo, soprattutto perché ai tempi Jim lo considerava un amico. Ora invece era poco più di un estraneo del quale si presumeva che lui non sapesse nulla.
Cercò di non pensarci per il momento, immaginando che avrebbero avuto tante occasioni per parlare e diventare amici in seguito. Si chiese, piuttosto, cosa sarebbe successo da adesso in avanti.
Tetch era a Gotham, ma non aveva ancora fatto nessuna mossa. Non si sentiva affatto parlare di lui, in realtà, e Jim non aveva osato chiedere a Oswald di mettere qualcuno a sorvegliarlo, per paura che l’ipnotizzatore se ne accorgesse e lo usasse per risalire a loro.
Quindi, per quanto ne sapevano, poteva anche essersene già andato, ma sarebbe stato troppo bello per essere vero.
Jim immaginava che Barbara si sarebbe svegliata dal coma a breve, ma il nuovo direttore di Arkham si sarebbe bevuto la sua recita secondo la quale era pentita di ciò che aveva fatto? L’avrebbe dichiarata guarita? Ai tempi, Strange l’aveva fatto, ma adesso che lui non dirigeva più il manicomio era difficile fare previsioni.
Inoltre, senza i mostri di Strange in libertà, Oswald non aveva un motivo per opporsi a Aubrey James chiedendo che ci fossero nuove elezioni. James era subentrato al ruolo di sindaco senza venire davvero eletto, dopo la morte di Galavan, ma la situazione di adesso era completamente diversa rispetto a quanto già vissuto da Jim.
Ciò significava che tanto altro sarebbe cambiato, e così sarebbe stato complicato prevedere le mosse dei criminali che lui credeva di conoscere.
“Jim!” lo chiamò Lee, distraendolo dai suoi pensieri. “Ho appena saputo che Nora Fries è morta. È successo ieri notte… Ho pensato che volessi saperlo.”
La moglie di Fries era morta. Ecco un problema davvero urgente, perché probabilmente adesso lui avrebbe voluto la sua testa.
Lee si era avvicinata a Nora nel periodo in cui Fries era stato in loro custodia e Jim sapeva che ogni tanto era andata a trovarla in ospedale, perciò le aveva chiesto di tenerlo aggiornato sul suo stato di salute.
Sapeva che prima o poi sarebbe morta, e a giudicare dal suo stato di salute sarebbe successo presto, ma quella era la notizia peggiore che potesse esserci. Jim non era certo di come avrebbe reagito Freeze e quindi non si era preparato davvero per affrontarlo.
“Mi dispiace, Lee. E grazie per avermelo detto,” rispose, dopodiché incontrò lo sguardo di Harvey.
“Immagino che questo significhi guai, per noi,” commentò Harvey, mentre lei se ne andava.
“Già. Dobbiamo parlare.”
Poco dopo uscirono per andare a pranzare nella solita tavola calda, e qui Jim scelse un tavolo isolato, in un angolo, dove sperava di potergli raccontare di Freeze senza che altri ascoltassero.
Harvey gli rivolse un’occhiata preoccupata mentre prendeva posto di fronte a lui, dando le spalle all’entrata.
“Quello che sto per dirti non ti piacerà,” iniziò, perché ne era consapevole.
“Ultimamente non mi piace niente di quello che mi racconti, Jim,” sottolineò Harvey, zittendosi subito dopo perché la cameriera li aveva raggiunti.
Versò loro due tazze di caffè e prese le ordinazioni, dopodiché tornò dietro al bancone.
Jim sospirò prima di riprendere parola.
“È Fries che ho scambiato con Oswald, perché Strange accettasse di lasciarlo andare.”
“Questo lo avevo intuito,” replicò amaramente Harvey, dopo aver bevuto un sorso di caffè. “Ma Fries aveva dato di matto, per questo lo abbiamo trasferito ad Arkham.”
“Solo perché io gli ho suggerito di farlo,” rivelò, e il suo amico non gli sembrò affatto sorpreso. “Sapevo che Strange stava conducendo degli esperimenti e che avrebbe voluto la formula su cui stava lavorando Fries, e lui ha pensato che andando ad Arkham avrebbe potuto continuare a perfezionarla.”
Harvey corrugò la fronte.
“Quindi quei due si conoscevano…"
“Sì. Ma poi Indian Hill è stato chiuso e così Fries ha perso la possibilità di sperimentare la sua tecnologia criogenica.”
“In altre parole, alla fine dal vostro accordo non ha ottenuto niente, è solo rimasto fregato. Sicuro di aver fatto la scelta giusta mandandolo lì, considerando che adesso è in libertà?"
“Non ne sono convinto, ma è l’unico piano a cui ero riuscito a pensare,” ammise.
“Per liberare Cobblepot?” chiese acidamente Harvey.
Jim corrugò la fronte, confuso. Non era di lui che stavano parlando.
“No Harvey, non si trattava di questo. La presenza di Oswald ad Arkham ha creato la possibilità di fare lo scambio, ma Fries sarebbe comunque finito lì, però da morto. Strange avrebbe recuperato gli studi sulla sua formula e lo avrebbe riportato in vita, ma non sarebbe stato più lui.
Harvey sgranò gli occhi, questa volta apparendo davvero spiazzato.
“Intendi dire che Strange stava facendo esperimenti per riportare in vita i morti?” domandò e Jim annuì.
Non gli avrebbe detto che li faceva per conto della Corte dei Gufi, perché sarebbe stato troppo rischioso condividere quel tipo di informazioni.
“Sì, ma non sarebbero semplicemente tornati in vita. Sarebbero stati diversi, ognuno con una specie di potere sovrannaturale e pronto a seminare il caos,” rivelò, guadagnandosi un’occhiata incredula. “So che può essere difficile da credere...”
“Più che difficile…” concordò Harvey, e sospirò.
“Ai tempi era incredibile anche dopo averlo visto con i nostri occhi… Comunque, volevo evitare che accadesse. Altrimenti Fries sarebbe stato immune al freddo, e i danni che avrebbe causato sarebbero stati maggiori.”
“Ma così hai fatto avere a Strange la formula,” sottolineò, confuso.
“Sì, ma ho anche mandato Selina a fare delle foto all’interno, per poter intervenire subito chiudendo quel posto.”
“Ecco cos’è successo, quindi…” commentò Harvey, poi scosse la testa. “Ma rimane il fatto che Fries è in libertà.”
“E che ce l’ha con me,” aggiunse Jim. “Lui ha capito che l’ho ingannato mandandolo da Strange.”
“Brutta storia,” disse Harvey, facendosi pensieroso. “Come lo fermiamo?”
“Ancora non lo so…”
Se Jim fosse stato il commissario della GCPD, e avesse condotto personalmente le operazioni di chiusura di Indian Hill, a questo punto avrebbe messo degli uomini a tenere d’occhio Fries per poter prevedere le sue mosse successive.
Sarebbe stato poco ortodosso, ma necessario.
A comandare però era Barnes, e non c’era possibilità che Jim gli dicesse cosa aveva fatto, così da dargli un motivo per mettere sotto sorveglianza Victor Fries. No, perché il suo capitano, fedele alle regole com’era, lo avrebbe come minimo sospeso… e poi preso per pazzo.
Jim doveva quindi occuparsi della questione da solo, di nuovo. Anzi non da solo, con Harvey, ma poco cambiava in questo caso. Entrambi non avevano la minima idea di dove trovare Fries, dopo aver scoperto che aveva abbandonato la sua vecchia casa.
Era plausibile che cercasse di riprendersi il materiale del suo vecchio laboratorio, o quello sequestrato a Indian Hill, ma la GCPD l’aveva spedito chissà dove insieme allo stesso Hugo Strange.
Una via che potevano percorrere era quella che prevedeva di chiedere a Oswald di farlo cercare dai suoi uomini, ma Jim non intendeva coinvolgerlo ulteriormente. Ne aveva approfittato anche troppo, per la questione di Tetch.
“Non siamo una squadra,” aveva detto ad Harvey, quando lui gli aveva proposto di chiedere quel favore al criminale. “Dobbiamo pensarci io e te, senza prendere scorciatoie.”
Aveva già fatto a meno delle sue soffiate, ai tempi, dopo aver mandato Oswald a Blackgate, quindi confidava di riuscire a risolvere quella situazione spinosa senza di lui, in qualche modo.
Non voleva fargli credere di aver bisogno di lui, né rivederlo così presto dopo ciò che era accaduto al funerale del signor Van Dahl. Dopo il modo in cui Jim era rimasto con lui per sostenerlo nel suo dolore.
Non aveva raccontato di quel giorno a nessuno, nemmeno ad Harvey, perché conoscendolo avrebbe commentato acidamente e Jim riteneva che non ce ne fosse bisogno. Sapeva già di essersi comportato in modo eccessivo e inopportuno.
Quindi anche per questo era intenzionato a occuparsi di Fries con il suo partner, loro due da soli come ai vecchi tempi.
Se ne pentì qualche giorno dopo, quando tornando a casa dal lavoro ricevette una telefonata da Lee. E lei non lo chiamava mai, non da quando si erano lasciati...
“Jim Gordon!” tuonò la voce di Fries, dal telefono. “Io e la dottoressa Thompkins ti aspettiamo a casa sua. Fossi in te mi sbrigherei, e verrei da solo, altrimenti qualcuno si farà male.”
Senza lasciargli il tempo di ribattere, Freeze chiuse la chiamata lasciando Jim arrabbiato e frustrato.
Telefonò ad Harvey mentre già si precipitava da lei, provando un senso di deja-vu al pensiero che ai tempi era stato Tetch a rapirla, sempre per punirlo.
Una volta arrivato trovò la porta del suo appartamento socchiusa e la spinse piano per entrare.
Quell’appartamento… lo ricordava bene. Ci aveva vissuto con lei, molto tempo prima, ma era stato un periodo felice che aveva portato dentro di sé a lungo, almeno finché non gli era stato chiaro che non poteva più esserci niente tra loro.
Conosceva ogni angolo, ogni stanza e ogni soprammobile della casa di Lee. Entrarci, e constatare che era ancora tutto come lo ricordava, gli provocò una strana sensazione, una specie di amara nostalgia.
A essere diversa era solo l'atmosfera.
L’appartamento era in penombra, illuminato solo dalle luci fioche delle lampade poste qua e là, ma soprattutto faceva freddo. A Jim parve quasi di vedere della neve sottile turbinare piano nell’aria quando varcò la soglia del salotto, trovandoci Freeze che teneva sotto tiro la sua ex.
Lee aveva le mani legate ed era spaventata. Fries aveva una nuova armatura che lo proteggeva dal freddo, niente che Jim non gli avesse già visto addosso, ma si stupì nello scoprire che l’aveva costruita da zero in quel breve periodo iniziato con la sua scarcerazione da Arkham.
Il fucile che aveva in mano era molto simile a quello che gli avevano visto usare in passato, per congelare le sue vittime, ed era proprio questo che probabilmente intendeva fare a Lee… per punire Jim.
“Lei non c’entra, Fries. Lasciala andare e prendi me.”
“Oh no, Jim. Anche Nora non c’entrava e adesso è morta. E di chi credi che sia la colpa?”
“Della sua malattia?” ribatté Jim, avvicinandosi con le mani alzate.
“Non osare! L’avrei salvata, ancora poco e avrei potuto farcela,” obiettò, stringendo i denti.
“Sarebbe morta comunque, Fries…”
“Basta dire quel nome! Freeze, come mi hai chiamato quel giorno ad Arkham, mi si addice di più!” esclamò e mosse il fucile nella direzione di Lee, che emise un gemito spaventato.
“Non sei costretto a farlo… Non ti restituirà Nora,” sottolineò Jim, cercando di suonare calmo.
Ancora una volta Fries strinse i denti e a Jim parve di aver colpito nel segno. Stava soffrendo per la morte di sua moglie, era solo questo… E forse aveva capito che non era davvero colpa di Jim, ma che era stato solo un crudele destino a far finire le cose in quel modo.
“Lei teneva a Nora, andava a trovarla in ospedale. Vi sarete persino incrociati, qualche volta,” ritentò Jim, mentre Lee annuiva per confermare le sue parole.
“E tu tenevi a lei, Jim,” ribatté Fries. “Avete avuto una storia, lo so perché lei ne parlava con Nora. Forse non ha niente a che fare con questo, ma con te sì…”
“Non farlo… Possiamo risolverla in un altro modo.”
“Non c’è nessun modo per risolverla, Nora è morta ormai!” urlò, dando voce a tutto il suo dolore. “E… io voglio farlo.”
Dopo averlo detto, premette il grilletto e a nulla servì scattare in avanti, nella sua direzione, per tentare di disarmarlo. Prima che Jim potesse fare qualsiasi cosa, Lee era già diventata una statua di ghiaccio.
Le sirene della polizia iniziavano a sentirsi in lontananza. Con uno strattone, Freeze si liberò dalla presa di Jim che era rimasto allibito davanti a quella scena, e uscì da una finestra che doveva aver preparato come via di fuga.
Jim non poteva crederci. Non poteva credere che Lee fosse morta. L’aveva lasciata e aveva deciso di tenersi alla larga da lei perché era certo che così sarebbe stata felice, avrebbe fatto delle scelte diverse che l’avrebbero portata a diventare una persona migliore. E invece…
Quando Harvey arrivò insieme ai suoi colleghi, Jim era a pezzi. Il punto non era che si trattava di una sua ex, né si era accorto di provare ancora qualcosa per lei. Non era affatto così. Lee era una delle tante persone che lui non era riuscito a salvare…
Aveva, stupidamente, dato per scontato di non doverla proteggere.
“Non è morta,” dichiarò Lucius Fox quella sera stessa.
Jim raddrizzò la schiena e gli rivolse uno sguardo sorpreso.
Si trovavano nel laboratorio al piano di sotto della GCPD, dove il pezzo di ghiaccio contenente Lee era stato trasportato e depositato con cautela. Dove Fox aveva iniziato a esaminarlo, confrontando i dati che otteneva con quelli relativi alle altre vittime di Freeze, elaborati da Nygma e dalla stessa Lee.
“Ha usato una formula migliorata rispetto alle precedenti e sembrerebbe che questa funzioni,” continuò, perché lui e Harvey erano rimasti in silenzio. “Farò in modo di capire come scongelarla al più presto, senza che riporti danni.”
Se c’era qualcuno di cui poteva fidarsi, per un compito del genere, quello era proprio Lucius Fox.
“Grazie,” gli disse Jim, come se si trattasse di una questione personale, e come se loro due fossero amici.
E in effetti entrambe le cose erano vere e false allo stesso tempo.
Quando uscì dalla centrale insieme ad Harvey, il freddo della sera gli fece provare una spiacevole sensazione. La stessa che aveva avvertito entrando nell’appartamento di Lee, poche ore prima.
Si sentiva ancora in colpa per quello che era successo. Dopotutto, Freeze l’aveva presa di mira per colpa sua.
“Chissà se sapeva di aver trovato la formula giusta,” commentò Harvey, prima di separarsi da lui per raggiungere la propria auto.
Era rimasto in piedi al suo fianco, con le mani nelle tasche del cappotto.
“Dici che non lo sapeva?”
“Magari lo sapeva. Magari voleva solo spaventarti, o ucciderla distruggendo il pezzo di ghiaccio davanti a te. Non lo so, sei tu che lo conosci meglio.”
Jim scosse la testa.
Non ne aveva idea, in realtà… ma per un istante, un brevissimo istante, gli era parso che Fries non volesse davvero farlo. Che avesse capito che non aveva senso cercare vendetta, soprattutto non coinvolgendo Lee… ma che avesse agito lo stesso, forse per sfogare il dolore indicibile che stava portando dentro.
Alla fine Jim sospirò, ma non disse nulla.
Per quanto credesse di poter prevedere le loro mosse, per quanto pensasse di conoscerli, i criminali di Gotham si dimostravano sempre più furbi. Il che non era solo frustrante, ma talvolta gli dava anche l’impressione che fosse tutto inutile…
Notes:
Un capitolo senza Oswald... già. Ma era necessario! Spero che non vi sia dispiaciuto troppo.
Mi farò perdonare con il prossimo...
Chapter 11
Notes:
(See the end of the chapter for notes.)
Chapter Text
Jim doveva parlare con Bruce Wayne riguardo alla Corte dei Gufi.
Non faceva che rimandare il momento perché non sapeva ancora come affrontare l’argomento, cosa dirgli e cosa no, per non metterlo in pericolo, ma sapeva che il ragazzo lo sarebbe stato comunque, continuando con le sue indagini.
Ci aveva pensato per tutta la giornata di sabato, mentre puliva casa, mentre si preparava il pranzo con quel poco che aveva a disposizione in frigo e mentre usciva per sbrigare delle commissioni, ma alla fine si fece tardi e così rimandò la questione all’indomani.
Era passato circa un mese da quando Lucius Fox era riuscito a scongelare Lee, e per farlo gli era servito solo qualche giorno. Se Jim considerava che all’inizio l’aveva creduta morta, aveva dell’incredibile.
La sua collega era stata in ospedale per una settimana scarsa, il tempo di farle dei controlli, e appurato che fosse tutto a posto era stata ben felice di andarsene.
Andarsene, davvero, da Gotham. Non sarebbe stata via a lungo, Jim ne era certo, ma aveva detto di voler cambiare aria e lui lo trovava lecito.
Il criminale che aveva minacciato la sua vita, e che l’aveva fatto solo per punire lui, era ancora in circolazione, perciò era ovvio che lei volesse starsene lontano - e al sicuro - per un po’.
Con un pensiero in meno, ora che sapeva che Lee stava bene, Jim aveva ripreso la sua vita di sempre, occupandosi di un caso e poi di un altro, con Harvey sempre al suo fianco.
Freeze ogni tanto faceva parlare di sé, quando trovavano una persona congelata, e Fox doveva occuparsene. Lucius aveva appurato che si sarebbero comunque scongelate da sole, e che era improbabile che ci sarebbero stati effetti collaterali, ma lui poteva fare in modo che il processo fosse più veloce, nell’ambiente controllato del suo laboratorio.
A parte questo, Freeze non aveva fatto grossi danni. Jim era certo che non se ne sarebbero liberati tanto presto, anzi che stesse pianificando la sua mossa successiva, ma per il momento non aveva la minima idea di quale questa potesse essere.
Da parte di Tetch invece non c’era stato il minimo movimento, il che suggeriva che se ne fosse andato davvero, ma Jim non poteva avere conferme a riguardo.
Un altro personaggio tipico di Gotham che in quel periodo era stato una vera incognita era Pinguino. Non c’erano più stati crimini riconducibili direttamente a lui, né segnali evidenti che avesse ripreso il controllo della malavita, sebbene Jim ne fosse certo.
Lui non era più andato a chiedergli favori, nemmeno una volta. Voleva tenerlo alla larga e c’era riuscito… ma solo fino a un certo punto.
Un paio di volte, nel corso di quel mese, Jim se l’era ritrovato fuori dalla porta di casa sua e non era riuscito a chiudergliela in faccia, credendo di non avere un motivo valido per farlo senza sembrare impazzito.
E quindi ogni volta lo aveva invitato a entrare, gli aveva preparato un caffè e aveva risposto alle sue domande, che sembravano riguardare sempre la salute di Jim e la sua situazione economica. Era a dir poco fastidioso che volesse mettere il naso negli affari suoi, magari perché temeva che potesse essere depresso o che fosse ancora in una brutta situazione a livello finanziario, ma quegli incontri si erano sempre rivelati brevi e così il detective aveva sopportato senza lamentarsi troppo.
Poi era tornato a ignorarlo, e aveva continuato a svolgere il suo lavoro senza fare affidamento su di lui, come sarebbe sempre dovuto essere.
Ma comunque Jim non si stupì quando, quella sera stessa, qualcuno bussò alla sua porta. Quasi nessuno lo cercava a casa sua, perciò si aspettava che fosse Oswald, invece scoprì per sua sorpresa che si trattava di Butch Gilzean.
Che ci faceva fuori dal suo appartamento?
Senza dare voce alla sua domanda, Jim lo osservò per un paio di secondi restando in silenzio.
“Ehi Jim. Mi manda Oswald, vuole che tu vada da lui,” disse Butch, andando dritto al punto.
Gilzean aveva un atteggiamento diverso rispetto all’ultima volta in cui si erano visti. Adesso non sembrava infastidito, anzi appariva rilassato, il che gli fece pensare che le cose con Tabitha andassero meglio.
“E ha mandato te a prendermi?” chiese, confuso.
“Sì, qualcosa del genere. Andiamo?”
“Dammi un momento,” rispose, con un sospiro, e chiuse la porta.
Non sapeva cosa volesse Oswald da lui, né dove lo stesse aspettando. Probabilmente non al molo, per ucciderlo, perché era troppo presto e Jim non credeva di aver già fatto qualcosa per offenderlo.
Mentre metteva il cappotto e le scarpe, controllò velocemente il suo aspetto nello specchio all’ingresso. Non si era cambiato dopo essere tornato dalle sue commissioni, indossava ancora i pantaloni consumati di un completo nero e un maglione grigio, che aveva scelto perché era caldo. Però apparentemente aveva l’aria meno sbattuta del solito, e questo avrebbe dissuaso Oswald dal fargli domande sulla sua salute. Forse.
Ma cosa voleva da lui, per convocarlo in quel modo e senza alcun preavviso?
Quando aprì la porta trovò Butch esattamente dove lo aveva lasciato, quindi uscì, chiuse a chiave e si dichiarò pronto a seguirlo. Che situazione assurda, un detective che sale in auto con un criminale del suo calibro… Ma forse niente era davvero così assurdo ormai per Jim, con tutto ciò che aveva visto.
“Dove siamo diretti?” chiese dopo un po’, volendo comprendere meglio la situazione in cui era finito.
“A villa Van Dahl,” rispose Butch, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
Strano che Oswald lo volesse a casa sua, ma se davvero non lo stava aspettando al molo allora tanto meglio.
“Come vanno le cose, con Tabitha?” chiese poi, volendo riempire il silenzio che si era creato.
“Te ne frega qualcosa?” gli chiese Butch, scoccandogli un'occhiata sorpresa.
“È solo per fare conversazione,” ammise Jim, scuotendo la testa.
Butch aveva detto così, ma gli si era formato un sorrisetto sul viso.
Dai suoi ricordi, Jim lo ricordava come un tipo che eseguiva gli ordini, che era in grado di uccidere, certo, ma che quando aveva avuto l'occasione di comandare se l'era presa comoda, o aveva addirittura passato il testimone a Tabitha.
Insomma, non era sulla sua lista dei criminali da temere, almeno per il momento… Perché riteneva che fosse un bene tenere aggiornata quella lista, e non solo basandosi sui ricordi degli eventi che aveva già vissuto.
“Non mi posso lamentare,” rispose alla fine, senza più voltarsi nella sua direzione.
“So che lei e Barbara erano molto legate,” disse Jim, volendo vedere la sua reazione.
“Già, ma è acqua passata. In fondo, Barbara era ossessionata da te. Sono rimaste amiche, però… E immagino che lo sarebbero ancora, se mai lei si svegliasse dal coma,” rispose, come se non fosse affatto preoccupato.
“Si sveglierà presto. Ne sono certo,” aggiunse, perché la sua sembrasse solo una supposizione. “Non so se uscirà mai da Arkham, ma nel caso accadesse… non fidatevi completamente di lei.”
Jim aveva saputo, col tempo, che Barbara aveva ucciso Butch e tentato di uccidere anche Tabitha. Poi Butch era entrato in contatto con le scorie tossiche di Indian Hill ed era tornato, con il nome di Solomon Grundy.
Jim non sapeva se, in questa linea temporale, sarebbe mai successo lo stesso. Dopotutto, il laboratorio di Strange era stato smantellato prima ancora che lui riuscisse a far tornare in vita i morti, quindi… Non c'erano certezze.
Inoltre si trattava di qualcosa che aveva saputo solo per sentito dire.
“Mi stai mettendo in guardia, Jim?” gli chiese, con una punta di sorpresa nella voce.
“Tu l'hai fatto con me, se non ricordo male,” sottolineò, e Butch non ribatté.
Il viaggio verso villa Van Dahl fu lungo e noioso, perché lui e Butch non avevano nient'altro da dirsi. Quando finalmente la grande casa iniziò ad apparire all'orizzonte, Jim si sentì stranamente sollevato.
Butch parcheggiò e aprì la porta d’ingresso per lui, indicandogli la sala da pranzo, ma non lo seguì mentre Jim procedeva verso la stanza. All'interno trovò Oswald, che si alzò non appena lo vide.
“Jim, benvenuto,” lo accolse.
Il detective notò che lui era vestito anche meglio del solito, se possibile, con un completo nero dai ricami viola che diventavano lucidi quando venivano toccati dalla luce calda e morbida del camino, unica fonte di illuminazione nella sala.
Da un grammofono lontano proveniva della musica leggera che faceva da piacevole sottofondo.
“Grazie, immagino. Perché hai voluto che venissi qui?” chiese, ancora confuso a riguardo.
“Butch non te lo ha detto?” gli domandò, e quando Jim scosse la testa lui gli offrì un sorriso teso. “Ceneremo insieme, se non ti dispiace. Anche se ormai mi sembra superfluo chiedere, dal momento che sei già qui.”
“Già…” concordò Jim, che non aveva immaginato che volesse invitarlo a cena, in casa sua per di più. “Se lo avessi saputo, avrei portato del vino… o qualcos'altro,” aggiunse, più come una battuta che per una sincera intenzione, perché quella situazione era surreale.
Avevano già mangiato insieme, ma non lì, ed era sempre successo per una motivazione specifica. Il motivo del suo invito a cena, quella sera, mancava.
“Non preoccuparti, apprezzo il pensiero. Prego, accomodati,” lo invitò, indicandogli la sedia situata davanti alla propria.
Il detective ebbe appena il tempo di sedersi che la porta laterale si aprì ed entrò la governante, spingendo un carrello. La donna si avvicinò al tavolo e posizionò al centro di esso un piatto colmo di piccoli antipasti dall'aspetto elegante, che Jim si sarebbe aspettato di vedere in un ristorante costoso, non certo a una cena in casa. Ma, d'altra parte, quella era la casa di Oswald.
In ogni caso, a colpo d'occhio non riuscì a riconoscerne gli ingredienti.
“È un'occasione speciale?” gli chiese, per scoprire se i suoi pasti erano sempre così elaborati o ci fosse qualcosa da festeggiare.
“Più o meno, Jim, ma non parliamone subito. Assaggia qualcosa,” lo invitò, e il detective spinse più a fondo nella sua mente quel pensiero, intenzionato a farlo riemergere più tardi.
Avvicinando le posate al piatto degli antipasti, ne prese uno e lo depositò nel proprio, sotto lo sguardo attento di Oswald. Tagliò un pezzo di quella specie di tortino ma, prima di portarlo alla bocca, ricambiò il suo sguardo.
Solo così Oswald si decise a prenderne uno a sua volta, anziché restare a fissarlo per chissà quale motivo.
“È molto buono,” gli concesse Jim, poco dopo.
Non aveva riconosciuto comunque gli ingredienti, ma il sapore lo aveva sorpreso in positivo.
“Mi fa piacere,” rispose il padrone di casa, offrendogli un sorriso tirato.
“Adesso vuoi dirmi perché mi trovo qui?” gli chiese.
“Per cenare, ovviamente.”
“Intendo il vero motivo,” insistette Jim, corrugando la fronte.
In quel momento la governante tornò da loro con altri piatti e Jim notò subito che questa volta si trattava di bistecche alte e apparentemente deliziose.
Da quanto non ne mangiava una? Da quando era uscito a mangiare con lui più di un mese prima, probabilmente.
Jim non era più al verde, ma stava cercando di risparmiare su tutto in vista di altre possibili spese future, per non ridursi di nuovo a raschiare il fondo del suo conto corrente. Inoltre a volte il pensiero del lavoro, o di ciò che non aveva ancora risolto, gli toglieva l'appetito.
All'improvviso non aveva più fretta di capire perché si trovava lì.
Mentre la governante metteva in tavola i piatti, lui rivolse lo sguardo a Oswald e si accorse che sembrava nervoso.
“Ah, Jim, Olga sta frequentando il corso di cui ti avevo parlato. Vero, Olga?”
La signora rivolse uno sguardo smarrito prima all'uno e poi all'altro, forse perché non si era aspettata che sarebbe stata interpellata, poi raddrizzò la schiena.
“Sì, signore,” pronunciò, con un forte accento.
“Che bella notizia,” commentò tiepidamente Jim, che si era accorto che Oswald stava cercando di spostare altrove la sua attenzione. “È più facile svolgere il tuo lavoro, adesso che capisci la nostra lingua?”
Olga corrugò la fronte e non rispose affatto.
“Non ha ancora imparato proprio tutto quanto,” intervenne Oswald, facendole segno di tornare in cucina.
Jim annuì e iniziò a tagliare la sua bistecca.
“Allora immagino che tu non mi abbia invitato qui per festeggiare i risultati di Olga,” osservò, e Oswald gli offrì un altro sorriso teso.
“No, infatti,” confermò, ma non si spiegò oltre. “Come vanno le cose al lavoro?”
“Come sempre. I soliti serial killer da trovare, che in questa città non mancano mai… A te invece?”
“Intendi… al lavoro?” domandò Oswald, forse cogliendo che quella era una provocazione. “Gli affari al club vanno splendidamente. E come sai sono anche il proprietario dell'atelier di mio padre adesso, anche se lo sto lasciando in gestione ai suoi dipendenti.”
Jim annuì. Aveva sentito parlare di un atelier, dal notaio, alla lettura del testamento.
“Ti piace? So che è la tua preferita,” disse Oswald, riferendosi alla bistecca.
“Sì, molto,” ammise Jim.
Oswald, stranamente, lo conosceva bene. Comunque, quella bistecca stava facendo pensare a Jim che valesse la pena di trovarsi lì, quale che fosse il vero motivo del suo invito. Malgrado si trattasse, comunque, di una situazione surreale.
“Ne sono felice.”
“Adesso posso sapere qual è la bella occasione?” insistette.
Oswald gli sembrò nervoso, e il sorriso che gli rivolse fu poco genuino. Qualsiasi cosa fosse, faticava a parlarne. Jim sperava solo che non si trattasse di qualcosa di grave.
“Ultimamente ho chiesto ai miei uomini di rintracciare Jervis Tetch, l’uomo da cui mi avevi messo in guardia. Volevo sapere se si trovasse ancora a Gotham.”
“Ah… Non ce n’era bisogno, ma cosa hanno scoperto?” chiese Jim, sperando che non avessero attirato l’attenzione del cappellaio.
“Pare che abbia lasciato la città da un paio di settimane. Dovrebbe aver seguito la traccia di indizi falsi che hai preparato per lui.”
Jim sospirò piano. Anche se non gli aveva chiesto aiuto per scoprire dove fosse, almeno per togliersi il dubbio, doveva ammettere che non saperlo più lì fosse un sollievo.
“È un’ottima notizia,” gli concesse, perché Oswald sembrava in attesa di una sua reazione.
Il sorriso che gli rivolse questa volta sembrava più sincero, ma non celava del tutto il suo nervosismo. Forse c’era altro che voleva dirgli. Forse non lo aveva invitato a cena solo per fargli sapere della partenza del cappellaio, che per Jim era una grande cosa ma che per lui doveva essere un evento poco significativo, dato che non gli aveva mai spiegato quale minaccia rappresentasse nel concreto.
No, il motivo di quell’invito doveva essere un altro, ma Jim decise di non provare più a forzargli la mano, perché Oswald era chiaramente teso.
“Propongo un brindisi,” disse all’improvviso, sollevando il suo calice di vino. “Alla certezza che a Gotham si aggiri un individuo pericoloso in meno.”
Jim sollevò il bicchiere con lui, dopodiché lo portò alle labbra.
Certezza… Che strana parola da usare, in quel contesto. Lui, personalmente, non voleva dare niente per scontato. Se Tetch se n’era andato di sua spontanea volontà, se nessuno aveva deciso di farlo sparire, allora non era certo che in futuro non sarebbe tornato nell’unico posto in cui aveva trovato delle tracce della presenza di sua sorella, ovvero Gotham.
Rivolse uno sguardo sospettoso a Oswald, ma non osò dare voce al suo pensiero. Preferì rimanere con il dubbio, anzi si disse di aver pensato troppo.
“Non ti avevo detto che era pericoloso,” sottolineò invece, dato che aveva parlato solo brevemente di Tetch, restando sul vago.
Anche ad Harvey non aveva detto proprio tutto, perché non si allarmasse, ma almeno lui aveva compreso la gravità della situazione, considerando anche il virus di cui sua sorella era portatrice. Oswald invece ne era rimasto completamente all’oscuro.
Jim gli aveva detto di restare in guardia, ma nient’altro.
“Non è servito, era evidente dal tuo comportamento,” gli disse. “Eri molto preoccupato, e lo sei stato anche dopo la partenza di Alice, il che era insolito.”
Jim annuì, perché negarlo sarebbe stato inutile. Oswald era in grado di capire le persone e lo aveva dimostrato anche questa volta.
“Certo, mi piacerebbe sapere come lo conoscevi e perché lo credevi una minaccia tanto grave...”
“È una lunga storia,” rispose, ma poi decise che gli doveva qualche dettaglio in più, dato che gli aveva appena tolto una preoccupazione e lo aveva fatto senza che lui gli chiedesse niente. “Tetch... aveva fatto delle cose indicibili a sua sorella, e poi l’aveva consegnata a Hugo Strange. Già questo la dice lunga.”
“Ma non spiega perché tu lo ritenessi una minaccia.”
Jim si passò una mano tra i capelli in un gesto nervoso.
“Dovevo aiutare sua sorella a scappare. Accorgendosene mi avrebbe dato la colpa di averla persa e avrebbe tentato di uccidermi. Ho ragione di credere che ci sarebbe anche riuscito,” ammise.
Non aveva detto molto, se ne rendeva conto, ma quella era la risposta più sincera e completa che poteva dargli.
Alle sue parole, l’espressione di Oswald si incupì.
“Allora è davvero un bene che se ne sia andato,” commentò, e Jim annuì senza aggiungere altro. “A proposito, ho saputo che anche la tua ex ha lasciato la città.”
“Lee? Sì, dopo che sono riusciti a liberarla dal ghiaccio ha voluto cambiare aria.”
Non era più una novità ormai, ma le volte in cui Oswald si era presentato a casa sua senza preavviso non gli aveva mai chiesto di altri, si era solo assicurato di come stesse lui, e Jim non aveva toccato l’argomento non vedendone il motivo.
“E non ti manca?”
Il detective corrugò la fronte, confuso. Perché gli stava chiedendo qualcosa di così personale?
“È quello che mi ha chiesto anche Harvey, quando è andata via… Ma no, tra me e lei non poteva esserci alcun futuro,” dichiarò, sperando di averlo dovuto dire per l’ultima volta, dato che per lui era acqua passata e da tanto tempo, ormai. “Con Freeze che gira libero, ha fatto bene ad andare via. A prescindere da quanto starà via, spero che lui capisca che non può punire me prendendosela con lei, perché non funziona.”
Fu grato del fatto che Oswald non gli chiese i dettagli di quali fossero i suoi trascorsi con Victor Fries, perché non aveva nessuna voglia di parlarne. Inoltre forse Fries aveva capito che non era davvero colpa di Jim, se sua moglie era morta… Forse, ma Jim lo aveva immaginato solo dalle ultime cose che si erano detti, nell’appartamento di Lee, e dal fatto che da allora non avesse più tentato di colpirlo sul personale.
Olga tornò nella stanza, ritirò i piatti vuoti e mise in tavola il dolce. Un tortino al cioccolato, accompagnato da un ciuffo di panna e da gocce di salsa alla frutta, che rivelò un cuore morbido al suo interno.
Jim non mangiava così bene dall’ultima volta in cui era stato al ristorante, anzi nemmeno i piatti di quella volta potevano dirsi all’altezza di quelli preparati per loro da Olga.
Non conosceva ancora il vero motivo per cui si trovava lì ma gli sembrava che Oswald avesse voluto viziarlo, perché quello era decisamente troppo, il che gli provocò una sensazione che non riuscì a comprendere davvero.
In ogni caso, era già sazio ma non poteva tirarsi indietro davanti a un dolce tanto buono.
“Sono felice che tu sia venuto, Jim. Anche se tecnicamente non hai avuto scelta,” gli disse, e il detective si domandò se dovesse prenderla come una battuta.
“Non importa, la cena è stata ottima,” gli rispose con leggerezza.
Solo dopo si accorse che forse si sarebbe potuto pentire di aver affermato una cosa del genere, ovvero che non gli importava di essere stato quasi costretto ad andare lì, e senza sapere cosa volesse da lui. Ma ormai l’aveva detto.
“Mi fa piacere. Gli amici che ho si contano sulle dita di una mano e… mi dispiacerebbe se ci perdessimo di vista,” disse, con una punta di malinconia nella voce.
Era di questo che si trattava? Oswald lo aveva invitato perché voleva la compagnia di un amico?
Gli aveva già detto qualcosa di simile, che aveva pochi amici e dava loro molto valore, e Jim allora non aveva commentato. Però, doveva ammetterlo, si trovava nella sua stessa situazione. L’unico che poteva considerare davvero amico era Harvey, e poi c’era Fox con cui - in quella linea temporale - non aveva ancora un rapporto stretto. Alfred e Bruce difficilmente sarebbero rientrati nella categoria, per quanto apprezzasse la loro compagnia, perché con loro c’era un rapporto diverso. Quanto ad Harper, non si trovava ancora a Gotham e Jim non aveva la certezza che sarebbe arrivata in futuro.
Oswald… Difficilmente Jim lo avrebbe considerato un amico, pensando ai loro trascorsi e a ciò che sarebbe successo tra loro in seguito. Eppure si stava dimostrando così presente con lui, e gli stava dando così tanto…
Anziché ribattere, finì il suo dolce e appoggiò la forchettina nel piatto ormai vuoto.
“Quali sono i tuoi desideri per il prossimo futuro?” gli chiese Oswald, sorprendendolo.
“Che... domanda curiosa,” commentò, alzando lo sguardo su di lui per poi riabbassarlo sul tavolo, mentre ci rifletteva.
Desiderava che Freeze lo lasciasse in pace. Desiderava che Bruce non reagisse male, l’indomani, quando avrebbe provato a metterlo in guardia sulla Corte dei Gufi. Desiderava che Oswald non gli sparasse su quel molo…
“Vorrei una Gotham più sicura. Solo così potrò avere un po’ di tranquillità,” disse, evitando di entrare nel dettaglio.
In effetti era proprio ciò che voleva, in sintesi.
“Una Gotham più sicura è anche uno dei miei desideri,” dichiarò Oswald.
“E gli altri?” gli chiese Jim, curioso dato che era stato lui a tirare fuori l’argomento.
“Gli altri credo proprio che li terrò per me ancora per un po’,” rispose e gli offrì un sorriso.
Notes:
Spero che abbiate colto i segnali e siate riusciti a leggere tra le righe...
Chapter Text
Il discorso con Bruce non era andato come Jim aveva sperato.
Il detective aveva pensato a lungo a cosa dirgli, e alla fine era rimasto sul vago, avvertendo il ragazzo del pericolo e offrendosi di collaborare, ma lui non aveva reagito bene. Stava indagando da solo sulla morte dei suoi genitori, come Jim aveva immaginato, e questo aveva attirato l’attenzione della Corte dei Gufi ancor prima di quanto lui si era aspettato.
Ai tempi, Jim era stato coinvolto dalla Corte e aveva provato a fermarli, nella loro intenzione di spargere il virus di Alice Tetch. Ma poi era arrivato Ra’s Al Ghul e Bruce gli aveva detto che quell’uomo era collegato a loro. Era stato il ragazzo, alla fine, a risolvere la questione, e a Jim non era stato del tutto chiaro come.
Il che era decisamente problematico, adesso che voleva cambiare il corso degli eventi.
Il fatto che Alice Tetch fosse lontana e nessuno sapesse del virus di cui era portatrice, però, era già un sollievo.
In ogni caso, Jim poté dire ben poco a Bruce e se ne andò dalla sua villa sentendosi insoddisfatto, ma non credeva di poter fare più di così, per il momento.
L’indomani tornò al lavoro e la vita ricominciò a scorrere come al solito, tra serial killer da trovare e altri casi da risolvere.
Alcuni giorni dopo stava inseguendo un sospettato in un vicolo, nella penombra. Era sera e quell’uomo correva veloce, tanto che alla fine riuscì a seminarlo, così Jim sfogò la rabbia imprecando. Lo aveva perso di vista in un incrocio e non aveva idea della direzione in cui fosse sparito, perciò per il momento non gli restava che lasciar perdere.
Nell’istante in cui si voltò per tornare sui suoi passi si rese conto di non essere solo. Una figura minuta dai capelli lunghi e arruffati se ne stava nascosta nel buio, e Jim capì subito chi fosse.
“Ivy?” la chiamò, in cerca di una conferma.
La ragazzina, sentendo il suo nome, smise di fingere di non essere lì ed emerse dall’oscurità.
Aveva il viso sporco, indossava il solito maglione verde a righe che ormai era logoro e aveva lo sguardo spento. Non era strano, trattandosi di lei, ma Jim in effetti non la vedeva da molto, moltissimo tempo… Con quell’aspetto da bambina, almeno.
“Che ci fai qui? Pensavo che stessi da Selina…”
Lei scosse la testa.
“Selina mi ha abbandonata. Sta sempre con Tabitha adesso… Ho provato ad andare anche io, ma dice che sono troppo piccola,” rivelò, in un tono di voce privo di qualsiasi inflessione.
Jim non poteva, in cuor suo, lasciarla lì. Non quando era indifesa, ad affrontare da sola i pericoli di Gotham… Malgrado sarebbe potuta diventare molto pericolosa, crescendo.
“Vuoi venire con me? Qui fa freddo… e a casa ho da mangiare.”
La ragazzina gli rivolse uno sguardo leggermente tinto dal sospetto, ma alla fine annuì.
Jim camminò fino alla sua auto con lei che lo seguiva in silenzio, a poca distanza. Una volta arrivati dove l’aveva parcheggiata, salirono a bordo e Jim guidò fino a casa sua. Doveva ancora avvisare Harvey di aver perso di vista il loro sospettato, ma ci avrebbe pensato dopo. Prima doveva portare Ivy al caldo.
La ragazzina non disse niente durante tutto il viaggio in macchina, limitandosi a guardare fuori dal finestrino con aria assente.
Arrivati nell’appartamento di Jim, il detective scoprì che loro due avevano un’idea ben diversa di “cibo”. Ivy avrebbe voluto mangiare qualcosa di dolce, ma lui non aveva nulla del genere in casa, e così alla fine si accontentò di una zuppa che lui riscaldò apposta per entrambi.
Sicuramente era abituata a mangiare quello che capitava, vivendo per strada, perciò un pasto caldo qualsiasi doveva essere già un lusso, anche se non era ciò che più desiderava. In ogni caso, Jim sentiva di voler fare qualcosa per lei, e quindi le chiese cosa avrebbe preferito, con l’intenzione di andare a fare la spesa. Per quella sera, però, si sarebbe dovuta accontentare di ciò che lui aveva in casa.
Finì di mangiare per primo e la lasciò fare con calma, mentre si alzava per prendere una coperta e un cuscino con cui sperava di rendere più comodo il suo divano. Cercò anche una maglietta per lei, perché potesse cambiarsi per la notte, e quando si accorse di averne una verde capì che era quella giusta da offrirle, dato che la ragazza dimostrava una preferenza per quel colore.
Con il suo corpo minuto ancora da bambina, malgrado dovesse avere circa quattordici anni, quella maglietta l’avrebbe coperta più che abbastanza, ma era solo una soluzione temporanea.
“Se vuoi lavarti, poi puoi indossare questa. Il bagno è di là,” le disse, dopo essere tornato in soggiorno, e Ivy annuì.
Jim appoggiò la maglietta sul tavolino basso del salotto e preparò cuscino e coperta sul divano, perché il suo “letto” fosse pronto.
Quando il suo piatto fu vuoto, la ragazzina accettò di farsi una doccia e Jim ne approfittò per uscire in fretta e recarsi al supermercato sotto casa, che restava aperto fino a tardi. Mentre riempiva il cestino con snack che avrebbe amato da ragazzino e anche con qualcosa di sano, senza dimenticare di cercare dei vestiti che potessero andarle bene tra le poche proposte del negozio, chiamò Harvey per aggiornarlo.
Non gli disse però di Ivy, perché il suo amico non doveva sapere proprio tutto, e perché quella sera si sentiva già abbastanza stanco senza doversi mettere a dare spiegazioni. Quindi pagò e, mentre finiva di parlargli al telefono, tornò verso l’appartamento con i suoi acquisti.
Quando entrò trovò Ivy già in soggiorno, seduta sul divano. La ragazzina gli rivolse uno sguardo spento, quasi non avesse capito che fosse uscito o non le interessasse. Era abituata a restare da sola e forse aveva perso la fiducia negli altri, ma Jim sperava che non fosse troppo tardi per lei.
“Ho comprato delle cose per te. Sai, per la colazione di domani… e dei vestiti.”
Lei non ebbe alcuna reazione, così Jim lasciò perdere per il momento e iniziò a mettere via la spesa. I vestiti li lasciò sul tavolino, perché li avesse a portata di mano. Aveva preso giusto un paio di cose e le aveva scelte verdi, sempre perché immaginava che in caso contrario non le avrebbe accettate.
“Lo fai perché ti senti in colpa?” gli chiese lei dopo un po’.
Jim smise di mettere a posto e si voltò per guardarla in faccia. Ivy aveva ancora la stessa espressione spenta di prima… Da ragazzina, Jim non l’aveva mai vista con un’aria diversa da quella, il che lo faceva un po’ preoccupare.
“Non serve, me la so cavare da sola,” aggiunse, mentre il detective chiudeva lo sportello della dispensa e si avvicinava al divano.
“Non è solo questo. È vero che mi sento in colpa, non avrei voluto che le cose andassero così per te e mi dispiace. Purtroppo non posso cambiare ciò che è successo…” ammise, e ancora una volta non ottenne alcuna reazione da parte sua. “Ma è pericoloso stare là fuori da soli, per non parlare del freddo e della mancanza di cibo. Per questo ti ho invitata qui, non per sentirmi meglio né perché non penso che tu possa cavartela comunque.”
“Allora perché non aiuti tutti gli orfani della città?” sottolineò, facendolo sentire un ipocrita per un breve istante.
“Perché io non li conosco, ma conosco te. E anche Selina… ma lei non vuole essere aiutata.”
Dopo un momento di esitazione, la ragazza annuì una volta e sembrò arrendersi, infatti non insistette oltre.
L’ultima cosa che Jim tirò fuori dal sacchetto della spesa fu un libro sulle piante che aveva notato per caso sullo scaffale degli sconti, e che gli aveva fatto pensare a lei. Il volume attirò subito lo sguardo di Ivy, anche se la sua fu comunque una reazione debole.
Andò a dormire senza più dirle niente, temendo che in caso contrario sarebbe sembrato pressante, e sperò con tutto sé stesso che la ragazzina non scappasse nella notte.
L’indomani, quando si alzò, fu felice di trovarla già sveglia, seduta davanti a una tazza di latte e cereali.
“Buongiorno,” le disse, aprendo il frigo per cercare qualcosa di più sostanzioso per sé, da preparare in pochi minuti.
Lei rispose con un cenno timido del capo, dopodiché tornò concentrata sulla sua tazza.
Aveva indossato i vestiti che Jim le aveva comprato, il che era un sollievo anche perché i suoi erano in lavatrice. I suoi capelli avevano un aspetto migliore rispetto alla sera prima, ora che li aveva lavati. Da qualche parte, Jim credeva di avere un vecchio asciugacapelli che si era procurato nel caso una delle sue fidanzate volesse passare la notte da lui. Non era successo praticamente mai, ma gli sarebbe tornato utile almeno adesso.
“Fra poco devo andare al lavoro. Sappi che non sei rinchiusa qui, ma sarai più al sicuro se resterai nell’appartamento. E non voglio che fai entrare nessuno,” si raccomandò, ma poi decise di correggersi. “Potrei fare un’eccezione soltanto per Selina, se non ha intenzione di rubare il poco che ho.”
“Selina non verrà. Ti ho già detto che mi ha abbandonata,” ribatté lei, senza guardarlo negli occhi.
“Selina non abbandona gli amici, vedrai che è solo una fase,” le disse, sperando di avere ragione. “Ultima cosa, non dare fuoco alla casa. Posso fidarmi a lasciarti da sola?”
“Non sono una bambina,” sottolineò lei, e questa volta Jim avvertì una punta di fastidio nel suo tono di voce.
Prima di uscire, il detective notò i suoi appunti infilati a caso in un libro riposto su uno scaffale. Erano fin troppo in vista e non voleva che lei li trovasse per sbaglio, perciò li prese e andò a nasconderli nella sua camera. Li mise in una vecchia scatola di sigari vuota, un ricordo di suo padre, che ripose subito dove l’aveva tenuta fino a quel momento, ovvero in un cassetto insieme alle sue magliette.
Dopo averlo fatto la salutò e uscì.
Qualche giorno dopo, Ivy viveva ancora nell’appartamento con lui.
Jim le aveva comprato qualche altro vestito e recuperato altri libri. Per quelli si era rivolto alla biblioteca, per non dover dare fondo al suo già misero stipendio.
La ragazzina era molto tranquilla e gli rivolgeva giusto qualche parola quando necessario, ma Jim non pretendeva niente di diverso. Finché sembrava stare bene, lui poteva dirsi soddisfatto.
Quando lui era via, lei leggeva quei libri avidamente e si occupava dell’unica pianta del suo appartamento, che fino al suo arrivo era stata abbandonata a sé stessa, su una mensola del soggiorno, e che adesso sembrava rinata.
Dopo i primissimi giorni, Ivy aveva rivoluzionato la sua alimentazione in un modo che Jim comprendeva solo fino a un certo punto, ma finché riusciva a trovare qualcosa da farle mangiare decise di non lamentarsi.
Se era così minuta era sicuramente perché era malnutrita, a causa della vita condotta in povertà prima, e di quella di stenti per le strade poi. Jim sperava che si potesse ancora fare qualcosa a riguardo.
Un giorno provò persino a metterla in guardia sugli altri uomini, perché il fatto che lo avesse seguito a casa sua senza battere ciglio era preoccupante. Alla fine quel discorso si era rivelato complicato e molto imbarazzante, e Jim non era certo che lei avesse capito davvero.
Jim era ancora preoccupato, sapendola in casa sua da sola e, magari, pronta ad andarsene in qualsiasi momento per non tornare mai più, ma doveva uscire per andare al lavoro e così cercava di non pensarci. Lei si era dimostrata in grado di badare a se stessa, aveva già preso confidenza con l’appartamento quasi fosse il proprio e, in quanto alla paura che scappasse, Jim avrebbe dovuto solo darle fiducia.
Trovava incredibile il modo in cui si era affezionato a lei, in così poco tempo.
“Guarda qui, roba da non crederci,” gli disse Harvey quella mattina, passandogli una copia del Gotham Gazette.
In prima pagina c’era una foto di Oswald, con al suo fianco Butch Gilzean e un altro paio di persone. L’articolo faceva riferimento al fatto che avesse sfidato Aubrey James, richiedendo nuove elezioni e candidandosi al ruolo di sindaco. Il che, in effetti, era sorprendente dato che Jim non capiva per quale motivo avesse preso quella decisione.
“Ti sembra possibile?” si lamentò Harvey, scuotendo la testa con fare indignato.
“Sì, in realtà,” gli disse, riconsegnandogli il giornale.
“Vuoi dire che era tra le cose che già sapevi?” gli chiese il suo partner, offrendogli uno sguardo incredulo, al che Jim annuì.
“Ma non mi aspettavo che succedesse così, senza un apparente motivo,” ammise.
In effetti, per come erano cambiate le cose, aveva iniziato a pensare che non sarebbe accaduto affatto. Che Oswald non si sarebbe mai candidato al ruolo di sindaco, e che avrebbe semplicemente continuato con i suoi affari illeciti.
“E toglimi una curiosità, vincerà le elezioni?” domandò Harvey, tenendo basso il tono di voce.
“Sì, e ti dirò di più, sarà molto meglio di Aubrey James. Solo che… Oh no,” disse, interrompendosi a metà della frase.
Nel suo staff, ai tempi, c’era stato anche Edward Nygma. Era stato rilasciato da Arkham proprio nel periodo della campagna elettorale, per un caso fortunato… Troppo fortunato. Il che gli fece pensare che Oswald lo avesse fatto rilasciare, e quindi che probabilmente stesse per fare lo stesso.
“Oh no, cosa?” indagò Harvey.
Jim però decise che doveva risolvere quella faccenda da solo, quindi scosse la testa.
“Devo parlargli.”
Aveva ancora il suo numero di telefono, perciò nel primo momento libero dal lavoro scese nell’archivio, dove non trovò anima viva, e lo chiamò sperando che rispondesse.
“James, che sorpresa,” disse lui, dall’altra parte del telefono.
“Oswald. Ho visto che ti sei candidato alle elezioni,” iniziò, rendendosi conto improvvisamente che non sapeva cosa dirgli.
“Sì, ho pensato che la città avesse bisogno di una ventata d’aria fresca.”
“Lo penso anche io,” concordò, mettendosi a sedere alla scrivania dell’archivista, in attesa di trovare le parole giuste. “Hai il mio sostegno.”
“Dici sul serio?” gli chiese Oswald, dopo un attimo di esitazione.
“Sì, so che farai un buon lavoro. Era questo che volevi dirmi, quando mi hai invitato a cena a casa tua?” domandò, perché non aveva dimenticato affatto la sua esitazione a parlare quella sera, e poteva imputarla solo a questo.
“Esatto, cos’altro se no?” ribatté, dopo aver inspirato rumorosamente. “Però ammetto che non mi aspettavo di sentirti così favorevole alla mia candidatura.”
“Lo sono invece. E posso aiutare, ho giusto qualche idea,” buttò lì, confidando che sarebbe riuscito a ricordare alcune delle iniziative a cui aveva preso parte, nel corso della campagna elettorale, che lo avevano fatto apprezzare dai cittadini. “Sono sempre molto impegnato, ma se vuoi posso accompagnarti a qualche evento che organizzerai, se sarà nel weekend, così potrai mostrare ai cittadini di avere il sostegno di qualcuno all’interno della GCPD.”
Jim stava parlando senza pensare, non sapendo se stesse dicendo qualcosa di sensato o meno. Sperava solo che Oswald non rifiutasse.
In questo modo, forse avrebbe rinunciato all’idea di coinvolgere Nygma. Se invece l’avesse fatto comunque, allora Jim avrebbe potuto tenerli d’occhio da vicino.
“Sarebbe splendido,” rispose, e Jim comprese dalla sua voce che era felice davvero. “Potremmo discutere dei dettagli a cena, magari. Che ne dici di questo weekend?”
“Per me andrebbe bene.”
Per quanto gli dispiacesse lasciare sola Ivy, era necessario.
Ancor prima che arrivasse il weekend, si verificò un evento che allertò l’intera città e cambiò i piani di tutti.
Freeze annunciò in diretta televisiva che stava per congelare Gotham, affermando che tutti lo avevano sempre ostacolato nei suoi piani e per questo adesso sua moglie era morta. Aveva preso in ostaggio l’emittente televisiva locale per annunciarlo, e rubato un congegno della Wayne Enterprises che gli avrebbe permesso di ampliare la portata del suo raggio congelante.
Jim lo scoprì mentre si trovava fuori in cerca di un sospettato. Nemmeno Harvey era con lui in quel momento, quando la potente nevicata scatenata da Freeze ricoprì Gotham.
Faceva freddo, troppo freddo perché chi fosse fuori potesse sopravvivere a lungo, il che paralizzò la città in pochi minuti.
Lasciando perdere del tutto il lavoro, l’unico pensiero di Jim divenne quello di tornare a casa per salvare Ivy, perché anche il suo quartiere doveva essere stato colpito, trovandosi vicino.
Jim non sapeva quale fosse il raggio del danno, ma ne ebbe conferma quando - ormai stremato - arrivò a pochi isolati da casa sua, a piedi perché le strade erano tutte bloccate dal traffico.
Ivy era una sua responsabilità, lo era diventata quando lui aveva deciso di invitarla a stabilirsi a casa sua, perciò doveva raggiungerla, verificare che stesse bene e portarla via. Doveva farcela.
Doveva… farcela…
Arrancò nel gelo con quest’unico pensiero in mente, anche se il dolore alle mani aveva lasciato ormai spazio alla mancanza di sensibilità, e iniziava a non sentire anche il resto del corpo, ma non gli importava. Ci avrebbe pensato dopo essere riuscito a portarla in salvo.
Era quasi arrivato quando scivolò su una lastra di ghiaccio e, ancor prima di toccare terra, sentì la poca lucidità mentale rimasta che lo abbandonava del tutto.
Era passato chissà quanto tempo quando si sentì sollevare da terra da mani forti. Lo stavano soccorrendo, forse? Sentiva il brusio di più voci, ma chi erano quelle persone? Jim non era in grado di capirlo.
Un paio di secondi dopo un profumo familiare gli invase le narici, risvegliando i suoi sensi intorpiditi. Jim tentò di aprire gli occhi per verificare che fosse davvero lui, ma ci riuscì a malapena e poté giusto intravedere una sagoma scura in mezzo a tutto quel bianco, nient’altro.
Si sentì toccare le guance da mani calde, talmente calde che quasi lo scottarono, il che gli suggerì che stava congelando.
“Ivy…” sussurrò, ricorrendo alle ultime briciole di forza che gli erano rimaste. “È a casa mia…”
“Ci penso io, vecchio amico,” gli rispose Oswald.
Bastarono quelle parole a rassicurarlo, a fargli capire che poteva rilassarsi... E così perse i sensi.
Chapter 13
Notes:
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Chapter Text
Quando Jim riprese i sensi, riconobbe prima di tutto l’odore tipico delle medicine e degli ospedali misto a qualcos’altro. Qualcosa di familiare che trovò rassicurante.
Intorno a lui l’ambiente era bianco, così bianco che ci mise un po’ a metterlo a fuoco davvero, trovando la conferma che sì, era in una stanza di ospedale. Non gli ci volle molto a capire il perché. Ricordava la minaccia di Freeze e il fatto che subito dopo la città era stata travolta da una bufera di neve.
Lentamente prese consapevolezza del fatto che qualcuno gli stava tenendo la mano destra. Gliela stava scaldando con quel semplice contatto, il che era confortante dato che sentiva di avere ancora molto freddo.
Girandosi piano in quella direzione scoprì che si trattava di Oswald. Con i suoi vestiti e capelli scuri, era l’unico elemento che risaltava - e in un certo senso stonava - in quella stanza così candida, eppure Jim non si era accorto subito della sua presenza.
Oswald si era assopito su una poltrona situata accanto al letto, con la mano sinistra nella sua e il collo inclinato di lato. Quella posizione non doveva essere affatto comoda.
La sua mano non era guantata, stranamente. A parte il loro abbraccio al funerale di Elijah Van Dahl, loro non si erano mai toccati in un modo tanto intimo… Mai, perché Jim aveva sempre cercato di mantenere le distanze. Eppure scoprì che non gli dava alcun fastidio.
Jim si sentiva ancora intorpidito, corpo e mente, perciò rimase a guardare Oswald senza avere nessuna particolare reazione per un lungo istante.
Si beò del calore irradiato dalla sua mano mentre studiava il suo viso con lo sguardo. Mentre osservava la sua fronte leggermente corrugata, forse a causa della scomodità della posizione in cui si era addormentato. Mentre notava che le sue labbra erano secche e scopriva, per la prima volta, quanto fossero lunghe le sue ciglia.
Lui gli aveva salvato la vita…
Un attimo dopo, Oswald aprì gli occhi e li spalancò non appena incontrò i suoi.
“Jim!” esalò, e il detective sentì aumentare la presa sulla sua mano.
Oswald si piegò in avanti, avvicinandosi a lui, e gli toccò il viso con la mano libera.
“Sei vivo… Che sollievo…” disse, mentre lui assisteva alla scena senza capire come replicare, perché si sentiva ancora intontito.
Si beò del calore di quella mano sulla sua guancia sinistra, tanto che appoggiò meglio il viso contro di essa per poterlo sentire ancora più chiaramente. Chiuse gli occhi e inspirò piano. Si sentì come se quel calore fosse una terapia in grado di svegliare una parte di lui addormentata da tempo.
“Parlare con te è stata l’unica cosa che mi ha impedito di impazzire in questi mesi… Se tu fossi morto, io…”
“Ssh…” lo interruppe Jim, che stava facendo fatica a seguirlo, ma che non voleva sapere dove volesse andare a parare con quel discorso. “Sono qui… Mi hai salvato.”
“Sapevo che saresti stato fuori a sfidare le intemperie e mi sono limitato a cercarti,” ribatté, come se niente fosse.
Jim scosse la testa. Lo fece piano, perché non voleva che lui spostasse la mano dal suo viso.
“Mi hai salvato. Se non fosse stato per te probabilmente non sarei qui,” insistette, e lo trovò paradossale dato che - ne era convinto - un giorno proprio lui lo avrebbe ucciso.
Un istante dopo si ricordò del motivo per cui si era diretto verso casa durante la bufera, e spalancò gli occhi incontrando di nuovo lo sguardo di Oswald.
“Ivy? Ti ho detto di Ivy, vero?” gli chiese, perché aveva ricordi vaghi di quel giorno.
Inoltre non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso da allora.
“Lei sta bene, ho saputo che si trova in un'altra stanza di questo piano,” gli garantì, e Jim poté finalmente sospirare per il sollievo.
“Grazie,” disse, e Oswald gli sorrise.
A Jim parve che avesse gli occhi lucidi. Lo guardava sempre così, quando erano insieme? Come se avesse davanti l’unica cosa che importava davvero? Forse no… forse era una novità, ed era così solo perché lui era appena sopravvissuto. Rendersene conto però gli smosse qualcosa nel petto.
“Figurati. Ma dimmi, chi è quella ragazzina?”
Mentre glielo chiedeva, Oswald spostò la mano dalla sua guancia, che subito tornò fredda. Questo provocò a Jim un brivido spiacevole.
“La figlia di Mario Pepper. L'ho… trovata sola, per strada, e le ho offerto di stare da me,” rispose, chiudendo gli occhi perché li sentiva stanchi.
“Ora capisco. Riposati, James, lei sta bene. Chiamo un medico perché possa visitarti.”
“No, resta qui,” gli chiese, aprendo gli occhi e aumentando la presa sulla sua mano sinistra prima che potesse ritrarre anche quella. “Ho freddo.”
Forse suonò come una scusa, e in effetti in parte lo era, ma Jim non voleva rimanere solo in quel momento.
Oswald si avvicinò di più e, con la mano libera, gli tirò la coperta fin sotto al mento. La sistemò con cura sopra alle sue spalle e Jim non smise mai di osservarlo, adesso che lui gli era così vicino.
Da quanto tempo qualcuno non si preoccupava per lui in quel modo? E in effetti, Jim riconobbe che forse Oswald lo aveva già fatto… ogni volta che si era presentato a casa sua, dopo il giorno in cui il detective si era quasi sparato. Solo che allora aveva mantenuto una certa distanza, forse per paura che Jim reagisse male, e gli aveva fatto delle domande vaghe volte ad accertarsi delle sue condizioni, il che lo aveva infastidito e basta. Adesso invece era come un genitore premuroso che si occupava del figlio malato.
C’era tanta cura, anche affetto forse, nei suoi gesti attenti. Non c’era distanza, non c’era esitazione né paura che qualcuno potesse vederli in atteggiamenti così intimi e potesse giudicarli.
“Ora va meglio?” gli chiese, con un sorriso nervoso, e a Jim parve che fosse leggermente arrossito… Ma forse anche lui aveva freddo e il vago rossore sulle sue guance era solo il segnale di quello.
Dopotutto, anche Oswald era stato fuori nel gelo, altrimenti non lo avrebbe trovato.
“Sì,” rispose, e non ricambiò il suo sorriso, ma si sentì bene come non gli capitava da molto, moltissimo tempo.
“Siete ancora qui?” commentò acidamente Harvey, quando entrò nella stanza più tardi.
Era pomeriggio, i medici avevano già visitato Jim, confermato che non avesse perso la sensibilità in nessuna parte del corpo, e gli avevano detto che i suoi valori erano nella norma. Non aveva niente che non andasse, ma doveva restare lì in osservazione, e a riposare.
Al freddo che sentiva ancora dentro non seppero dare una vera spiegazione, ma dissero che non era l’unico dei pazienti a essere affetto da quella spiacevole sensazione. Ipotizzavano che sarebbe passato gradualmente.
Oswald era uscito durante la visita, ma subito dopo era tornato nella stanza insieme a Butch Gilzean. A giudicare dalla sua aria stanca, Jim immaginò che anche lui fosse in ospedale da un po’, forse soltanto per volere del suo capo.
Era probabile che fosse stato proprio Butch a sollevarlo e a portarlo fin lì. Jim non glielo aveva detto, ma gliene era grato.
Harvey si avvicinò al suo letto con una smorfia sul viso, dopo aver rivolto occhiate severe prima all'uno e poi all'altro.
“Non avete di meglio da fare? Qualche vecchietta da derubare, magari?”
“Vedo che sei simpatico come sempre, detective Bullock,” commentò Oswald alzando gli occhi al cielo. “Jim, immagino che il nostro tempo insieme per oggi sia scaduto, ma tornerò domani.”
“Bravo, vattene via,” insistette Harvey, mentre Jim si limitava a fargli un cenno di saluto, senza badare alle parole del suo amico.
Oswald e Butch lo ignorarono e uscirono, lasciandoli soli.
“Non avevo dubbi sul fatto che ti saresti svegliato, Jimbo, ma ci hai messo un po’ e stavi iniziando a farci preoccupare tutti quanti. Comunque, potevi dirmi di Ivy, sarei andato a cercarla io!” esclamò, lasciando intendere che sapeva che l'avevano portata in ospedale.
“Hai ragione, non pensavo ci fosse il bisogno di dirtelo ma avrei fatto meglio,” ammise.
Non si era ancora abituato a fare affidamento su di lui per tutto quanto, anzi tendeva ancora a pensare da solo a molte cose. Inoltre, non sapeva come avrebbe preso la sua idea di ospitare Ivy Pepper… Ma Harvey non sembrava contrariato, adesso che lo aveva scoperto.
“Se l'hai capito, allora siamo a posto. È stato stupido andare a cercarla da solo. Comunque, quei due sono rimasti qui per tutto il tempo,” gli raccontò, in un tono tinto da una nota di sospetto. “Cobblepot sembrava disperato all'idea che potessi non svegliarti più.”
“Non esagerare,” ribatté Jim.
Oswald lo aveva salvato, certo, ma si trattava pur sempre dell'uomo che in futuro lo avrebbe ucciso.
La morte di Jim sarebbe stata un evento da poco nella sua vita, malgrado ciò che gli aveva detto prima… e malgrado il modo in cui lo aveva guardato prima…
“Non lo sto facendo, dico sul serio! Urlava contro i medici, ti teneva la mano persino,” dopo averlo detto, storse le labbra. “Ti guardava come se saresti potuto morire da un momento all'altro e ciò rappresentasse la fine del mondo.”
Jim batté le palpebre più volte, sorpreso.
In effetti, considerando come si era comportato al suo risveglio, Jim riusciva a immaginarlo. Ma si era davvero agitato tanto per un semplice amico? Si chiese se fosse davvero possibile.
“Jim, mi dispiace dirtelo, ma io penso che…”
“No, Harvey,” lo interruppe, avendo capito dove voleva andare a parare.
Jim si sentiva abbastanza confuso anche senza sentirselo dire in modo diretto.
“Piuttosto, per quanto tempo sono stato privo di sensi?” gli chiese, volendo comprendere la situazione.
“Poco meno di ventiquattr’ore.”
Jim sospirò per il sollievo. L’attacco di Freeze era avvenuto solo il giorno precedente.
“Questa zona della città è stata risparmiata o scongelata?”
“Risparmiata. Solo alcuni quartieri sono stati colpiti, quelli in prossimità del nascondiglio di Fries, che per la cronaca lui ha abbandonato. Lo stiamo cercando, ma la priorità è stata data al soccorso dei civili.”
Jim annuì, comprendendo quella scelta.
“Comunque anche lo scongelamento è iniziato… ma ieri l’ospedale e le cliniche erano un delirio.”
“Posso immaginarlo. Tra poco sarò fuori di qui e vi darò una mano,” gli garantì.
“No, non ci pensare nemmeno. Devi riposare, possiamo occuparci noi di tutto il resto. Anche Barnes mi ha detto di riferirtelo, perché sapeva che saresti voluto tornare subito in servizio.”
Jim sbuffò.
“E va bene, ma non resterò qui a lungo. Non voglio stare con le mani in mano. Ci sono state… molte vittime?”
“Circa una trentina di persone, se non contiamo i dispersi,” rivelò, con un sospiro. “È terribile, ma sarebbe potuta andare anche peggio.”
Jim avvertì una stretta al cuore. Trenta vittime. Trenta persone morte a causa del fatto che Freeze fosse in libertà… Trenta innocenti morti a causa delle scelte che Jim aveva compiuto.
“Qualcuno che conosciamo?” chiese, temendo la risposta.
“Nessuno, sembrerebbe. Ma pare che Dent sia scivolato sul ghiaccio e adesso sia ricoverato per una distorsione.”
Jim annuì, prendendo nota mentalmente dell’informazione. Sentire che nessuno dei loro conoscenti aveva perso la vita quel giorno era stato un vero sollievo, come aver scoperto un lato positivo nella tragedia.
“Ma toglimi una curiosità, Jim. Questo congelamento della città era già avvenuto? Insomma, te lo aspettavi?”
“No, Harvey. Il Freeze dei miei ricordi era più pericoloso, ma manteneva un profilo basso. Non aveva mai fatto una cosa del genere,” rivelò, al che il suo amico annuì con aria riflessiva.
Dopo averlo detto, Jim si chiese se cambiare gli eventi fosse stato un bene. Provocare Victor Fries lo aveva fatto scatenare, e delle persone erano morte per questo. Di contro, se Jim non avesse fatto niente, Oswald sarebbe rimasto ad Arkham per un crimine che aveva commesso lui, poi i mostri di Strange si sarebbero riversati per le strade della città, sarebbe arrivato Tetch e con lui il virus di sua sorella…
Difficile dire cosa fosse peggio, soprattutto senza sapere come sarebbero andate le cose da questo momento in avanti. In ogni caso, Jim avrebbe portato sulle sue spalle il senso di colpa per tutte le persone che erano morte, perché si sentiva responsabile.
“Voglio vedere Ivy. I medici hanno detto che posso… mi aiuti ad alzarmi?” chiese al suo amico, perché non aveva ancora provato a scendere dal letto.
“Sicuro che non vuoi che ti cerchi una sedia a rotelle?” propose Harvey, avvicinandosi comunque per sostenerlo.
“No, non ne ho bisogno,” ribatté, sperando di non aver parlato troppo presto.
Aggrappandosi al suo amico, mosse qualche primo passo esitante per la stanza. Senza più le coperte addosso, avvertì subito un brivido freddo lungo la schiena che andò a peggiorare il modo in cui si sentiva, ma cercò di non darci peso.
Arrivato in prossimità della porta, ormai riusciva già a camminare da solo, ma doveva andare piano per non rischiare di perdere l’equilibrio, o almeno quella era la sensazione che aveva.
“Da qui posso farcela da solo,” disse, smettendo di pesarsi su Harvey, ma gli chiese comunque di accompagnarlo, per sicurezza.
I corridoi dell’ospedale erano popolati da persone malate, visitatori preoccupati e infermieri indaffarati che correvano avanti e indietro. Attraverso le porte delle camere, Jim poté vedere tanti altri uomini e donne, persino bambini, alcuni attorniati dai familiari, altri soli, e pensò che si trovassero lì a causa di Freeze, e quindi anche a causa sua.
Ivy divideva la stanza con una bambina, la quale stava parlando con i genitori. Entrambi erano in piedi accanto al suo letto e la madre le accarezzava la testa amorevolmente.
Ivy guardava quella scena senza dimostrare nessuna emozione particolare, ma era chiaro cosa stesse provando. E poi si accorse di Jim, rimasto fermo sulla porta per un momento.
Non lo chiamò né disse altro, ma schiuse le labbra e gli sembrò sorpresa per un breve istante.
Lui si fece avanti e si avvicinò al suo letto, Harvey invece aspettò in corridoio, forse per lasciar loro un po’ di privacy, forse perché pensava che la ragazza non avrebbe avuto piacere a vederlo, e che quello fosse già un pessimo momento così.
“Ehi…” disse, quando le fu vicino, trovandosi a corto di parole da rivolgerle.
Ivy aveva le labbra e le mani screpolate, sopra al camice indossava un maglione color verde chiaro che le aveva comprato Jim e, improvvisamente, aveva gli occhi lucidi. Eppure non versò nessuna lacrima, mantenendo salda l’immagine da dura a cui sembrava tenere tanto.
“Ero preoccupato… Come ti senti?”
“Pensavo che mi avessi abbandonata anche tu,” ammise, dopo un attimo di esitazione, e Jim si sentì grato più che mai di aver preso con sé quella ragazzina.
Perché Ivy aveva bisogno di qualcuno che tenesse a lei, che se ne occupasse.
E forse, se Jim l’avesse lasciata a sé stessa, nessuno l’avrebbe cercata dopo l’attacco di Freeze, per assicurarsi che fosse ancora viva. Il solo pensiero lo faceva sentire male.
“Non ti abbandonerò,” le garantì, ed era determinato a mantenere quella promessa.
“Ho freddo…” disse lei, dopo qualche secondo di silenzio, abbassando lo sguardo e stringendo la coperta con le mani.
Jim si avvicinò per coprirla di più, mentre lei si sdraiava meglio contro i cuscini, tirati su per fare da schienale al letto.
“Anche io ho freddo… È un effetto residuo di ciò che ci ha fatto Freeze. Passerà, non sarà così per sempre,” rispose, sperando che servisse a rassicurarla almeno un po’.
Concentrato su di lei, Jim sentì a malapena un rumore di passi in avvicinamento e poi qualcuno che si schiariva la gola.
“Lei è il tutore della ragazza?”
Jim si voltò e vide che a parlare era stata una giovane donna in tailleur, che teneva in mano una cartellina.
“Bethany Miles, assistente sociale,” si presentò, forse notando la confusione sul suo viso. “L’ospedale al momento ospita diversi orfani, dopo gli eventi di ieri, e sono io a occuparmene.”
“Sì, sono il suo tutore,” dichiarò Jim, con enfasi. “Non… non ufficialmente, ma sono io che mi occupo di lei.”
Probabilmente la loro situazione precaria e non regolamentata sarebbe stata messa a dura prova, ora che un’assistente sociale ne era venuta a conoscenza. Quando Jim l’aveva tirata via dalla strada, non aveva pensato alla burocrazia, soprattutto perché non sapeva come si sarebbe evoluta la loro coabitazione, ma anche perché temeva che la ragazza non avrebbe voluto essere legata a lui in modo ufficiale.
In ogni caso, Jim era pronto a prendersi le sue responsabilità. Non ci aveva pensato a lungo, ma aveva valutato quell’opzione e, dopo ciò che era accaduto il giorno prima, se ne sentiva certo più che mai.
Non aveva idea di come si crescesse un figlio, men che meno un’adolescente, né aveva la pretesa di sostituirsi ai suoi genitori, ma avrebbe fatto del suo meglio. Ivy stessa in quei giorni gli aveva fatto capire quanto fosse difficile, ma lui voleva e doveva provare.
Si voltò verso di lei e vide l’espressione smarrita che stava rivolgendo alla signorina Miles.
“Sono pronto a prendermi questa responsabilità, se ad Ivy sta bene.”
La ragazzina gli rivolse un’occhiata sorpresa ma subito dopo si ricompose, sembrò pensarci su per un breve momento e alla fine annuì.
Jim sorrise, rincuorato dalla sua reazione positiva.
“Ottimo. Lei è il signor…?”
“James Gordon,” rispose, e la signorina Miles si appuntò il suo nome.
“Ci sarebbero tante cose di cui discutere, e da valutare, a questo punto, ma dato che siete entrambi in convalescenza possiamo rimandare a un momento migliore,” gli disse, il che fu un altro sollievo. “Vi lascio soli.”
E dopo averlo detto uscì dalla stanza.
I giorni successivi trascorsero lenti, nella noia tipica di una permanenza in ospedale. Jim al mattino veniva visitato, all’ora di pranzo spesso veniva raggiunto da Harvey che lo aggiornava sulla situazione in città, poi andava da Ivy per passare del tempo con lei, anche se la ragazza era di poche parole. Però lui era certo che le facesse piacere un po’ di compagnia, e così si sforzava di trovare un argomento di conversazione.
Quasi sempre l’argomento prescelto erano le piante, unico tema di cui lei sembrava parlare con trasporto, oppure il cibo dell’ospedale che era triste, insipido e noioso, a detta sua. E Jim non avrebbe potuto descriverlo in un modo migliore.
La sera, dopo cena, quando teoricamente le visite non erano più consentite, arrivava Oswald. Si tratteneva al massimo un paio d’ore e lo aggiornava su come stesse procedendo la campagna elettorale.
In quelle occasioni, Jim si ritrovava a bere le sue parole come se avesse bisogno di sentirle, come se avesse aspettato tutto il giorno di poter udire il suono della sua voce, e poi si chiedeva se non fosse impazzito. Se il gelo scatenato da Freeze contro la città non avesse qualche effetto collaterale sul cervello. Ma, quando aveva provato a chiederlo ai medici, loro avevano sostenuto che non ci fosse affatto quella possibilità.
Allora perché Jim aspettava con trepidazione di vederlo ogni sera? Perché rimaneva affascinato dai suoi racconti? Perché non reagiva quando Oswald, con esitazione, gli toccava una mano e gli chiedeva se avesse ancora freddo?
“Ha messo una taglia su Freeze,” gli aveva raccontato Harvey, uno di quei giorni. “Ne ha fatto un nemico pubblico e la città sembra essersi unita contro di lui.”
“Non è stata un'idea prudente,” aveva commentato Jim.
Ma lui, in effetti, avrebbe dovuto aspettarselo. Ai tempi Oswald aveva fatto esattamente lo stesso con Fish Mooney, dopotutto, e non aveva cambiato il suo modo di ragionare da allora.
“È pericoloso,” disse a Oswald quella sera stessa, quando lo vide. “Così si rischia solo che ci siano altre vittime.”
Oswald gli offrì un sorriso tipico di chi sapeva cosa stesse facendo.
“Non so cosa ti abbia riferito il detective Bullock, ma ho offerto una ricompensa anche a chi offrirà informazioni utili per trovarlo. E, ovviamente, queste informazioni verranno gestite dalla GCPD.”
Stava forse dicendo che aveva spinto la gente di Gotham a collaborare con la polizia, con la promessa che avrebbero ricevuto dei soldi in cambio? Jim lo trovò interessante, considerando che di solito tutti preferivano far finta di non sapere, ed essendo coinvolto Freeze lui poteva capire perché lo facessero.
Dubitava che in questo modo sarebbero riusciti a prenderlo - e come, poi? Considerata la tecnologia in suo possesso, sarebbe stato difficile - ma si chiedeva a cosa ciò avrebbe portato…
Notes:
Un'informazione per i lettori non italiani, utile per questo capitolo ma non solo.
L'assistente sociale ha chiesto il nome di Jim dicendo: "Lei è il signor...?"
Non so come la traduzione automatica abbia gestito il pronome, ma è il "tu" formale in italiano (non il "lei" terza persona femminile, che sarebbe la traduzione letterale). Spero che non abbia creato confusione nella lettura!
Ci saranno altri capitoli, più avanti, in cui alcuni personaggi si rivolgeranno in modo formale al capitano Barnes, e forse anche a qualcun altro. Anche in quei casi ho usato il "lei" come pronome per il "tu" formale, come si fa in italiano. Nel caso in cui la traduzione automatica faccia casini e lo traduca in modo letterale, spero che la mia nota qui vi sarà utile per interpretarlo.
Chapter 14
Notes:
Ci tengo a ringraziare tutti voi che avete commentato i capitoli precedenti. Non ho parole per esprimere quanta gioia mi dà leggere i vostri pareri! Spero che anche questo capitolo vi piacerà!
(See the end of the chapter for more notes.)
Chapter Text
Poco più di una settimana dopo essersi svegliato in ospedale, Jim era stato dimesso ed era tornato al lavoro, anche se Barnes aveva insistito perché si prendesse altri giorni di riposo.
Lui aveva rifiutato l’offerta sottolineando che si sentiva bene e dicendo che voleva fare la sua parte, e così era andato alla centrale come se fosse un giorno qualsiasi. Però aveva indossato un maglione sotto alla giacca del completo, perché avvertiva ancora quel freddo residuo dentro di sé.
La città era stata completamente scongelata ormai, anche se doveva ancora riprendersi dalla tragedia e dalla paura di quel giorno.
In questo contesto non mancavano comunque gli omicidi, perciò Jim e Harvey avevano molto lavoro, come al solito.
Ad aggiungere benzina sul fuoco dei problemi c'era anche il fatto che Bethany Miles, l’assistente sociale, non avrebbe mai reputato adatto l'appartamento di Jim, perciò lui stava cercando una nuova sistemazione che fosse alla sua portata.
Sperava di riuscire a trovare una nuova casa nella stessa zona, per non dover cambiare troppo le loro abitudini, ma non era questo il requisito fondamentale. Era che ci fosse una stanza per Ivy.
La ragazza era tutt’ora in ospedale e ci sarebbe rimasta ancora per un po’, a riposo e in osservazione. Jim andava a trovarla ogni giorno, ritagliandosi del tempo in pausa pranzo oppure la sera. Il detective sapeva che lei aveva avuto un colloquio con la signorina Miles, durante il quale aveva dichiarato di voler vivere con lui. Era stata l’assistente sociale a riferirglielo, ma il fatto che Ivy lo avesse messo a parole in modo chiaro era per lui un traguardo importante.
Nel weekend il suo tempo in ospedale veniva spezzato dagli eventi a cui Oswald presenziava, perché Jim gli aveva promesso la sua partecipazione, e così si ritrovava a stare fermo alle sue spalle insieme a Gilzean durante un discorso pubblico, o ad accompagnarlo in questo o in quell'altro posto come parte silenziosa del suo entourage.
Parlavano anche, tra una cosa e l'altra, ma Jim aveva deciso di adottare un atteggiamento sfuggente con lui perché non si riconosceva più, in quel periodo. E poi aveva Ivy a cui pensare, perciò aveva sempre una buona scusa per scappare via alla fine di ogni suo “obbligo” nei confronti di Oswald.
Jim si era stupito, però, che lui non avesse coinvolto Nygma, trovando il modo di farlo uscire da Arkham apposta perché potesse aiutarlo nella campagna elettorale.
Tra casi da risolvere, visite ad Ivy ed eventi con Oswald, ma soprattutto l'organizzazione per cambiare casa che si stava rivelando un calvario, Jim non aveva smesso di ripetersi che c’erano questioni ben più gravi a cui avrebbe dovuto pensare, in verità.
Lui conosceva gli eventi futuri, sapeva quali prossime piaghe si sarebbero abbattute sulla città, eppure stava conducendo una vita frenetica ma ordinaria. Il che era assurdo e forse, come si ripeteva ogni sera quando tirava le somme della giornata appena trascorsa, sbagliato.
Eppure ormai era immerso in quella routine e non se ne pentiva. Inoltre, di questioni urgenti non ce n’era nessuna al momento.
Stranamente l'unica grossa minaccia per la città sembrava essere Freeze, in quel periodo, dato che Barbara e Nygma erano ad Arkham e di Tetch non c'era traccia. Persino Oswald stava rigando dritto, e da tempo.
“Non ci credo che lo sostieni davvero nella campagna elettorale,” gli disse Harvey, mentre pranzavano alla solita tavola calda.
Era un giorno qualsiasi e loro erano usciti dalla centrale per mangiare un boccone al volo prima di tornare a lavorare sull’ennesimo caso di omicidio.
“Perché lo fai? È pur sempre un criminale,” aggiunse.
“È vero, ma come sindaco creerà meno problemi di Aubrey James,” gli garantì, al che il suo amico gli rivolse una smorfia poco convinta. “Lui è un corrotto recidivo, era ora che qualcuno minacciasse di togliergli il posto.”
“E su questo siamo d'accordo, ma… Cobblepot?” sottolineò Harvey, in un tono incredulo.
Jim fece spallucce. Era assurdo, e ai tempi non lo avrebbe mai ammesso, ma era la verità.
“Sicuro che non ti tiene in pugno in qualche modo?” insistette.
“No Harvey, lo sostengo perché voglio farlo. E anche perché glielo devo.”
Il suo partner sospirò.
“Il vostro rapporto è sempre stato fatto di favori e conti in sospeso, e non mi aspetto nient'altro ormai, ma mi pare comunque eccessivo.”
Jim gli offrì un sorriso a mezza bocca, intuendo che fosse inutile replicare.
Non aveva mai programmato di diventare davvero amico di Oswald…
Non aveva nemmeno programmato di ingannare Oswald perché pensasse che fossero diventati amici, in realtà. Se gli aveva dato corda, quel poco, era stato solo perché trovava inutile opporsi, e che fosse superfluo dare - ancora una volta - la sua opinione riguardo al loro rapporto.
Non aveva un piano preciso per lui, non lo aveva mai avuto. Contava solo di non provocarlo e di risparmiargli il periodo ad Arkham, per l’omicidio di un uomo che in realtà aveva ucciso lui. Inoltre aveva sperato di riuscire a tenerlo lontano da Nygma, perché sicuramente tra loro era successo qualcosa che Jim non sapeva, e che ai tempi aveva avuto il suo peso sulla psiche di Oswald.
Il suo piano era vago e consisteva soltanto in questo… Ma poi qualcosa era cambiato, il che non era affatto previsto.
Difficilmente Jim avrebbe ammesso che ora loro due erano amici… Persino con Oswald forse non l'avrebbe mai fatto. Ma, dentro di sé, Jim era certo che qualcosa fosse diverso ormai, e non gli era chiaro se ciò fosse positivo o meno.
Non avvertiva più quel vuoto nel petto, quel qualcosa che lo aveva reso apatico fino a qualche settimana prima. C'era altro adesso a riempire ciò che allora era stato vuoto, altro a cui lui non voleva dare un nome, accompagnato da un freddo implacabile. Un freddo comunque più lieve con ogni giorno che passava, ma pur sempre presente, inspiegabile e che non lasciava scampo.
Ma per il momento Jim cercava di non pensarci.
Quando uscì dalla centrale, quella sera, desiderò di andare a casa a prepararsi qualcosa di caldo, ma il suo pensiero andò ad Ivy che era sola in ospedale, e così decise che sarebbe passato da lei. Temeva di sembrare troppo soffocante andando a trovarla più di una volta al giorno, questo anche perché lei non gli faceva capire se gradiva davvero la sua presenza, né che fosse il contrario, ma ciò non lo avrebbe dissuaso dal dimostrarle che lui, per lei, c’era.
Incamminandosi verso la sua auto, nel parcheggio, si sorprese di trovare Selina Kyle ad attenderlo. Si era seduta sul cofano e se ne stava a braccia conserte. Quando anche lei lo vide, scivolò giù dal cofano, al che il detective sperò che non avesse lasciato dei segni sulla carrozzeria, altrimenti sarebbero rimasti lì a lungo. Non aveva soldi per una spesa superflua come quella.
“Selina… che ci fai qui?” le chiese, volendo andare subito al sodo.
Era strano che la ragazza lo cercasse, anche se lui ricordava una volta in cui Selina gli aveva chiesto proprio di trovare Ivy, ai tempi. Fish Mooney e i mostri di Strange imperversavano per le strade e la ragazza più giovane era finita chissà dove. Era sparita per un lungo tempo e, quando era tornata… Beh, non era stata più la stessa.
Jim ci ripensò brevemente e sperò che, qualsiasi cosa volesse, non andasse per le lunghe. Stare per le strade di Gotham, la sera, per quanto credesse di essersi coperto abbastanza, non era piacevole nelle sue condizioni.
Quando la notte si avvicinava, quel freddo implacabile sembrava arrivare alle ossa… O forse erano solo il buio e la solitudine ad ampliare quella sensazione, rendendola particolarmente sgradevole.
“Cerco Ivy,” annunciò, e Jim se ne sorprese ma in effetti, proprio per come erano andate le cose ai tempi, comprese che avrebbe dovuto aspettarselo. “Ho provato a cercarla da sola e a chiedere a Bruce, ma è particolarmente nervoso in questi giorni,” continuò e gli offrì una smorfia infastidita. “Tu mi aiuterai?”
Jim capiva perché la cercasse, e anche perché fosse preoccupata per lei, pur non volendo darlo a vedere. Erano amiche da tanto e per un periodo avevano anche condiviso un rifugio. Era stata Selina a insegnare ad Ivy come sopravvivere per strada e, dopo Freeze, non si erano più viste. Chiunque avrebbe pensato al peggio.
“Ti stupirò, ma so esattamente dove si trova. Sali in auto, ero giusto diretto lì.”
L’espressione annoiata sul viso di Selina non mutò, ma a Jim parve di aver visto della sorpresa nel suo sguardo, almeno per un momento.
Salirono entrambi in macchina e, quando si fecero più vicini all’ospedale, gli sembrò che la ragazza fosse addirittura nervosa ma, dato che tentava in tutti i modi di non dimostrare preoccupazione per la sua amica, lui fece finta di non essersene accorto.
Lei e Ivy erano simili in questo, pur essendo molto diverse.
Doveva essere stata la vita per strada a renderle così, a creare quella scorza esterna con cui cercavano di proteggersi tenendo alla larga gli altri.
Alla fine nessuno dei due parlò. Jim fece strada per i corridoi e Selina lo seguì a un paio di passi di distanza. Questo finché non arrivarono fuori dalla stanza di Ivy. Jim notò che stava leggendo uno dei libri che le aveva portato e si spostò di lato perché lei non lo vedesse, volendo lasciare alle due amiche la possibilità di parlare in privato.
Selina si avvicinò alla porta con riluttanza, ma quando vide Ivy sembrò riscuotersi e raggiunse il suo letto senza più esitare.
Jim sentì che si stavano salutando, percepì un certo disagio da parte di entrambe, forse perché non si vedevano da tanto e perché non si erano lasciate nel migliore dei modi. In effetti, lui ricordava ancora che Ivy gli aveva detto che Selina l’aveva abbandonata.
Era felice che la ragazza le stesse dimostrando che non era così. Sperava che tornasse ancora a trovarla, per dimostrarglielo ancora e con più convinzione. Ivy aveva bisogno di un’amica, soprattutto dopo l’esperienza vissuta di recente, motivo per cui adesso si trovava in ospedale.
Jim decise, per quella sera, di lasciar loro la privacy di cui credeva avessero bisogno. Sarebbe tornato a casa, da solo, a preparare il pasto caldo che tanto agognava, e poi avrebbe cercato un modo per rendere meno freddo il suo letto… fallendo, come sempre.
L’indomani, Jim non riuscì a passare in ospedale in pausa pranzo perché, con Harvey, si stava occupando di un caso particolarmente ostico.
Se alcuni casi era riuscito a risolverli con facilità, perché sapeva già chi fossero i colpevoli, per altri non poteva dire lo stesso. Questa volta si trattava proprio di uno di quei casi. Le cose erano cambiate molto, a Gotham, rispetto a come ricordava fossero andate ai tempi. Questo aveva portato alcuni eventi a non verificarsi e altri a presentarsi inaspettatamente, portando nuovi problemi.
Così, non volendo far pensare ad Ivy di essersi dimenticato di lei, andò in ospedale dopo il lavoro, malgrado fosse tardi ormai.
Trovò la stanza illuminata solo dalla luce fioca di una lampada, perché era quasi ora di dormire. Ivy però, nella camera che ormai non divideva più con nessuno, non era sola. Accanto a lei c’era Selina, seduta a gambe incrociate sulla scomoda sedia imbottita posizionata accanto al suo letto, che dava le spalle alla porta.
“Non posso credere che fossi seria,” le sentì dire, e Jim riuscì ad immaginare la sua smorfia infastidita. “Siamo sempre state solo noi due e ce la siamo sempre cavata. Non puoi decidere di trovarti una casa, la tua casa è la strada là fuori, con me!”
Jim strinse i pugni. Non poteva entrare in quel momento e interromperle, ma non poteva nemmeno fingere di non aver sentito e andarsene via. Quindi restò accanto alla porta, dove loro non si sarebbero accorte di lui.
Selina stava criticando la decisione di Ivy di vivere con lui. Di avere una casa, una vita normale e qualcuno che si prendesse cura di lei… Che fosse per invidia o perché si sentiva tradita, Jim non lo sapeva, ma ciò avrebbe potuto mettere a rischio tutto quanto.
“Ti rendi conto di cosa significhi? Dovrai andare a scuola, vivere secondo delle regole!” insistette. “Scommetto che non ci hai pensato!”
“Sì che ci ho pensato… ma è quello che fanno tutti,” replicò Ivy, in un tono piatto.
“Non tutti, io non lo faccio. Ed è sempre stato tutto perfetto così, quando eravamo insieme.”
“Tu sei sempre con Tabitha adesso,” sottolineò la più piccola.
“Non sempre, no. Te l’ho detto, non puoi venire con noi, però farò in modo di stare più tempo con te,” propose Selina, con leggerezza.
“Non è vero. Tu prometti, ma poi te ne vai,” disse, e questa volta Jim riconobbe una punta di tristezza nella sua voce. “Jim invece non mi ha abbandonata.”
“Dio, Ivy! Sei stata da lui quanto, due settimane? E già credi che sarà tutto perfetto!?”
“Non è così,” ripeté con più enfasi, ma la voce le tremò appena.
“Sì invece. Ti stai illudendo. Lui non avrà tempo per te, oppure diventerà severo, e quando accadrà io non sarò più qui a consolarti!”
Selina le stava chiedendo di scegliere tra lei e lui? Jim non fece in tempo a darsi una risposta che la ragazza corse fuori dalla porta. Non si voltò mai nella sua direzione, segno che non lo aveva visto.
Il detective attese una manciata di secondi, poi si sporse verso la stanza e vide Ivy piegata in avanti, che si copriva il viso con le mani. Sentì come se il suo cuore venisse stretto in una morsa dolorosa.
Facendo un respiro profondo, Jim si avviò per il corridoio in direzione del distributore automatico più vicino, dove prese un caffè per calmare i nervi ma soprattutto per ingannare il tempo, così che potesse calmarsi da sola.
Se c’era una cosa che immaginava peggiore di entrare là dentro mentre le due amiche litigavano, era farlo mentre Ivy cedeva alle lacrime che si erano fatte strada attraverso la sua corazza, dopo tanto tempo passato a trattenerle con tutte le sue forze.
Jim credeva di aver creato finalmente un legame con lei… ma forse Selina, con quelle semplici parole, aveva appena rovinato tutto.
Quando tornò sui suoi passi, diversi minuti dopo, sperò che la ragazza si fosse calmata. Jim non riusciva ad affrontare i propri sentimenti, figuriamoci quelli di un’adolescente… Anche per questo aveva scelto di comportarsi così. Ma sarebbe bastato?
Quando bussò alla sua porta lei sobbalzò, perché evidentemente non si aspettava altre visite per quel giorno, ma almeno non stava più piangendo. Sembrava solo stanca e aveva gli occhi arrossati.
“Scusa il ritardo… Sono stato trattenuto al lavoro,” le disse Jim, facendosi avanti con cautela.
“Non importa,” rispose lei, con la voce un po’ più spenta del solito.
Non lo mandò via né lo trattò duramente, il che fu già un sollievo per lui.
Si premurò di rimboccarle la coperta e si sedette dove poco prima c’era stata Selina, mentre Ivy evitava il suo sguardo facendo finta di niente.
“Hai freddo?” le chiese, avendo timore a toccare qualsiasi argomento, in quel momento così delicato.
La ragazza fece spallucce.
“Come sempre…” dichiarò.
Jim sospirò piano.
“Anche io,” ammise, e finalmente lei lo guardò negli occhi.
Gli parve che fosse sorpresa, sotto quella sua maschera di stanchezza e apatia.
“Pensavo che solo a me non fosse passato.”
Jim scosse la testa.
“No… Non so agli altri, ma io lo sento ancora. Per quando avremo una nuova casa… immagino che sarà passato,” ammise.
“Quando?” chiese Ivy, con voce più acuta. “Quanto ci vorrà?” continuò, e dal suo tono tremolante Jim intuì che stesse per piangere di nuovo.
Cedette all’istinto di alzarsi e abbracciarla, stringendola a sé. La ragazza subito si aggrappò alla sua schiena e singhiozzò piano contro il suo maglione, mentre Jim le accarezzava i capelli.
Sapeva quanto potesse essere estenuante avere sempre freddo, malgrado tutti gli strati di vestiti addosso. Doveva essere particolarmente dura da sopportare per Ivy, in aggiunta alla lite appena avuta con la sua unica amica.
“Presto… Farò del mio meglio perché sia presto,” le garantì.
Non lo disse, perché sentiva che non era il momento adatto, ma le avrebbe permesso di invitare Selina tutte le volte che avrebbe voluto. Ci sarebbero state delle regole da rispettare, certo, e Ivy sarebbe dovuta andare a scuola… ma Jim avrebbe fatto del suo meglio. Del suo meglio perché restare con lui rimanesse una prospettiva migliore rispetto a vivere per strada, e perché Ivy non si pentisse mai di aver fatto quella scelta.
Notes:
Per gli avvisi quando pubblico un nuovo capitolo, i retroscena di questa storia e altro, mi trovate su Tumblr cercando hereforchill!
Chapter Text
Lee era tornata.
Jim non immaginava che sarebbe successo tanto presto, ma si aspettava di vederla di nuovo a Gotham prima o poi. Così, quando se la ritrovò davanti alla centrale, non fu del tutto sorpreso.
C’era qualcosa di lasciato in sospeso tra loro, del disagio che chiaramente li pervase entrambi in quel momento, infatti si salutarono in modo impacciato.
Lee se n’era andata dopo che Freeze l’aveva presa di mira, e se lo aveva fatto era stato per punire Jim. Adesso il criminale non faceva più parlare di sé da due settimane, e il suo ultimo attacco era stato indirizzato all’intera città. Insomma, forse la sua ex adesso poteva stare tranquilla. Forse lei aveva pensato proprio questo, perciò aveva deciso di tornare.
Quello stesso giorno, prima di andare a pranzo con Harvey, Jim la raggiunse nel suo ufficio per cercare di togliere entrambi dall’imbarazzo. Arrivato sulla porta, si schiarì la voce e così lei si voltò e lo notò. Gli rivolse uno sguardo sorpreso.
Forse immaginava che Jim l’avrebbe ignorata per un po’.
Lui ricordava che c’era stato un periodo, ai tempi, in cui avevano mantenuto le distanze, facendo finta che tra loro fosse tutto a posto… ma non era così. Allora Lee stava per sposarsi e Jim ne soffriva molto. Ne soffriva anche lei, in qualche modo, altrimenti non sarebbe andata da lui con la scusa di dirgli addio, appena prima di andare a promettersi per sempre a Mario.
Ma quelli erano momenti lontani nella mente di Jim, ai quali lui non associava più nessuna emozione, a parte una strana nostalgia. Nient’altro.
“Ehi, Lee… Volevo dirti che mi dispiace per quello che ti ha fatto Fries. Non credo di avertelo ancora detto.”
La sua ex gli rivolse un sorriso tirato.
“Non devi scusarti, non è stata colpa tua.”
Jim fece spallucce.
“In un certo senso lo è stato.”
In più di un senso, secondo lui, ma non avrebbe dato spiegazioni a riguardo.
“Va bene, allora diciamo che accetto le tue scuse e non ne parliamo più,” propose la sua collega, al che lui annuì. “Ho sentito che Fries ha congelato diversi quartieri mentre non c’ero, e che anche tu sei stato colpito. Adesso stai bene?”
“Sì… A questo proposito, volevo chiederti se anche tu ti fossi sentita come se del gelo ti fosse rimasto dentro…”
“Sì, l’ho sentito,” gli rispose. “Ma è passato ormai.”
Jim sospirò per il sollievo. Se era così, significava che non avrebbe avuto quella sensazione ancora per molto.
Un attimo dopo notò che il sorriso sulle labbra della sua collega si era fatto più genuino.
“Sto con qualcuno adesso, Jim. Si chiama Mario, è un brav’uomo e stare con lui mi ha aiutata molto. Era come se… non mi ricordassi nemmeno di avere freddo, con lui al mio fianco. E, prima che me ne rendessi conto davvero, era passato. Ma forse non dovrei parlarne con te,” si affrettò ad aggiungere, e prese alcuni documenti dalla scrivania per riporli su uno scaffale.
“No… Ti ringrazio per avermelo detto, invece,” le disse.
Sapere di Mario, però, aveva spinto il suo pensiero altrove. Se lei era lì, e adesso stava con Mario, significava che anche lui si trovava a Gotham. Senza il virus di Alice Tetch, era chiaro che le cose sarebbero andate diversamente… ma quanto diversamente?
Jim era determinato, questa volta, a salvare anche lui. Senza quel virus, non avrebbe avuto motivo di sparargli e di rovinare così la vita di Lee.
Però sapere che loro due si erano trovati, anche se in un momento diverso e in un modo diverso, gli fece pensare che forse certi eventi erano voluti dal destino e, quindi, già scritti. Forse anche la sua morte per mano di Oswald era tra questi eventi immutabili.
“Sono certo che lui ti renderà felice. Adesso vado, Harvey mi sta aspettando,” disse e uscì dal suo ufficio.
Le elezioni ormai erano alle porte e Jim aveva ridotto a poche opzioni la scelta della nuova casa per sé e per Ivy. Ce l’aveva fatta in tempo record, considerando tutto, ma non voleva ancora cantare vittoria.
Quel giorno era sabato e lui era andato in ospedale al mattino, dove aveva fatto compagnia alla ragazza anche durante il pranzo, malgrado le infermiere non fossero molto d’accordo a saperlo lì così spesso. Ma era il tutore, ormai aveva firmato ciò che doveva - anche se l’ultima parola spettava comunque all’assistente sociale - perciò non potevano mandarlo via.
Poi era uscito, aveva preso qualcosa da mangiare alla veloce, e aveva raggiunto Oswald e il suo entourage. Per quel pomeriggio era previsto un confronto pubblico tra lui e Aubrey James, che andò per le lunghe.
A un certo punto Jim avrebbe voluto solo tornare a casa a tentare di scaldarsi con un caffè o con una zuppa, qualsiasi orario si fosse fatto, e invece era inchiodato lì.
“Andiamo tutti a casa di Oswald per un meeting organizzativo,” gli disse Butch subito dopo la fine dell’evento, impedendogli di scappare via. “Dai, vieni anche tu. Olga cucinerà per tutti.”
Al pensiero di un pasto sontuoso cucinato dalla governante, Jim non poté far altro che accettare. Dopotutto, non poteva usare la scusa di Ivy perché era già andato a trovarla quel giorno, e come giustificazione per il suo comportamento sfuggente la usava fin troppo spesso. Inoltre, anche volendo tornare in ospedale davvero, probabilmente l’avrebbe trovata con Selina, perché lei gli aveva detto che l’amica aveva promesso di farle visita.
Le cose tra loro sembravano tornate a posto, ma Jim non poteva saperlo per certo. Non aveva assistito di persona a ciò che era successo dopo la loro discussione, sapeva solo che Selina andava ancora a trovare Ivy, e per lui bastava.
Incontrare Selina e vedere come lei lo avrebbe trattato… No, questo sarebbe stato su un altro livello, e Jim non voleva rischiare. Sapeva di aver ragione, ma sapeva anche che quelle due dovevano risolvere la questione tra di loro, senza che lui facesse sentire la sua presenza di adulto controllore. Non voleva essere così e non voleva fare niente che facesse cambiare idea ad Ivy, sul suo conto e sulla decisione presa.
Quindi, in mancanza di altro da fare, la prospettiva di una cena cucinata da Olga era molto meglio di quella di tornare a casa propria, da solo. Una casa fredda, in cui si sarebbe preparato da mangiare da solo, cercando di sconfiggere un gelo interiore che non sembrava placarsi mai.
Ci volle un po’ per arrivare a villa Van Dahl, ma la dimora si rivelò subito calda e accogliente. Non essendo tecnicamente parte del team, Jim cedette presto all’istinto di sedersi sul divano per rilassarsi in prossimità del camino.
Voleva anche lui un camino, nella nuova casa… Ma in quelle che aveva selezionato non c’era, e farlo costruire sarebbe stato troppo costoso, perciò sarebbe rimasto solo un suo capriccio irrealizzabile.
Da dove si trovava, Jim poteva assistere al meeting senza prenderne davvero parte. Erano tutti in fermento perché il giorno delle elezioni era vicino, perciò dovevano pensare agli ultimi passi della campagna, per convincere gli elettori indecisi. Era un momento cruciale.
Ogni tanto Jim spostava lo sguardo distrattamente su Oswald, trovandolo concentrato nel discorso, poi temeva di averlo fissato troppo a lungo e così chiudeva gli occhi o si voltava verso il camino.
Si stava bene lì. C’era ancora del gelo dentro di lui, ma il calore che lo avvolgeva da fuori, provando a scaldarlo almeno un po’, era piacevole.
A fine meeting, mentre Oswald scambiava le ultime parole con il suo staff, Butch si alzò e lo raggiunse. Si sedette accanto a lui sul divano, mantenendo comunque una certa distanza.
“Come te la passi?” gli chiese, e quella semplice domanda sorprese Jim, considerando chi gliel’aveva posta.
“Come al solito,” rispose, facendo spallucce.
Dicendo che stava bene avrebbe mentito, ma non gli andava di parlare del suo reale stato di salute.
“Ho saputo che hai adottato Ivy Pepper.”
“Non proprio, ma mi sono proposto come suo tutore,” specificò.
“Immagino cambi poco,” replicò Butch. “All’improvviso ti ritrovi genitore di un’adolescente… Buona fortuna.”
Dal suo tono colloquiale e dal suo sorriso accennato, Jim capì che Gilzean non lo stava prendendo in giro, né parlava con leggerezza. Era serio nel suo augurio e quella voleva essere, probabilmente, una chiacchierata amichevole.
“Grazie, immagino,” gli disse, accennando un sorriso a mezza bocca.
Olga entrò nel salone poco dopo, con la loro cena.
La prospettiva di alzarsi dal divano e allontanarsi dal fuoco fu quasi dolorosa per Jim, ma avrebbe mangiato volentieri e perciò si fece forza e raggiunse gli altri a tavola. Essendosi tutti già seduti, per lui restò solo il posto libero tra Butch e Oswald, che sembrava essere rimasto vuoto apposta… ma decise di non farci caso.
Olga aveva preparato una zuppa ricca e saporita, ma soprattutto calda. Jim, al primo assaggio, comprese di non desiderare niente di meglio. Anche il pane che aveva portato in tavola sembrava fatto in casa ed era delizioso.
Come dolce servì una torta dal ripieno al cioccolato, caldo anch’esso, e alla fine del pasto Jim poté dirsi davvero soddisfatto.
Non parlò mai, concentrandosi sui piatti che aveva davanti e preferendo ascoltare i discorsi degli altri. Era stato tra i primi a finire, e quando un segretario si alzò con la scusa di andare in bagno anche Jim lasciò la tavola, per tornare a scaldarsi davanti al camino. Malgrado l’ambiente fosse caldo, le sue mani erano rimaste gelide ed era come se fossero il riflesso di ciò che sentiva dentro.
Però adesso andava un po’ meglio.
Quando gli altri iniziarono ad andare via, Jim era di nuovo seduto sul divano e non si alzò nemmeno, offrendo tiepidi saluti dalla sua posizione. Nel salone rimase giusto Butch Gilzean, che aveva ancora qualcosa da dire a uno dei segretari. Oswald li lasciò parlare da soli, avvicinandosi a Jim.
“Temevo che non ti saresti unito a noi per cena, James,” gli disse, rimanendo in piedi davanti al camino.
“Credo che la cucina di Olga sia il mio punto debole,” rispose, accennando un sorriso.
Anche Oswald gli sorrise, ma in un modo teso e nervoso.
“Lo capisco, Olga è un’ottima cuoca. Comunque, rimane il fatto che sono stato felice di averti qui.”
“Mi stai cacciando?” gli chiese Jim sollevando un sopracciglio, e intanto si alzò perché, scherzi a parte, si rendeva conto che fosse tardi.
“Oh no, tutt’altro. Aspettami qui un momento.”
Dopo averlo detto, sparì oltre la porta che conduceva al corridoio.
Jim non se n’era accorto mentre parlavano, ma anche il segretario se n’era andato e adesso rimaneva soltanto Butch Gilzean.
“Io vado, Tabitha ci resta male se faccio troppo tardi,” gli disse.
Si salutarono da quella distanza e anche lui varcò la porta, lasciandolo davvero solo.
Jim si avvicinò di più al camino, dato che era già in piedi, e tese le mani in avanti per scaldarle. Per provarci, almeno, anche se ormai temeva che fosse impossibile.
L’arrivo di Oswald fu preceduto dal rumore del suo passo svelto e del suo bastone che batteva a terra. Quando Jim lo vide entrare nel salone, Oswald aveva in mano un sacchetto. Tornò vicino a lui e glielo porse.
Il detective lo prese con esitazione e corrugò la fronte.
“È per te. Aprilo,” lo invitò Oswald.
“Ma non è il mio compleanno… o qualche altra ricorrenza,” sottolineò, sorpreso.
“Non ha importanza. È solo un pensiero, volevo che lo avessi.”
Jim si decise ad aprire il sacchetto e ne estrasse il contenuto. Si trattava di un cappotto beige, elegante ma non vistoso, che al tatto sembrava davvero… caldo. Apprezzò quel regalo molto più di quanto sarebbe riuscito a dimostrare.
“Ti piace?” gli chiese Oswald, apparendo nervoso.
“Sì, molto,” ammise e gli rivolse lo sguardo.
“Bene,” disse il padrone di casa, con un sorriso tirato. “Ho notato che spesso sembri avere freddo o sentire dei brividi, e così ho pensato che potesse farti comodo.”
Jim ne rimase sorpreso. Aveva scelto quel regalo perché lo aveva osservato e aveva capito che stava soffrendo…
“Tu non lo senti… il freddo?” chiese, volendo indagare a riguardo.
Non ne avevano mai parlato apertamente, in effetti. Jim aveva evitato l’argomento con tutti, decidendo che l’avrebbe gestito da solo, e nel farlo aveva lasciato anche Ivy nella stessa situazione, ma se ne era accorto solo di recente.
Del giorno dopo gli eventi scatenati da Freeze, Jim ricordava di aver visto Oswald con le labbra screpolate, ma era lui quello a letto, ricoverato in ospedale, quindi aveva subito pensato che la loro situazione fosse molto diversa. Così non gli aveva chiesto come avesse vissuto quel momento né come stesse.
Oswald scosse la testa.
“Non sono stato esposto al gelo abbastanza a lungo.”
Jim sospirò piano. Era sollevato che almeno lui non dovesse sopportare quel calvario.
Il padrone di casa gli fece un cenno in direzione del divano, così Jim si accomodò di nuovo. Oswald prese posto al suo fianco, non troppo vicino ma neanche lontano come al solito.
La poca distanza rimasta tra loro provocò una certa agitazione in Jim, che tentò di mascherarla guardando altrove e controllando il respiro.
“Cosa si prova?” gli chiese Oswald, e il detective rifletté per un paio di secondi prima di rispondere.
“È come se l'interno del mio corpo fosse congelato. Qualsiasi cosa faccia per scaldarmi, il calore non arriva mai in profondità,” spiegò, ma si rese conto che non era tutto, non era così semplice. “Ricerco continuamente il calore, ma tutto sembra inutile. E quando cala la notte è ancora peggio.”
Oswald rimase in silenzio, a scrutarlo con aria preoccupata.
“Ma… va sempre meglio, giorno dopo giorno,” continuò Jim. “Anche se ci sono momenti in cui mi sembra che non passerà mai, ed è anche stancante, in un certo senso.”
Sospirò. C'era come uno sconforto legato a quel gelo che non lasciava scampo.
Con esitazione, Oswald gli prese una mano e poi anche l'altra. Jim lo lasciò fare, avvertendo il proprio cuore che accelerava il battito. Sperò fortemente che, attraverso quel contatto, Oswald non se ne accorgesse.
“Hai le mani gelate…” sottolineò, mentre gliele accarezzava, poi alzò lo sguardo su di lui.
Era vicino, troppo vicino. Jim avrebbe voluto, come minimo, stringerlo in un abbraccio serrato come Oswald aveva fatto con lui al funerale di suo padre. Avrebbe voluto cercare conforto, rassicurazione e calore tra le sue braccia, perché sentiva che così avrebbe finalmente trovato ciò di cui aveva bisogno…
Lo sapeva, e Oswald era così vicino che lui poteva quasi sentirsi meglio. Poteva quasi sentirsi salvo.
Ma no, non poteva.
Quindi abbassò lo sguardo e si allontanò leggermente raddrizzando il busto, però non ritrasse le mani.
“Ti ho visto cercare il calore del camino per tutta la sera. Se vuoi qualcosa di caldo da bere, o anche solo da tenere in mano, posso chiedere a Olga di prepararlo. Una tisana, magari,” propose, con una dolcezza nella voce che Jim trovò inaspettata, e che gli smosse qualcosa nel profondo.
“No… Mi sento già abbastanza stanco senza bere una tisana e devo guidare fino a casa,” gli fece notare, anche se gli sarebbe piaciuto indugiare nel conforto di una bevanda calda, davanti al camino.
“Perché non ti fermi per la notte, allora?”
Jim avvertì un brivido alle sue parole, e non di freddo. Era stato un brivido piacevole che lui era intenzionato a ignorare con tutte le sue forze.
“Ci sono diverse stanze degli ospiti al piano di sopra e in ognuna di esse è presente un camino,” si affrettò ad aggiungere e, alla luce morbida che illuminava il salone, a Jim parve che fosse arrossito leggermente.
Il detective si chiese se Harvey non avesse ragione. Se quella sua frase, che Jim gli aveva impedito di pronunciare fino alla fine, non riflettesse il vero.
Se Oswald non provasse qualcosa per lui.
Ciò avrebbe spiegato perché si preoccupasse tanto che lui stesse bene. Avrebbe spiegato tante cose, in realtà. Jim se ne rendeva conto, ma aveva sempre fatto finta di niente. Gli faceva comodo fingere di non averci pensato affatto...
Proprio come gli faceva comodo fingere che dentro di sé qualcosa non fosse cambiato.
“E se restassi qui, sul divano?” domandò, con un filo di voce.
Quello, per lui, rappresentava un compromesso. Un compromesso a cui aveva dovuto pensare, che fosse la perfetta via di mezzo tra l'accettare di fermarsi lì in una delle stanze del piano di sopra e l'andarsene. La sola idea di farlo, se possibile, gli faceva patire ancora di più il freddo.
Oswald sgranò gli occhi, ma alla fine annuì e tornò a guardare le loro mani unite. Gliele stava stringendo piano e le accarezzava con una cura che Jim non credeva possibile, da parte sua. Jim non poteva opporsi a quel contatto, poteva solo lasciarlo fare perché sentiva di averne davvero bisogno. Quelle carezze erano come un balsamo che leniva il freddo che lui avvertiva nel profondo.
Nessuno lo trattava così, come faceva lui… Nessuno. E Jim non era certo di volere che qualcun altro lo facesse. Rendersene conto gli provocò una strana sensazione nel petto.
“Forse starai scomodo sul divano, ma se insisti…” rispose, senza guardarlo negli occhi.
Jim avrebbe voluto avvicinarsi di più, appoggiare la fronte alla sua e inspirare meglio il suo profumo. Quella vicinanza era così pericolosa… così come il fatto che la luce che illuminava la stanza fosse soffusa e creasse un'atmosfera di intimità.
“Se mi dicessi cosa desideri… io farei il possibile per dartelo,” continuò Oswald, e questo lo sorprese. “Fosse una semplice tisana o un aiuto economico per trasferirti. So che stai cercando casa…”
“Non puoi offrirmi una cosa del genere, parliamo di molti soldi,” ribatté Jim, con calma. “E non voglio debiti di quel tipo con te.”
Poteva immaginare che una cosa del genere, a lungo termine, avrebbe creato problemi. Jim non sarebbe mai riuscito a restituirgli una somma ingente di denaro, e col tempo ciò avrebbe creato dell'astio tra loro. Poteva essere uno dei motivi per cui, alla fine, Oswald gli avrebbe sparato… Anche se rifletterci adesso aveva qualcosa di ironico, secondo il detective.
“Allora debiti di altro tipo, tra noi, sarebbero accettabili?” gli chiese Oswald, con aria sorpresa.
“Con quelli sono dovuto scendere a patti da molto tempo,” rispose.
Jim gli aveva risparmiato la vita, appena arrivato a Gotham, e poi era capitato ancora che si salvassero a vicenda. L'ultima volta era stato proprio Oswald a farlo, quando Jim stava per morire congelato. Non avrebbe mai dimenticato quel momento… né il fatto che fosse rimasto a fargli compagnia in ospedale, i giorni successivi.
“Non ci sono debiti tra noi, Jim,” ribatté Oswald.
Non gli aveva ancora lasciato le mani e Jim iniziava a sentirle un po’ più calde, il che era davvero confortante.
Non sapendo come replicare, Jim annuì. Lui comunque non se ne sarebbe dimenticato.
“Mando Olga a prenderti un cuscino e delle coperte. Magari anche qualcosa di caldo da bere,” annunciò, sembrando improvvisamente nervoso.
Oswald gli lasciò le mani prima che Jim potesse reagire in un qualsiasi modo, recuperò il bastone da dove lo aveva appoggiato e uscì.
Il detective sospirò. Voleva restare lì, lo voleva davvero, ma era tutto così dannatamente difficile… E, adesso che Oswald se n'era andato, sentiva già la sua mancanza.
Forse c'era davvero qualcosa che non andava in lui, da quando era stato vittima di Freeze.
Mentre lo aspettava, si alzò per avvicinarsi di nuovo al camino.
Oswald tornò nel giro di un paio di minuti e si posizionò accanto a lui mentre Olga posava sul divano un cuscino e ben tre coperte. Glielo preparò come se fosse un letto e Jim la ringraziò per la premura, anche se si trattava del suo lavoro.
Era strano pensare che, pur potendo tornare a casa propria, sarebbe rimasto a dormire su quel divano. Sul divano di un noto criminale che adesso aveva ripulito il suo nome, almeno all'apparenza, ma che restava comunque un criminale. Restava l'uomo che, un giorno, gli avrebbe sparato.
Jim tornò a sedersi con l'intenzione di mettersi una coperta sulle gambe, e dopo un istante di esitazione fece segno a Oswald di accomodarsi accanto a lui.
Non avrebbe ceduto ai suoi istinti, non avrebbe fatto un errore del genere… ma almeno quello poteva permetterselo, giusto? Stare vicino a lui, ma non troppo, e dividere una coperta… Non stavano facendo niente di male.
“Come vanno le cose con Ivy?” gli chiese.
Jim era grato che avesse trovato un altro argomento di conversazione, che non fosse quel freddo residuo o il loro rapporto. Sperava che ciò avrebbe contribuito a rendere meno strana quella situazione.
“È tutto molto complicato. Un giorno credo di aver finalmente instaurato un legame con lei, quello successivo arriva Selina e quasi la obbliga a scegliere tra noi due,” raccontò, con un sospiro. “Ivy non ha scelto… ma ne ha sofferto.”
“Adolescenti,” commentò Oswald, alzando gli occhi al cielo.
“Già. Entrambe cercano di sembrare toste, ma hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro. Selina forse ha trovato quel qualcuno in Tabitha, qualsiasi sia il loro rapporto, e sono certo che lei non cambierà mai. Ivy invece ha ancora speranza.”
Subito dopo averlo detto, gli dispiacque di aver parlato di Selina in quei termini, ma in effetti era ciò che pensava. Se solo avesse accettato il suo aiuto, o di far entrare Bruce nella sua vita…
Certo, rimaneva il fatto che, ai tempi, a un certo punto il ragazzo era partito senza preavviso per girare il mondo e questo doveva aver spezzato irrimediabilmente il loro rapporto, ma Jim non credeva che bastasse a giustificare chi lei era diventata. La ragazza lo aveva voluto, e con tutte le sue forze.
Quanto ad Ivy, allora era cresciuta troppo in fretta e si era ritrovata per le mani un potere troppo grande. Questa volta non sarebbe successo, semplicemente perché non era possibile senza i mostri di Strange, e Ivy meritava qualcuno che le stesse accanto.
“È molto nobile ciò che stai facendo, Jim…”
Prima di rispondere, il detective si sistemò meglio la coperta sulle gambe.
“Qualcuno direbbe che lo faccio per il senso di colpa, per come è morto suo padre…” commentò amaramente. “Ma non è questo, e non è nemmeno qualcosa di nobile, o un atto di altruismo.”
“Cosa vuoi dire?” gli chiese Oswald, con aria confusa. “Se tu mi dicessi che lo fai con un secondo fine, dubito che ti crederei.”
“Non so perché lo faccio. Ho visto Ivy per strada e non ho potuto fare a meno di pensare che dovevo intervenire… Non lo avevo previsto, ma non importava, e adesso mi sono affezionato troppo per tornare indietro…” ammise, senza guardarlo negli occhi.
Olga tornò nel salone con due tazze, una teiera colma di tisana e, a parte, zucchero, latte e miele. Calò il silenzio mentre la domestica posizionava il tutto sul tavolino basso, davanti a loro.
“Grazie Olga, vai pure a riposarti per oggi,” le disse Oswald, allora lei si congedò con un breve inchino. “Jim, non ho mai avuto a che fare con Ivy, ma deve essere una ragazzina speciale se ha attirato tanto il tuo interesse.”
Jim non rispose subito. Lo osservò in silenzio mentre versava la bevanda calda per entrambi.
“Lei non sorride mai, parla poco e lo fa sempre in modo atono,” commentò, strappandogli una risata trattenuta.
“Come dicevo, adolescenti.”
Anche Jim sorrise. Era sorprendente il fatto che stessero avendo una conversazione normale, e che adesso, qualsiasi cosa Oswald gli dicesse, non lo infastidiva più. Era tutto così diverso rispetto a prima…
Il detective prese la sua tazza e la tenne con entrambe le mani. Il calore della bevanda si diffuse alla sua pelle facendolo sentire meglio. Era presto per berla, scottava ancora, ma con entrambe le mani occupate non avrebbe potuto cedere all'istinto di cercare quella libera di Oswald per far intrecciare le loro dita, da sotto la coperta.
Dopo aver immaginato quella scena, Jim inspirò piano per mantenersi calmo. Il profumo della bevanda rese più dolce l'atmosfera, in qualche modo, ma la sua ferma intenzione di non fare niente di sconveniente era amara… e fredda.
Se ne sarebbe pentito, se avesse fatto una qualsiasi mossa. Dopotutto, non era in sé da quando Freeze aveva congelato parte della città, colpendo anche lui… Non era in sé, altrimenti non avrebbe abbassato tanto le difese in presenza dell'uomo che, in futuro, lo avrebbe ucciso. Non avrebbe desiderato di prendergli la mano, di stringerlo a sé e di sentire il suo calore contro la propria pelle.
Sospirò.
Quello era un momento intimo, dolce, ma allo stesso tempo molto crudele.
Chapter Text
Jim si rigirò tra le mani la tazza di tisana calda.
Ancora non si capacitava di aver deciso di passare la notte a casa di Oswald, sul suo divano. Non era pienamente cosciente di cosa ciò avrebbe comportato, ma per lui accettare l’invito era stato irresistibile, quasi inevitabile.
“Sei tranquillo per le elezioni?” gli chiese.
Non ne avevano ancora parlato, anche se Jim aveva seguito ogni sviluppo in quanto parte dei suoi sostenitori più stretti. Erano le sue emozioni a riguardo, quelle che non conosceva.
“Tutto il contrario,” rispose Oswald, stirando le labbra in un sorriso nervoso. “Temo che sarà una catastrofe e che scoprirò di aver solo sprecato il mio tempo.”
“Provare a cambiare le cose per la città non è tempo sprecato,” dichiarò Jim, e si rese conto che, anche se in modi diversi, stavano entrambi cercando di fare lo stesso. “Io sono sicuro che andrà bene.”
Oswald gli rivolse uno sguardo sorpreso e carico di emozione.
“Lo credi davvero?” domandò, e Jim annuì.
“Hai dimostrato quanto tieni alla città, invece Aubrey James ha avuto molto tempo per dimostrare il contrario,” dichiarò, sicuro a riguardo.
Come ai tempi, Oswald aveva trovato un nemico che gli permettesse di unire i cittadini su un fronte comune e di farsi ascoltare. La sua taglia su Freeze non aveva portato a niente per quanto riguardava la GCPD, ma aveva dato al popolo la chiara dimostrazione della sua volontà di fermare il criminale.
Questo, unito al suo impegno durante la campagna, secondo Jim avrebbe avuto come conseguenza diretta la sua vittoria. Avrebbe potuto scommetterci.
Portò alle labbra la tazza e assaggiò la tisana. Aveva un sapore delicato e piacevole, ma soprattutto riuscì a dargli l’impressione di essersi scaldato, almeno un pochino, già con quel singolo sorso.
Quando abbassò la tazza si accorse che Oswald non aveva smesso di osservarlo, e che lo sguardo che gli rivolgeva aveva qualcosa di intenso.
Jim si schiarì la gola per mascherare il suo improvviso imbarazzo.
“Cosa farai… quando sarai sindaco?”
“Dai già per scontato che vincerò le elezioni?” ribatté Oswald.
“Te l’ho detto, ne sono certo. Allora, cosa farai?”
Il padrone di casa sembrò pensarci su per un paio di secondi.
“Intendo lasciare un’eredità alla città, nel buon nome di mio padre. Voglio che il nome dei Van Dahl significhi qualcosa per Gotham e per i suoi abitanti, così che lui non venga dimenticato.”
Jim, doveva ammetterlo, era sorpreso.
“E come pensi di fare?” gli domandò, senza sottolineare che il loro cognome era diverso, perciò i cittadini non avrebbero fatto subito il collegamento.
“Non lo so ancora, ma penserò a qualcosa. È uno dei miei obiettivi primari,” dichiarò in modo sbrigativo, dopodiché bevve un sorso di tisana.
Jim seguì il suo movimento con lo sguardo e si soffermò sulle sue labbra più del necessario.
“E… quali altri sono i tuoi obiettivi primari?” gli chiese, volendo mantenere la propria mente impegnata con quel discorso.
Conosceva già il suo programma elettorale, quello che aveva presentato ai cittadini. Adesso, però, voleva sapere cosa intendesse fare davvero, per iniziare.
“Ne ho un altro soltanto, ovvero rendere Gotham più sicura.”
Che Gotham fosse più sicura…
Improvvisamente Jim ricordò di aver detto una cosa simile, un po’ di tempo prima. Oswald gli aveva chiesto cosa desiderasse, e lui aveva risposto così.
Solo qualche minuto prima Oswald gli aveva detto di voler realizzare i suoi desideri… Se ci ripensava, Jim si sentiva tremare e non per il freddo. Aveva cercato di non darci peso, sul momento, ma era stato quasi come ricevere una dichiarazione.
E adesso questo.
Il detective ebbe l’impressione che Oswald avesse fatto suo quel desiderio… Anzi, che si fosse candidato al ruolo di sindaco per lui, per ciò che gli aveva detto quel giorno. Non era possibile… Non poteva esserlo. Ma, se era davvero così…
“Qualcosa non va?” gli chiese Oswald, e Jim si accorse di aver schiuso le labbra per la sorpresa.
“No, non è niente. Pensavo solo che vogliamo la stessa cosa,” dichiarò.
Oswald gli offrì un sorriso nervoso, dopodiché bevve un altro sorso di tisana.
Anche Jim fece lo stesso, perché la bevanda ormai non era più bollente ed era meglio che la bevesse fintanto che era calda.
Non ci mise molto a svuotare il contenuto della sua tazza, dopodiché la posò sul tavolino.
Oswald gli rivolse di nuovo lo sguardo, con la stessa intensità di prima, e Jim non poté fare a meno di ricambiarlo. Aveva entrambe le mani libere adesso, il che rendeva ancora più forte la tentazione di fare qualcosa.
E poi successe. Oswald si fece avanti piano, avvicinando il viso al suo, e Jim si sentì bruciare al pensiero di ciò che stava per fare. Lo sguardo di Oswald aveva un che di magnetico, e quando lui lo abbassò sulle labbra di Jim…
Il detective appoggiò una mano sul suo petto, impedendogli di avvicinarsi oltre.
Poi vide Oswald sgranare gli occhi e ritrarre il busto.
“Perdonami, James,” disse, mentre l'imbarazzo diventava leggibile sul suo volto. “Immagino che adesso non ci sia più modo di girarci intorno. C’è una cosa che vorrei dirti.”
Jim avvertì qualcosa agitarsi nel suo petto.
“Vorrei parlare io per primo,” gli chiese, e Oswald gli rivolse un'espressione sorpresa ma poi annuì.
Jim fece scivolare una mano sotto alle coperte e qui trovò quella di Oswald. Fece intrecciare le loro dita guadagnandosi un'occhiata incredula.
“Da quando Freeze ha congelato la città e io sono quasi morto, non mi riconosco più… C'è qualcosa in me che non è più come prima, e me lo spiego solo pensando che sia il freddo a condizionarmi,” ammise e sospirò, perché trovare le parole giuste gli veniva complicato. “Quello che sto cercando di dire è che non voglio prendere nessuna decisione di cui potrei pentirmi… almeno finché mi sento così.”
Jim stava ammettendo la sua debolezza, che aveva cercato in tutti i modi di reprimere e di tenere nascosta… Ovvero il fatto che Oswald non gli fosse indifferente. Che fosse davvero a causa del freddo o meno, solo il tempo avrebbe potuto dirlo.
L'espressione di Oswald si fece smarrita. Dopo un momento che a Jim sembrò infinito, il padrone di casa tese le labbra in un sorriso forzato che non mascherava affatto il suo disagio e abbassò lo sguardo sulle loro mani.
“Allora immagino che dovrò rimandare ciò che ho da dirti,” dichiarò, come se niente fosse.
“Grazie,” rispose Jim, e sperò che Oswald capisse che lui sapeva di avergli chiesto una cosa difficile.
Jim, quando gli aveva chiesto di poter parlare per primo, aveva sentito tre forze distinte combattere dentro di sé.
La prima era la consapevolezza di non poter ricambiare i suoi sentimenti alla leggera, con il rischio di ferirlo e attirarsi il suo odio. La seconda, quella di non poter cedere ai sentimenti che credeva di provare verso l'uomo che un giorno lo avrebbe ucciso. La terza, la più potente e difficile da contrastare, era la volontà di ascoltarlo fino alla fine, di cedere al bisogno che avvertiva nel petto e vedere dove ciò lo avrebbe portato. Vedere se lo avrebbe davvero scaldato, come era certo che sarebbe stato.
Ma Jim non avrebbe ceduto. Non quella sera.
L'atmosfera tra loro ormai si era guastata, così Jim non si oppose quando Oswald dichiarò che era stanco e che sarebbe andato a dormire. Anche lui aveva bisogno di riposo, ma soprattutto di sdraiarsi e infilarsi meglio sotto a quelle coperte, nella speranza che gli dessero un minimo di conforto.
“Dorme sul divano, significa che avete litigato?”
Jim si stava lentamente svegliando quando riuscì a percepire in modo distinto quelle parole, pronunciate da una voce che conosceva e che proveniva, con molta probabilità, da una stanza vicina.
“Vedo che vuoi fare lo spiritoso, Butch,” rispose Oswald. “Adesso vuoi dirmi cosa ci fai qui così presto?”
“Speravo di trovare lui, in realtà.”
A quella frase seguì un silenzio di qualche secondo.
“Quindi sei stato più ottimista di me.”
“Ho solo notato come ti guarda. Comunque non sono qui per farmi gli affari vostri, ma per dirgli una cosa importante.”
Jim decise di smettere di restare lì, tanto non sarebbe più riuscito a prendere sonno. Era già mattina, lo capì perché il salotto era illuminato da una tenue luce naturale, e ormai aveva sentito che Butch aveva qualcosa da dirgli.
“Di che cosa si tratta?” chiese Oswald.
Prima che lui potesse rispondere, Jim entrò nella stanza attraverso la porta lasciata socchiusa. Gilzean sgranò gli occhi, Oswald allora si voltò di scatto ed ebbe la stessa reazione, solo più esagerata.
Poi arrossì adorabilmente sulle guance e sul naso e, anche se Jim si propose subito di non farci caso, non riuscì a fare a meno di pensarci.
“Cercavi me?” chiese, costringendo la sua attenzione su Butch.
Lui si schiarì la gola e al detective parve a disagio, forse perché credeva di aver appena complicato le cose tra di loro. Jim sperava solo che Oswald non si arrabbiasse con lui per questo.
“Purtroppo si tratta di Barbara. Come avevi previsto, è fuori da Arkham e si è stabilita alla villa di Falcone, da me e Tabitha.”
Jim corrugò la fronte e iniziò a pensare alle possibili conseguenze del suo ritorno.
Ai tempi, Barbara era uscita da Arkham ed era tornata a cercarlo. Poi, essendosi riunita con Tabitha, aveva preso in gestione il night club con lei. Quello era stato l’inizio della sua ricerca del potere, un bisogno malato che non l’aveva abbandonata mai. Adesso però le cose erano ben diverse, dato che era ancora Oswald a gestire il Lounge, anche se forse non direttamente.
“Quando è successo?”
“Ieri sera. Pare che prima ti abbia cercato a casa tua, ma dato che non c'eri è andata da Tabi. Ti avverto, è ancora ossessionata da te.”
Jim annuì, consapevole di questo. Non si era aspettato che Butch lo avrebbe avvisato, ma gliene era grato.
In compenso, Oswald strinse i pugni e sembrò farsi teso. Non ce l'aveva con il suo sottoposto, era chiaro. La causa del suo fastidio doveva essere Barbara.
“Starò attento, ma voi non fidatevi di lei. Dico a tutti e due,” sottolineò, spostando lo sguardo sul padrone di casa.
Ricordava come Barbara, ai tempi, avesse ucciso Butch. Lui non lo aveva saputo subito, era stata lei stessa a raccontarglielo molto tempo dopo, e Jim non aveva faticato a crederle. Poi Butch era tornato, si diceva a causa delle acque reflue di Indian Hill, ma in quella linea temporale non era mai stato riportato in vita nessuno nel laboratorio. Non avevano avuto il tempo di sperimentare abbastanza perché Jim li aveva fatti chiudere.
Ciò significava, forse, che se fosse morto sarebbe stata davvero la fine per lui.
E Barbara - Jim ne era sicuro - a un certo punto avrebbe cercato di ottenere il potere, a costo di uccidere chi le era più vicino.
“Vi fermate per colazione, dato che siete entrambi qui?” propose Oswald, dopo un attimo di esitazione.
“Io ho già mangiato, ma un caffè non lo rifiuto,” rispose Butch, dopodiché rivolse a Jim uno sguardo curioso.
Il detective non capiva perché Oswald, ai tempi, avesse deciso di uccidere quell’uomo. Lo aveva fatto per vendicarsi di Tabitha, certo, ma si stava dimostrando un ottimo sottoposto. Forse persino un buon amico, dato che Oswald stesso lo aveva già definito così.
La sua volontà di vendicarsi era davvero abbastanza per fargli decidere di buttare all’aria tutto il resto?
Inoltre Butch non era mai stato davvero interessato al potere, secondo Jim. Nel breve periodo in cui lo aveva avuto, dopotutto, lo aveva lasciato nelle mani di Tabitha. Insomma, se trattato bene gli sarebbe rimasto fedele, o almeno questo era ciò che credeva Jim.
Il detective si chiedeva se non ci fosse un modo per salvare anche lui. Lo aveva pensato anche perché, ora che ci aveva a che fare, stranamente non lo trovava tanto male. Inoltre era pronto a scommettere che non sarebbe mai diventato un elemento pericoloso per la città.
“Devo andare da Ivy, ma non cambierà molto se ritardo di qualche minuto,” dichiarò, perché in effetti non aveva stabilito un orario fisso in cui andare a farle visita.
Dopotutto, era domenica. Intendeva trascorrere con lei il resto della mattinata ed era certo di avere ancora molto tempo a disposizione, perciò sarebbe potuto restare ancora un po’ in quella casa, accanto a Oswald, sperando che ciò non provocasse disagio a entrambi.
Inutile dire che la colazione preparata da Olga si rivelò deliziosa, il che era problematico. Sì, perché Jim adesso aveva fin troppi motivi per desiderare di non lasciare quella villa, o almeno per tornarci più spesso: camini in ogni stanza e cibo delizioso, per nominarne un paio.
Comunque si sforzò di mangiare in fretta, perché si era trattenuto lì fin troppo e non si sentiva completamente a suo agio.
In un certo senso, la sera prima aveva fatto capire a Oswald di provare qualcosa per lui… ma di voler aspettare, per capire cosa volesse davvero. Ciò non era previsto e avrebbe complicato molto le cose, Jim ne era certo.
“Dimmi quello che vuoi, Jim, ma io sono ancora incredulo,” commentò Harvey, mentre lo aiutava a trasportare i suoi scatoloni.
Erano passati alcuni giorni da quando Jim si era fermato a dormire da Oswald. Aveva appena vinto le elezioni, il che per lui era stato ovvio, ma Harvey non riusciva ancora ad accettarlo.
Ne stavano parlando proprio mentre lo aiutava a traslocare.
Jim aveva finalmente preso un appartamento in affitto, il che aveva messo a dura prova il suo conto corrente, ma non se ne sarebbe preoccupato per il momento. L’importante era che lui e Ivy avrebbero avuto una casa adatta, per quando l’avrebbero dimessa, il che ormai sarebbe successo tra poco.
L’appartamento non era poi molto distante da quello dove avevano vissuto finora, il che significava che le sue abitudini non sarebbero cambiate troppo. Stessa strada per andare al lavoro, stesso quartiere che conosceva bene.
Non era molto grande, ma non era questo il punto. Il punto era che aveva una stanza più che adeguata per la ragazzina. Una camera molto semplice, in realtà, ma Jim le avrebbe permesso di decorarla a suo piacimento, possibilmente quando avrebbe avuto un po’ più di soldi a disposizione. Era già un miracolo che non avesse dovuto chiedere un prestito per potersi trasferire.
Intanto aveva scelto per lei un copriletto verde, il che era già qualcosa.
Inoltre stava meditando di comprarle una pianta, che immaginava sarebbe stata solo la prima di molte, dato che non avrebbe potuto darle ciò che sognava, ovvero un giardino.
Ma Jim decise che non c’era alcun problema nel riempire la casa, o meglio la sua stanza, di piante. Poteva andare peggio, poteva avere la passione per gli animali. Quelle almeno non sporcavano in giro e non avevano bisogno di essere nutrite, ma solo di essere annaffiate, perciò era certo che sarebbe riuscito a rimanere a galla economicamente.
Ormai tutte le loro cose erano nella nuova casa, e lui aveva già riconsegnato le chiavi di quella vecchia al proprietario, quindi il grosso del lavoro era fatto. Non restava che mettere tutto in ordine… nella speranza di riuscirci prima dell’arrivo di Ivy, così da poterle presentare l’appartamento al meglio. Sperava che le piacesse… e che Selina non le mettesse in testa altre strane idee, dopo quella volta in cui avevano litigato in ospedale.
Sospirò.
“Tutto okay, Jim? Ti vedo pensieroso,” disse Harvey, dopo aver posato l’ultimo scatolone nel soggiorno.
“Mi stavo solo chiedendo se andrà tutto bene,” ammise. “Spero che Ivy non cambi idea e non mi renda la vita impossibile…”
Ecco, lo aveva detto, anche se non credeva che si sarebbe arrivati a tanto. Però era anche vero che Ivy era un’adolescente, e che aveva dei problemi da risolvere, come la sua paura di essere abbandonata. Inoltre, ai tempi era diventata una pericolosa criminale in grado di usare le piante per manipolare le persone, e non solo.
Jim non credeva che sarebbe successo, in questa linea temporale. Sperava di poterlo evitare… e si sarebbe impegnato al massimo per riuscirci. Non avrebbe mai deciso di prenderla in casa con sé, se non fosse stato determinato.
“Non succederà,” ribatté Harvey, mettendosi a sedere sul divano. “Ormai è fatta. L’assistente sociale deve solo vedere la casa, no? E Ivy ha deciso da un pezzo.”
Jim annuì. Era vero, Bethany Miles avrebbe visitato l’appartamento ancora prima di Ivy, ecco perché dovevano finire di riordinare in fretta.
Harvey sapeva che Ivy probabilmente non voleva avere a che fare con lui, dato che era stato lui a sparare a suo padre. Questo sarebbe stato un altro problema da affrontare, o qualcosa da rispettare e da gestire, a seconda di come si sarebbe comportata a riguardo.
Ecco perché il suo migliore amico era cauto quando si parlava di lei. Rispettava l’intenzione di Jim di prenderla con sé, ma sapeva di non potersi intromettere davvero. Quindi, per quanto riguardava la ragazzina, Jim doveva pensarci da solo.
Ciò che Jim non gli aveva mai detto era tutto ciò che riguardava l’Ivy Pepper che lui aveva conosciuto ai tempi.
Non voleva che Harvey pensasse male di lei, o che la guardasse con sospetto. Sperava che la considerasse solo una ragazzina normale, come tante altre… non come la criminale che sarebbe potuta diventare.
Non come la criminale che non sarebbe mai diventata, o almeno era questo che Jim sperava.
Ecco perché credeva che non avesse senso parlargliene.
Se tutto fosse andato come previsto, Ivy stava per diventare ufficialmente una sua responsabilità. Stavano per diventare una famiglia, anche se Jim non si considerava affatto un padre sostitutivo o qualcosa del genere. Sperava che lo vedesse proprio come un tutore, o come uno zio magari. Come qualcuno su cui fare affidamento, sicuramente.
Ma l’inizio di quel nuovo percorso con Ivy non era l’unica delle sue preoccupazioni. C’era qualcos’altro che occupava spesso i suoi pensieri, e di questo forse poteva parlare con Harvey, ma significava aprirsi riguardo ai propri sentimenti. E Jim, in un certo senso, sentiva di averne bisogno.
Era qualcosa che gli sarebbe venuto assolutamente difficile, ma che lui necessitava di esprimere a parole non solo per sentire un parere esterno, ma soprattutto per fare chiarezza dentro di sé.
“C’è altro che ti preoccupa?” gli domandò il suo amico, che doveva averlo capito solo guardandolo.
“In effetti sì, ma… è un bel casino,” rispose e sospirò.
Prima di spiegarsi si mise a sedere sulla poltrona, alla sua destra. Come fare ad affrontare un argomento del genere?
“Immagino che avrai sentito che le vittime di Fries si portano dentro una specie di freddo residuo, che non passa in nessun modo…” iniziò, e Harvey annuì con aria confusa. “Lo sento anche io, come avrai capito. Sto meglio ogni giorno che passa, ma da quando lo sento mi sembra di non essere completamente padrone di me stesso.”
Jim si passò una mano tra i capelli in un gesto nervoso. Era stato così difficile ammetterlo, eppure non aveva ancora detto niente.
“Cosa vuoi dire?” gli chiese Harvey, e lui lesse della preoccupazione nel suo sguardo.
“Qualche sera fa ero da Oswald,” rivelò, decidendo che sarebbe andato dritto al punto. “Non so come sia successo, ma lui stava per baciarmi e io stavo per lasciarglielo fare…”
Jim aveva spostato lo sguardo altrove per paura della sua reazione, ma non ricevendo subito una risposta guardò il suo amico e vide che aveva sgranato gli occhi. Poi la sua espressione si fece schifata.
“E cosa c’entra questo col freddo di cui mi parlavi prima?”
“C’entra perché mi fa desiderare il contatto con qualcuno. E non è solo una questione fisica, c’è una specie di disperazione dentro di me. È… difficile da spiegare,” sottolineò, con un sospiro.
“Se vuoi andare a letto con qualcuno posso portarti in un posto.”
“Non è questo. Non credo di volerlo,” precisò, corrugando la fronte. “E non cerco il contatto con nessun altro. Né con… belle donne, né con Lee quando la vedo al lavoro…”
“Stai cercando di dirmi che ti piace Cobblepot?” chiese Harvey, alzando leggermente la voce.
Era chiaro che fosse molto sorpreso.
“Ti rendi conto di quanto sarebbe ironico se fosse così?” ribatté Jim, che non sapeva ancora cosa pensare. “Per questo penso di essere impazzito, e che la causa sia Freeze.”
“No, Jim, sarebbe troppo facile. Stai dando la colpa a Freeze perché Cobblepot ti ha salvato la vita e da allora lo guardi con occhi diversi.”
Ricevere quella risposta da Harvey fu come prendere uno schiaffo sul viso. Jim non replicò, trovandosi improvvisamente a corto di parole. Forse era davvero così, e forse c’era una parte di lui che lo sapeva bene.
“Assurdo… Prima non fai che ripetere che un giorno lui ti ucciderà, e poi te lo fai piacere?”
“Non me lo sono… fatto piacere,” sottolineò, con una punta di indignazione nella voce.
“Avevi ragione, è un bel casino. Jim, può piacerti chi ti pare, per quel che frega a me, ma stavolta si tratta di un territorio pericoloso,” commentò.
Territorio pericoloso… Harvey aveva detto così, eppure non sapeva quali erano tutti i suoi trascorsi con Lee, che lui stava riscrivendo. Anche ciò che era successo tra loro due non era uno scherzo. Certo, infatuarsi di Oswald era su tutt’altro livello.
“Sei un detective, sai quanti omicidi hanno motivazioni passionali,” puntualizzò Harvey. “Che tu voglia uscire con lui o meno, abbiamo buone probabilità di sapere per quale motivo ti ucciderà. Dopotutto, lui è pazzo di te.”
Ecco, l’aveva detto. Jim non aveva fatto in tempo a impedirglielo, questa volta, il che sembrava rendere il tutto ancora più reale e problematico.
Ma una parte di lui ne era felice. Quella parte di lui avrebbe voluto dimenticare tutto il resto e cedere al bisogno che sentiva crescere nel petto ogni volta che era in sua compagnia.
“So che hai ragione. Sul fatto degli omicidi, intendo,” specificò, ignorando la sua ultima frase. “Vorrei solo che questo freddo passasse, così magari potrò iniziare a capirci qualcosa.”
“Quindi per ora non vuoi fare niente?” domandò Harvey, sollevando le sopracciglia.
“Già. Gli ho detto che non sto ancora bene e non riesco a capire cosa voglio davvero,” ammise.
“Allora ne avete parlato… Cazzo, sei in una brutta situazione. Ora aspetterà una tua risposta, non potrai fare finta di niente.”
“Lo so,” disse e sospirò.
Era vero, si trovava proprio in una brutta situazione.
Per come stavano le cose adesso, Jim pensava spesso a lui e avrebbe voluto seguire il suo cuore. Il suo cuore che però sembrava congelato e condizionato da questo.
Nel corso degli ultimi giorni, si era domandato quali sarebbero state le conseguenze nel caso in cui avesse ceduto. Forse sarebbe riuscito a mantenere Oswald sulla retta via, dato che lui conosceva i suoi valori morali e sapeva che non avrebbe tollerato certi comportamenti da parte sua.
E forse quel gelo si sarebbe sciolto definitivamente, e il solo pensiero faceva tremare Jim di impazienza, perciò cercava di non vagare troppo con la mente.
O magari, al contrario, Jim si sarebbe messo in una situazione ancora più scomoda e sarebbe morto molto prima del previsto. E, cosa ancora peggiore, in questo modo non sarebbe riuscito a portare avanti il suo piano per salvare la città.
Era davvero troppo complicato.
In quei giorni, Jim aveva riflettuto anche su cosa avrebbe potuto mantenere Oswald lontano dai crimini maggiori e quindi anche fuori dal radar della GCPD, a prescindere da lui. Si era chiesto se ci fosse una strada sicura da percorrere e, anche se aveva capito che nessuna via sarebbe stata davvero sicura, una possibilità gli era venuta in mente.
Si era ricordato di Martin.
Quel ragazzino, entrato nella vita di Oswald con l’arrivo di Sofia Falcone, era stato quasi un figlio per lui. Oswald era arrivato a inscenare la sua morte e a mentire per proteggerlo, finendo persino in carcere. E poi, una volta che era riuscito a salvarlo dalle grinfie della figlia di Carmine Falcone, lo aveva fatto sparire.
Tutti questi fatti Jim li aveva appresi tempo dopo, perché lui e Oswald erano ai ferri corti allora.
Quel ragazzino era stato mandato lontano, probabilmente, e forse non sarebbe tornato a Gotham mai più, perché lì non sarebbe stato al sicuro. Infatti, anche durante i dieci anni che Oswald aveva trascorso a Blackgate, non c’era stata più alcuna notizia di Martin.
Però Jim sapeva che Oswald teneva molto a lui.
Si domandava se la sua presenza non potesse essere un toccasana per lui già adesso. E, a questo proposito, si domandò dove si trovasse quel bambino. L’orfanotrofio Falcone non esisteva ancora, e se tutto fosse andato secondo i piani di Jim forse non sarebbe esistito mai, perché Sofia non avrebbe avuto motivo per tornare a Gotham. O non lo avrebbe avuto tanto presto, almeno.
Martin quindi sarebbe rimasto da tutt’altra parte… Ovvero dove? Dov’era adesso? Non poteva essere uscito dal nulla, doveva trovarsi in qualche altro orfanotrofio della zona.
Jim si era proposto di fare ricerche a riguardo, pur potendosi limitare solo ai dintorni di Gotham e conoscendo soltanto il suo nome. Ma se lo avesse trovato… allora avrebbe potuto avere la chiave per cambiare davvero le cose.
Non per salvarsi dalla morte, forse, ma per aiutare Oswald fornendogli un motivo valido per non mettersi nei guai, evitando così che finisse nel mirino della legge.
Era in anticipo di due anni, ma doveva provare a trovarlo.
Quanto al pensiero che voleva dare un bambino in pasto a un criminale, Jim ne era stato sfiorato solo per un istante. Tra loro c’era stato un legame, ai tempi, e il detective sperava che si ricreasse in modo naturale. Sapeva che c’era questa possibilità, voleva crederci.
Dopotutto, se certe persone non erano davvero legate dal destino, allora non si spiegava il fatto che Lee e Mario si erano trovati, anche se le cose erano andate diversamente, questa volta. Anche se lei aveva lasciato Gotham per meno tempo, in un periodo diverso e per motivi diversi.
Forse Oswald poteva essere per Martin ciò che lui stava cercando di diventare per Ivy. Forse era ciò che sarebbe servito anche a lui per darsi delle priorità diverse.
Secondo Jim, valeva la pena di tentare.
Chapter 17
Notes:
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Chapter Text
Era fatta, Bethany Miles aveva visitato la casa e confermato che era adatta. Adesso Jim era diventato ufficialmente il tutore legale di Ivy.
Inoltre era giunto il momento che la ragazza lasciasse l’ospedale e vedesse il nuovo appartamento. Era stata ricoverata a lungo, ma alla fine era stato un bene. Jim era grato che non fosse stata mandata in una qualche struttura, nell’attesa che lui potesse prenderla con sé, perché era certo che sarebbe stato un duro colpo per lei.
“Siamo arrivati,” le disse, e aprì la porta.
Le fece segno di entrare per prima e lei mantenne un’espressione neutra mentre lo superava. Jim rimase sull’uscio e la guardò esplorare il soggiorno e la cucina con aria curiosa, poi la seguì lungo il corridoio, la vide guardare dentro al bagno e finalmente nella sua stanza. Qui si soffermò di più, entrandoci con passo lento e cauto.
“Questa camera è per me?”
A Jim parve che la sua voce fosse tinta da una nota diversa rispetto al solito. Era emozionata, forse.
Quando si voltò verso di lui, il detective si sorprese nel vedere uno dei suoi rari sorrisi, che erano sempre poco accennati. Era come se non si lasciasse mai andare a certe dimostrazioni, come se non credesse di poter essere felice. Beh, lui era determinato a farle cambiare idea su questo.
“Esatto. Potrai abbellirla come preferisci,” le rispose.
Lei non disse altro. Si avvicinò al davanzale della finestra, dove lui aveva posizionato una pianta. Aveva chiesto al fiorista di mettere un fiocco intorno al vaso, perché fosse chiaro che si trattasse di un regalo, e fu felice di vedere la ragazza che l’ammirava da vicino.
Nella stanza, oltre al letto e all’armadio, c’erano anche una scrivania dove lei avrebbe potuto fare i compiti e una piccola libreria. Jim sospettava che avrebbe riempito i ripiani di piante anziché di libri, ma le sue letture sulla botanica erano già state inserite lì, nel caso lei volesse consultarle di nuovo.
“È bellissima,” disse, e lui non seppe se si riferiva alla camera o alla pianta, ma comprese che era il suo modo di dire grazie.
“Sono felice che ti piaccia.”
Avevano ancora tante cose di cui discutere, tra le quali c’era anche la scuola, che lei avrebbe dovuto frequentare a partire dalla settimana successiva. Jim l’aveva iscritta e aveva comprato i libri e il resto del materiale necessario, il che aveva rappresentato un’altra spesa ingente, ma necessaria.
Dannazione, gli mancava il suo stipendio da commissario…
Per il momento decise di lasciarla da sola a esplorare la sua nuova camera, rimandando le altre questioni a dopo. Avrebbero potuto parlarne durante il pranzo.
Era già venerdì e quella sera ci sarebbe stata la festa per la vittoria delle elezioni di Oswald. Jim voleva restare con Ivy, trattandosi del suo primo giorno nella casa nuova, ma gli aveva promesso di esserci. Anche perché il lunedì successivo, quando lui avrebbe fatto visita a una scuola, Jim non sarebbe stato al suo fianco, dovendo accompagnare Ivy per il suo primo giorno.
Jim ricordava quanto Oswald fosse irascibile, anche se adesso cercava di avere un comportamento più moderato, e sapeva di avere già una spada che pendeva sulla propria testa. Non voleva peggiorare la situazione.
Trascorse la giornata a casa e affrontò l’argomento scuola con Ivy. La ragazza la prese stranamente bene, forse perché gliene aveva già parlato l’assistente sociale, o forse perché si era ormai rassegnata all’idea di doverla frequentare.
Quando si fece sera, suo malgrado, Jim si preparò per uscire e le fece le dovute raccomandazioni.
“Davvero non posso venire?” si lamentò lei, dal divano.
“Se l’assistente sociale scoprisse che ti ho portato in un posto del genere, sarebbe la fine,” sottolineò Jim, che sperava capisse.
“Ma Selina ci andrà.”
Selina… Eccola pronta a dare il cattivo esempio e a portare Ivy su una pessima strada. Lui non si aspettava niente di diverso, in effetti.
“Se la vedo, le dico di venire qui da te.”
“Sul serio?” chiese lei, sembrando sorpresa.
“Sì. Anche Selina è troppo piccola per entrare in un night club, sarebbe meglio se stesse qui. Nel caso venisse, guarda dallo spioncino prima di aprire la porta e aprila solo per lei. Poi chiudi a chiave.”
Ivy annuì. Sembrava che non avesse nient’altro di cui lamentarsi.
Jim sapeva di poterle affidare la casa, anche se gli dispiaceva lasciarla sola, quindi uscì. Non intendeva stare via molto.
Il Lounge, quella sera, era popolato da moltissime persone, tra le quali c’erano giornalisti e personalità influenti di Gotham. Gabe, che si trovava all’ingresso, lo fece entrare senza che dovesse fare la fila, perché ormai era abituato a vederlo al fianco del suo capo. Jim quindi iniziò a cercare Oswald e non ci mise molto a trovarlo.
Era al centro della sala e stava salutando alcuni degli invitati. Era raggiante e ben vestito come al solito, ma per qualche motivo Jim rimase colpito dal suo aspetto. Anche da quella distanza, non riusciva a togliergli gli occhi di dosso… Ma scacciò a forza quel pensiero.
Al suo fianco c’era Butch Gilzean, che aveva nominato capo del suo staff, ed era probabile che da qualche parte ci fosse anche Tabitha in quanto sua accompagnatrice.
Jim sperava solo che non si fossero portati dietro Barbara.
La sua ex lo aveva cercato al lavoro, non conoscendo il suo nuovo indirizzo di casa, e Jim aveva ascoltato marginalmente le sue chiacchiere su quanto fosse cambiata e quanto lo amasse ancora. Poi l’aveva congedata con tatto, sperando di non vederla almeno per un po’.
Avere a che fare con lei era stata un’ulteriore conferma del fatto che lui non cercasse il contatto fisico con chiunque. Il gelo che sentiva dentro, e che a volte sembrava potesse sciogliersi solo grazie al contatto con qualcun altro, non lo aveva spinto ad avvicinarsi a Barbara, né a Lee, né a nessun altro.
E questo sembrava sottolineare che a lui, a tutti gli effetti, piaceva Oswald. Era un bel guaio… E anche il fatto che ormai non potesse fare finta di niente, proprio come aveva detto Harvey, era un problema.
“Jim!” lo chiamò qualcuno, e voltandosi vide che si trattava di Bruce.
Doveva essere lì in rappresentanza degli Wayne, perché la sua era la famiglia più ricca di Gotham, ma per Jim fu comunque strano vederlo in un locale di quel tipo. Non solo perché si trattava del club di Oswald, ma perché era minorenne.
Con lui, come sempre, c’era Alfred.
Era bello vedere delle facce amiche in quella bolgia di gente, e poter scambiare due chiacchiere in leggerezza. Bruce era stato un po’ scontroso nell’ultimo periodo, ma sembrava più tranquillo adesso, il che era un sollievo.
“Per caso hai visto Selina?” gli domandò Jim, dopo un po’.
“No. Perché, è qui?” chiese il ragazzo, corrugando la fronte.
“Secondo Ivy sarebbe venuta,” spiegò. “Sono diventato il tutore di Ivy,” aggiunse, e Bruce gli rivolse un’espressione sorpresa.
“E perchè cerchi Selina?” gli chiese, anziché commentare.
“Preferirei saperla a casa mia con Ivy piuttosto che qui a rubare,” ammise, certo che si trovasse lì per quel motivo.
A meno che Tabitha non avesse deciso di portarla con sé perché si creasse i suoi primi contatti tra i criminali, il che forse era anche peggio.
“Se la vedo te lo faccio sapere,” gli garantì Bruce.
Jim salutò entrambi per andare da Oswald, perché in effetti si trovava lì per lui e, se davvero voleva andare via presto, sarebbe dovuto restare un po’ in sua compagnia, prima.
Quando Oswald si congedò dall’uomo con cui stava parlando e lo vide, subito gli rivolse un sorriso luminoso.
“Ehi Jim,” lo salutò per primo Butch.
Anche lui sembrava molto contento per l’esito delle elezioni e per come stesse procedendo la serata. O forse era il posto di capo dello staff a piacergli particolarmente.
Ai tempi, Jim ricordava che quel ruolo era andato a Nygma, e questo doveva essere stato causa di dissapori, visto il casino che ne era scaturito. Ora quel problema non c’era, perché Edward era rimasto nel posto che gli spettava, ovvero ad Arkham.
“Vado a cercare Tabitha,” annunciò Gilzean subito dopo, lasciandoli soli.
“Jim… Sono felice che tu sia venuto,” disse Oswald.
“Non potevo mancare,” gli rispose.
Si erano visti poco, in quei giorni. Jim non lo aveva evitato o qualcosa di simile, anzi era stato presente nelle occasioni ufficiali, ma aveva avuto molto da fare e ciò gli aveva permesso anche di riflettere su quello che provava. Purtroppo la conclusione a cui era giunto non era stata rassicurante e lui non riusciva ancora ad accettarla.
Sentiva ancora quel freddo dentro di sé e, ora che era vicino a Oswald, qualcosa gli suggeriva di annullare le distanze che li separavano e bearsi del suo calore. Ma non avrebbe ceduto all’istinto, e non l’avrebbe certo fatto in una stanza piena di gente.
“Ancora congratulazioni per la vittoria,” aggiunse.
Oswald stirò le labbra in un sorriso che tradiva dell’imbarazzo.
“È anche grazie a te se ci sono riuscito…”
“No, io non ho fatto niente,” ribatté Jim, sicuro di ciò.
“Invece sì. Mi hai dato fiducia e per me è stato molto importante,” dichiarò e gli rivolse uno sguardo intenso.
Jim credeva davvero che non avesse avuto bisogno di lui. Che la fiducia necessaria l’avesse già, a prescindere. Però era vero che Jim aveva espresso più volte il suo pensiero riguardo alle elezioni, ovvero la certezza che lui avrebbe vinto. Forse era a questo che si riferiva Oswald.
“Mi scusi, signor Cobblepot,” disse uno dei camerieri, poi si avvicinò ulteriormente per sussurrargli qualcosa all’orecchio.
“Sembra che sia sorto un problema in cucina, torno subito,” spiegò a Jim.
“Vengo con te,” rispose, e lo seguì a qualche passo di distanza.
Era grato che il cameriere li avesse interrotti, perché Jim quella sera si sentiva a corto di parole. Avrebbe voluto davvero stringerlo a sé, dimostrargli con i fatti ciò che provava, mandando all’aria i suoi buoni propositi. E infatti lo aveva seguito perché non voleva separarsi da lui e, nell’attesa del suo ritorno, dover intrattenere conversazioni con dei semi-sconosciuti mentre, segretamente, affrontava quel tumulto interiore.
Rimase sulla porta mentre Oswald parlava con i cuochi e, quando lo vide tornare, restò in attesa in corridoio.
“Tutto risolto?” gli chiese, con poco interesse per la questione.
“Sì, era un problema di poco conto,” rispose.
Jim annuì.
Si stava bene lì, in quel corridoio di servizio dove non passava nessuno. Erano soli e c’era calma, perché la musica del locale si sentiva lontana e soffusa. Gli sarebbe piaciuto restarci ancora un po’…
Con la coda dell’occhio Jim notò Butch che entrava dalla porta. Istintivamente prese Oswald per una mano e lo tirò con sé in un corridoio laterale, che rimaneva in penombra. Lo spinse piano contro una delle pareti e si mise davanti a lui, guadagnandosi un’occhiata sorpresa.
“Che succede?” esalò.
“Ssh, c’è Butch,” gli disse Jim, sottovoce.
Un paio di secondi dopo, Gilzean li superò senza notarli e varcò la porta della cucina.
“E quindi?” gli chiese Oswald, con una punta di divertimento nella voce.
Tornando a guardarlo, Jim si accorse che Oswald gli stava rivolgendo un sorriso furbo.
“Niente… Ho agito senza pensare,” ammise.
Trovandosi così vicino a lui, però, Jim non si pentiva di averlo fatto. Gli occhi di Oswald erano puntati nei suoi e le sue labbra erano a portata di bacio. Era difficile restare a quella distanza ravvicinata senza fare niente… Gli ci volle davvero molta forza di volontà.
Ma anche poter inspirare bene il profumo di Oswald aveva un che di confortante.
“James… Inizio a credere che tu ti stia trattenendo,” dichiarò, prendendogli una mano. “Perché?”
Il suo tono era dolce e il suo sguardo era intenso, magnetico. Il calore che proveniva dalla sua mano sembrava scaldare Jim nel profondo, anche se era flebile in confronto con il freddo che sentiva dentro.
“Perché non sono ancora sicuro di ciò che voglio,” disse, ma in realtà c'era anche il fatto che Oswald lo avrebbe ucciso, in futuro. “E non voglio ferirti… e farmi odiare da te…”
Era vero, a prescindere da ciò che si aspettava dal futuro, questo proprio non lo voleva.
“Io non potrei mai odiarti,” gli rispose Oswald, senza smettere di guardarlo.
Appoggiò la mano libera sul suo petto e Jim si agitò al pensiero che forse sarebbe stato in grado di sentire quanto batteva veloce il suo cuore, sotto agli strati di vestiti pesanti che indossava.
“James… Io sono innamorato di te.”
Il detective si sentì tremare, travolto dall'intensità di quei sentimenti pronunciati per la prima volta, ma che erano già nell'aria da tempo.
Portò la mano libera sulla schiena di Oswald e cedette all'istinto di stringerlo a sé. Poterlo sentire tanto vicino, mentre anche lui ricambiava l'abbraccio e gli trasmetteva un po’ di calore, fu incredibile. Respirare il suo profumo da così vicino gli dava alla testa...
Ripensando al passato, a tutto ciò che aveva fatto e che ora avrebbe potuto cambiare, era certo che non avrebbe ritentato la sorte con Lee, con Valerie e con nessuna delle altre. Non si sentiva più legato a loro e non trovava alcun motivo per riprovarci. Gli sembrava uno spreco inutile di forze e di tempo in un periodo in cui non si sarebbe potuto permettere distrazioni.
Con Oswald, però, era diverso.
Jim non lo aveva mai considerato come un possibile partner in senso romantico e il loro rapporto non aveva fatto altro che incrinarsi, finché alla fine non si erano ritrovati ai ferri corti. Finché Oswald non gli aveva sparato su quel molo, uccidendolo.
Allora perché adesso Jim si sentiva impazzire al pensiero che lui lo amava? Al pensiero che lui si trovava tra le sue braccia, e che quel contatto gli stesse dando così tanto conforto?
Sapere che non sarebbe stato il caso di assecondare tali sentimenti e di cedere ai propri, considerando ciò che li attendeva in futuro… era qualcosa di davvero crudele.
Jim non era mai stato uno che aspettava, e in questo caso non si trattava solo di aspettare, ma anche di negare sé stesso. E, se sarebbe riuscito a farlo quella sera… beh, era certo che non ci sarebbe riuscito per sempre.
Dopo un po’ sentì che Oswald aveva iniziato ad accarezzargli la schiena.
“Spero che questo non sia un abbraccio volto ad addolcire il tuo rifiuto,” disse, con una punta di imbarazzo nella voce.
Jim sentì come se il suo cuore fosse stato stretto in una morsa. Sciolse leggermente l'abbraccio, giusto quanto bastava per poterlo guardare in faccia. Così scoprì che era arrossito e che aveva gli occhi lucidi.
“Non è questo,” ribatté, senza però rispondere davvero alla sua dichiarazione.
“Allora… se provi anche solo lontanamente ciò che provo io… lasciati andare,” gli chiese, e per Jim la tentazione fu davvero forte.
Mentre pronunciava quelle parole, Oswald aveva spostato una mano per accarezzare la guancia sinistra di Jim. Il detective chiuse gli occhi e inspirò piano, godendosi quel contatto e ponderando le sue opzioni.
Era vero, poteva cedere e godersi la serata… Ma davvero Oswald non lo avrebbe odiato, dopo?
No, non poteva… Non doveva…
Non era questione di una singola serata. C’era tanto in gioco, troppo.
Quando riaprì gli occhi, lo trovò a un soffio dalle sue labbra, che aspettava comunque il suo consenso per avvicinarsi più di così… Jim trovò davvero difficile ritrarsi, ma alla fine lo fece… e fu doloroso.
Fosse stato il sé stesso di un tempo, che non conosceva gli eventi futuri, probabilmente non avrebbe resistito tanto. Lo avrebbe baciato lui stesso, spingendolo contro quella parete per tenerlo ancora più vicino a sé.
Jim assaporò l’amara consapevolezza di non averlo fatto mentre leggeva la delusione negli occhi di Oswald.
“Mi dispiace… La mia vita in questo momento è troppo complicata perché io possa semplicemente lasciarmi andare.”
Era stata un’ammissione? Jim non lo sapeva, ma gli aveva detto così perché non voleva ferirlo… anche se era probabile che lo avesse fatto comunque.
Avrebbe voluto stringerlo di nuovo a sé, bearsi ancora del suo calore avvolgente prima di lasciarlo andare definitivamente, per quella sera… E mentre lo faceva, lo avrebbe rassicurato che il suo non era un rifiuto, bensì la manifestazione di un bisogno di aspettare, di capire meglio sé stesso, di valutare con attenzione le conseguenze.
Ma non osò farlo, per non rischiare di cedere alla tentazione di baciarlo davvero.
“Scommetto che Butch cercava te… e io dovrei proprio tornare a casa da Ivy.”
Oswald stirò le labbra in un sorriso nervoso e annuì. Doveva essergli chiaro che Jim stava cercando di scappare.
E così fece.
La sua serata terminò sul divano di casa, con ancora addosso il completo che aveva messo per l’occasione, dividendo una coperta calda con Ivy mentre lei gli faceva domande sulla festa e su Selina, che però lui non aveva visto. Mentre Jim continuava a vagare altrove con il pensiero, trovando impossibile dimenticare ciò che lui e Oswald avevano quasi fatto...
I ragazzi, al liceo, potevano essere dei veri stronzi. Per questo Jim fece mille raccomandazioni ad Ivy, quando la accompagnò a scuola quel lunedì mattina. Le disse anche di provare a sorridere e di essere sé stessa, così sarebbe riuscita a farsi degli amici.
“Non ho bisogno di altri amici,” dichiarò lei subito dopo, in tono atono.
Lui sperava che ci ripensasse.
Sopravvivere al liceo forse era persino più difficile che crescere per le strade di Gotham, e sapere di avere qualcuno su cui contare avrebbe migliorato molto le cose. Inoltre l'unica amica di Ivy era Selina e, per quando lui non avrebbe mai ostacolato la loro amicizia, la riteneva una pessima influenza.
In ogni caso, l’iscrizione di Ivy al liceo rappresentava un nuovo inizio per lei, ancor più dell’aver cambiato casa. Ora sì che sarebbe cambiato tutto.
Notes:
Ci avviciniamo alla fine del primo arco narrativo. Spero che finora la storia vi sia piaciuta! Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate.