Chapter 1: Sabaody Grove 13
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CAPITOLO 1
Sabaody, Grove 13
Il locale era tranquillo, lontano dal frastuono dei cantieri e dalle risate sguaiate dei pirati che riempivano le taverne. Qui, il rumore era quello dei bicchieri che si urtavano piano, e di un vecchio grammofono che graffiava una melodia jazz.
Robin fece scivolare la mano sulla porta e, entrando, lasciò che l’occhio percorresse l’ambiente con calma. Non c’erano che pochi avventori: mercanti, forse cacciatori di taglie poco attenti… e un uomo seduto al bancone, il cappello macchiato di nero e bianco piegato sulla fronte.
Un dettaglio banale per chiunque. Non per lei.
Aveva sentito storie sul chirurgo dei pirati: Trafalgar Law, “Surgeon of Death”, rookie con una testa da centinaia di milioni e una reputazione che camminava più veloce di lui. Non era il tipo che si trovava in un bar elegante per caso.
Scelse un tavolino appartato e ordinò qualcosa di semplice. Si tolse i guanti lentamente, come se ogni gesto fosse parte di un rituale. Sentì uno sguardo su di sé ancora prima di incrociarlo.
Law la osservava. Non apertamente, ma nello specchio dietro il bancone, in quell’angolo in cui i riflessi raccontano più di uno sguardo diretto.
Così è lei, pensò, lasciando che il bicchiere di whisky ruotasse tra le dita. Non immaginava di incontrarla qui. Nico Robin, l’archeologa di Ohara, l’assassina silenziosa di cui anche il Governo parlava a mezza voce. Non era la tipica “rookie”. C’era qualcosa di antico nei suoi occhi, come se portasse con sé secoli interi.
Non servì molto: uno scambio di sguardi, un sorriso quasi impercettibile, e lui si mosse. Si portò dietro il bicchiere, appoggiandosi al bordo del tavolino senza chiedere permesso.
“Non è un posto per turisti.”
La sua voce era bassa, roca, con una sfumatura di ironia.
Robin alzò lo sguardo, accennando appena un sorriso.
“Fortunatamente non lo sono.”
Un silenzio breve, carico di quello che nessuno dei due diceva. Poi Law indicò con un cenno il bicchiere davanti a lei.
“Sake? Pensavo preferisse qualcosa di più… amaro.”
“Ero curiosa di cambiare.”
Appoggiò il gomito al tavolo, chinando leggermente il capo. “Mi sorprende che si interessi ai gusti degli altri.”
Il sorriso che lui lasciò sfuggire non raggiunse mai del tutto gli occhi.
“Solo quando l’altro è interessante.”
Un altro attimo sospeso, come il tempo che precede un colpo di vento. Fu Robin a parlare, questa volta, la voce vellutata ma ferma:
“Allora siamo in due.”
Law prese posto di fronte a lei, senza chiedere. Il suo modo di sedersi era studiato per sembrare casuale, ma non lo era: gambe leggermente divaricate, spalle rilassate, come se dominasse lo spazio senza sforzo.
“Strano vedere la ‘bambina prodigio’ di Ohara così tranquilla, a due passi dalla Marina.”
Non era una domanda. Era un colpo, preciso.
Robin sorrise appena, inclinando la testa come chi valuta se rispondere o meno.
“Strano che un capitano con una taglia così alta sprechi il suo tempo in conversazioni inutili.”
Un lampo negli occhi di Law. Non si offese, anzi: la provocazione lo divertiva.
“Chi ha detto che è inutile?”
Lasciò cadere il bicchiere sul tavolo, facendolo tintinnare piano. “Si scoprono cose interessanti… se si sa ascoltare.”
“E lei è bravo ad ascoltare?”
La sua voce non tremò, ma aveva la morbidezza di un colpo di lama ben affilato.
Law si piegò in avanti, abbastanza da ridurre la distanza ma senza invadere lo spazio.
“Solo quando vale la pena.”
Robin incrociò le dita sotto il mento, il sorriso enigmatico che le danzava sulle labbra.
“E cosa pensa di aver scoperto finora?”
Lui rimase in silenzio qualche istante, gli occhi grigi fissi nei suoi. Poi parlò con una calma che sembrava più minacciosa di qualsiasi arma:
“Che le piacciono i posti dove nessuno fa troppe domande. Che non è qui per caso. E che…” fece scivolare il cappello leggermente all’indietro, mostrando un’ombra di ghigno, “…sta valutando se fidarsi di me o no.”
Robin non rispose subito. Gli piaceva come formulava le frasi, come se pesasse ogni parola. E ha ragione, pensò. Non era lì per caso.
“Interessante osservazione.”
Poi, con un filo di voce più basso, quasi un segreto:
“Si sorprenderebbe di quante cose potrei dire su di lei.”
Per la prima volta, Law rise. Un suono breve, basso, quasi un sospiro.
“Mi piace la gente che osserva.”
Si sporse quel tanto che bastava perché le loro ombre si toccassero sul tavolo. “Ma di solito non mi piacciono le sorprese.”
Robin stava per rispondere quando la porta del bar si aprì con uno stridio secco. Due uomini in divisa bianca entrarono, pistole alla cintura e l’aria di chi non cerca compagnia. Agenti del Governo. Non della Marina, no: Cipher Pol. Robin li riconobbe subito, anche solo dal passo.
Law lo percepì nello stesso istante. Il suo corpo non cambiò posizione, ma i tendini si fecero tesi, pronti. Il sorriso svanì, lasciando spazio a qualcosa di più scuro negli occhi.
“Amici suoi?” chiese piano, senza muovere lo sguardo dal suo.
“Non esattamente.”
Robin alzò il bicchiere alle labbra, il movimento lento per non attirare attenzione. “E non sono i miei unici problemi.”
Law la fissò ancora un secondo, poi si alzò, lasciando cadere qualche moneta sul tavolo.
“Peccato. Stava diventando interessante.”
Si aggiustò il cappello, avvicinandosi a lei quel tanto che bastava per farle sentire il calore della voce. “Ma non mi piace essere interrotto. Continueremo.”
Non aspettò risposta: uscì dalla porta sul retro, lasciandole addosso l’eco delle sue parole. Robin lo seguì con lo sguardo, un sorriso appena accennato sulle labbra.
Continueremo.
Era più una promessa che una possibilità.
Chapter 2: Trust issues
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Trust issues
Robin non mosse un muscolo mentre i due uomini in bianco attraversavano il bar. Non erano qui per bere: lo si capiva dalle mani guantate, dallo sguardo che scandagliava ogni tavolo come una lama invisibile.
Cipher Pol Aigis… numero 0, forse? O qualche sezione intermedia. Non aveva intenzione di restare per scoprirlo.
Portò alle labbra l’ultimo sorso del drink, il gesto lento, controllato, prima di poggiare il bicchiere vuoto e alzarsi. Nessuno avrebbe notato una donna elegante che lasciava il locale senza fretta, non in un posto come quello.
Quando passò accanto ai due agenti, li studiò senza farlo sembrare uno sguardo: troppo rigidi, troppo composti. Professionisti. Sapevano che lei era lì.
Accelerò appena il passo non appena fu fuori. Le strade di Sabaody erano una distesa di luci artificiali e ombre che si muovevano veloci, tra pirati rumorosi e mercanti che urlavano offerte. Si perse nel flusso di gente come una goccia nel mare, mantenendo il volto sereno mentre la mente elaborava uscite, vie di fuga, alternative.
Una voce le passò dietro l’orecchio come un brivido. Non era reale, solo un ricordo fresco:
“Continueremo.”
Robin non si voltò. Non c’era motivo per lui di seguirla, non più. Eppure… qualcosa la costrinse a guardare di lato, verso un vicolo poco illuminato. Un riflesso d’acciaio –forse la fibbia di una cintura, forse un’illusione. Ma sentì la presenza. Silenziosa, distante, come un predatore paziente.
Prese la direzione opposta. Camminò per almeno cinque minuti, finché il rumore della folla non coprì quello dei suoi pensieri. Solo allora lo vide. Non Law, ma un dettaglio impossibile da ignorare.
Sul parapetto di un ponte di legno, tra volantini strappati e carte sporche, c’era un piccolo foglio arrotolato con cura e fermato da una cordicella nera. Un gesto antico, studiato. Non un messaggio lasciato al caso. Robin si guardò intorno: niente occhi addosso. Raccolse il rotolo con naturalezza, come se stesse aggiustandosi la manica, e riprese a camminare senza voltarsi.
Lo aprì solo quando fu in un vicolo tranquillo, riparata dall’ombra di una radice gigante. La pergamena era spessa, il tratto deciso, inclinato, sicuro.
Una sola frase, scritta in un inchiostro scuro:
“Quando smetteranno di inseguirti, resterà solo chi è curioso di sapere perché.”
Niente firma. Non ce n’era bisogno.
Robin abbassò lo sguardo, e fu allora che notò la seconda cosa: un simbolo minuscolo, disegnato in basso. Un cuore, tracciato con una precisione chirurgica. Non romantico: era il marchio di chi non dimentica.
Non poté evitare di sorridere. Non perché fosse rassicurante – non lo era – ma perché quell’uomo giocava con la stessa arma che usava lei: le parole come trappole, i silenzi come fili invisibili.
Lo arrotolò di nuovo, infilandolo tra le pagine del suo libro. E riprese a muoversi. Aveva cose più urgenti a cui pensare… ma la promessa non detta rimaneva sospesa nell’aria, come il filo di una lama.
Continueremo.
E per la prima volta dopo tanto tempo, Robin si chiese se desiderava davvero che fosse una minaccia.
Robin sapeva di averli seminati. O almeno così credeva, finché non sentì il suono secco di un passo dietro di lei, troppo vicino, troppo controllato.
Non si voltò subito. Contò fino a tre, valutando lo spazio, le ombre, i passanti che si diradavano. Era il peggior scenario: una zona quasi vuota, abbastanza isolata da poter sparire senza testimoni.
“Signorina Nico Robin.” La voce era ferma, neutra, ma sotto c’era l’acciaio.
Si voltò lentamente. L’uomo indossava un completo chiaro, l’emblema del Governo appena visibile sotto la giacca. Non aveva bisogno di dichiararsi: il Cipher Pol non portava nomi.
Robin sorrise, cortese, mentre le sue mani restavano rilassate lungo i fianchi.
“Mi dispiace, credo mi stia confondendo con qualcun’altra.”
Lui non rise. Un passo avanti, lento, sicuro.
“Abbiamo aspettato a lungo che uscisse dall’ombra. Non si preoccupi, non le farò male… se verrà con noi.”
Robin si spostò di lato, millimetricamente, facendo sembrare il gesto casuale. Aveva opzioni: un paio di Clutch rapidi e quell’uomo avrebbe smesso di camminare per sempre. Ma le conseguenze sarebbero state immediate: sangue sul legno, urla, caos. E il rumore avrebbe attirato chiunque stesse cercandola.
Poi accadde qualcosa. Una distorsione quasi impercettibile nell’aria, come il tremolio dell’acqua sotto il sole. Non era visibile per chi non sapeva cosa cercare. Robin lo vide. Un bordo sottile di energia azzurra, come un filo sospeso nello spazio.
Una voce, bassa, dietro il suo orecchio, ma proveniente da nessuna parte:
“Non sprechi tempo, Nico-ya”
Il Cipher Pol non parve notarlo. Ma Robin sì. La riconobbe subito. Quella voce.
Trafalgar Law.
“Room.”
La parola fluttuò nell’aria come un segreto che non doveva esistere. All’improvviso il mondo cambiò senza cambiare: stessa strada, stesse ombre… ma l’aria vibrava. Un confine invisibile li circondava.
Robin non si mosse, né si spaventò. I suoi occhi si strinsero appena, valutando, calcolando.
“Allora è così che preferisce farsi ricordare…” mormorò, più a se stessa che a lui.
Un’ombra si staccò dal muro. Law era lì, a pochi passi, mani in tasca, come se nulla fosse urgente. Il cappello calato a nascondere parte dello sguardo, ma non abbastanza: gli occhi grigi scintillavano, taglienti e… curiosi.
“Non ha molto tempo.” La voce era calma, ma la tensione nella sua postura era evidente per chi sapeva leggere i corpi. “Può farlo a modo suo… e avere altri dieci di questi alle calcagna. Oppure può fidarsi e lasciarmi fare.”
Robin sollevò appena il mento. “E perché dovrei fidarmi?”
Law accennò un sorriso che non era un sorriso. “Perché io non lavoro per il Governo. E perché è l’opzione meno rumorosa che ha.”
L’uomo del Cipher Pol fece un altro passo, ignorando l’interazione che non riusciva a percepire.
Robin inspirò lentamente. Aveva combattuto per la sua vita abbastanza volte da sapere che ogni scelta aveva un prezzo. Il problema non era fidarsi di lui. Era decidere che tipo di pericolo preferiva affrontare.
La guardò negli occhi, senza spostarsi, ma lei sentì che il tempo stava scadendo.
“Decida, Nico Robin.”
Un battito di ciglia.
“…Shambles.”
La parola uscì dalla sua bocca come un taglio netto. E in quell’istante il mondo si frantumò in silenzio.
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Robin riaprì gli occhi sul bianco.
Non il bianco del cielo né quello del marmo, ma quello freddo, pulito, quasi tagliente delle pareti sterili. L’odore la colpì subito: alcol, metallo lucidato, tracce di disinfettante. Una sala operatoria.
Si mosse appena, valutando la distanza dalle pareti, la porta, il tavolo d’acciaio lucente. Poi la voce arrivò, calma, come se lui fosse sempre stato lì.
“Non si è fatta male nel trasferimento.”
Robin abbassò lo sguardo sul pavimento e lo vide: Trafalgar Law, appoggiato a un mobile chirurgico, le braccia incrociate. Il cappello proiettava un’ombra sugli occhi, ma non abbastanza per nascondere quella luce grigia che la fissava con un’intensità chirurgica.
“Non ricordo di aver dato il permesso,” disse lei con la sua solita gentilezza tagliente, accomodandosi meglio sul tavolo operatorio, come se fosse una poltrona da tè.
Law non sorrise. “Eppure ha detto ‘Shambles’.”
Robin rise piano. “Curioso… non ricordo di averlo detto ad alta voce.”
Un silenzio carico cadde tra loro. Lui non si mosse, ma il modo in cui la stava guardando le fece capire che stava analizzando ogni micro-espressione, come se fosse un enigma anatomico.
“Dunque…” Robin incrociò le gambe, elegante anche in uno spazio che non le apparteneva. “Era tutto parte del suo piano? Aspettare che fossi nei guai per offrirmi una via d’uscita?”
“Non era un piano,” rispose lui secco. Poi, dopo un battito: “Era un’opportunità.”
Robin inclinò appena il capo. “Un’opportunità per cosa, esattamente?”
“Per evitare che attirasse più attenzioni. Non mi piacciono i teatri inutili.”
Lei sorrise, ma il suo sguardo era tagliente quanto il suo. “E io pensavo che a un pirata piacesse la confusione.”
“Solo a quelli che non sanno come sopravvivere.” La sua voce era piatta, ma il sottotesto era tutto lì: io non sono come gli altri.
Robin si alzò dal tavolo con un movimento fluido. Non si era mai sentita minacciata, ma percepiva la tensione: la stanza sembrava più piccola, come se le pareti si fossero avvicinate senza muoversi.
Fece un passo verso di lui. Non tanto da toccarlo, ma abbastanza perché il bianco riflettesse il calore che entrambi stavano trattenendo.
“Allora…” mormorò lei, gli occhi fissi nei suoi. “Mi sta studiando, Trafalgar Law?”
Quella fu la prima volta che il suo sorriso cambiò. Appena accennato, ma reale.
“Solo quello che mi serve sapere.”
“E cosa pensa di aver scoperto?”
“Che non si lascia salvare facilmente.”
Robin rise piano, ma non distolse lo sguardo. “Forse perché non mi piace essere in debito.”
“Non lo è.”
“Oh?”
Law inclinò il capo, e per la prima volta la sua voce si fece più bassa.
“Consideri questo… un investimento.”
Silenzio. Uno di quelli che valgono più di mille frasi.
Robin capì due cose in quell’istante: primo, che quell’uomo non diceva nulla per caso. Secondo, che non era sicura di voler scoprire subito cosa significasse “investimento” nella sua mente.
Robin lasciò scivolare lo sguardo sui ferri chirurgici, allineati con precisione maniacale.
“Non pensavo di trovarmi in una sala operatoria, oggi,” disse con calma, facendo scorrere un dito lungo il bordo del tavolo. “Un ambiente… interessante.”
Law seguì il gesto senza muovere la testa. “Non è per i curiosi.”
“Oh, non si preoccupi… non sono mai stata il tipo da toccare ciò che non mi appartiene.”
“Non l’ho mai dato per scontato,” ribatté lui, e per un istante sembrò quasi che la sua voce si ammorbidisse. Poi aggiunse, “Ma non è esattamente una frase che mi aspetterei da lei.”
Robin sorrise. “Lei sembra avere molte aspettative su di me, Trafalgar Law.”
“Solo su chi è pericolosa.”
Silenzio. Poi Robin inclinò la testa, gli occhi azzurri che brillavano come la lama di un bisturi sotto quella luce sterile.
“Se continuiamo a darci del lei, finirà che mi sentirò invecchiata.”
Fu una frase semplice, quasi leggera, ma Law capì il peso sottile dietro di essa. Una provocazione elegante.
Le sue labbra si incurvarono appena. “Come vuoi.”
Robin sorrise, compiaciuta. “Molto meglio.”
“Allora dimmi,” continuò lui, spostando appena il cappello all’indietro, lasciando intravedere meglio quegli occhi grigi che la fissavano come se la stessero radiografando, “Che ci fanno i Mugiwara a Sabaody?”
Robin non perse il sorriso, ma i suoi movimenti rallentarono impercettibilmente.
“Potrei chiederti la stessa cosa”
“Touché” rispose Law, cercando di nascondere un ghigno.
Lei si voltò appena, posando la mano su una lampada chirurgica come se ne stesse studiando la forma. “Seguo il mio Capitano e ottengo piú informazioni su ció che dicono essere perduto, per lui e per me...”
La sua voce non tremò, ma Law colse una nota che non aveva sentito prima: malinconia.
“Un passato che non vuoi cancellare.”
“E tu?” ribatté Robin, voltandosi di nuovo verso di lui. “Cosa nascondi dietro questo ordine sterile? Un passato… o una necessità di controllo?”
Law non sorrise, ma gli occhi si fecero più intensi, quasi sfidanti. “Entrambi. Non sopravvivi nel Nuovo Mondo senza avere ossessioni.”
Robin inclinò il capo, studiandolo come lui studiava lei.
“Forse siamo più simili di quanto sembri,” disse piano, le braccia che si incrociavano lentamente, lasciando scivolare il peso di quella frase tra loro due.
Law rimase immobile, ma il silenzio che seguì era diverso. Più caldo, più carico. Come se la stanza si fosse ristretta di nuovo, ma questa volta non per la minaccia.
Il silenzio nella sala operatoria sembrava quasi un’entità viva, respirava insieme a loro. Robin si lasciò scivolare dallo sgabello e fece un passo verso la porta, con la grazia calma che la caratterizzava.
“Ti ringrazio per… l’aiuto,” disse infine, la voce misurata ma carica di significati.
Law non si mosse. Si limitò a seguirla con gli occhi, le mani infilate nelle tasche del cappotto. “Aiutarti è stato un buon compromesso. Ti stavi complicando la vita.”
Robin piegò leggermente il capo, divertita. “E tu sei intervenuto senza chiedere nulla in cambio? Strano, per un pirata.”
“Chi ha detto che non chiederò nulla?” ribatté lui, il tono basso ma netto.
Un attimo di silenzio, in cui i loro sguardi si intrecciarono. Poi Robin parlò per prima, con quella calma affilata che era un’arma tanto quanto le sue mani fiorite.
“Comunque… è tardi. I miei compagni mi cercheranno a breve. Non vorrei dare nell’occhio… di nuovo.”
Le parole erano logiche, ma Law colse l’ombra di qualcosa dietro: prudenza, sì, ma anche una sfumatura di sfida.
Si staccò finalmente dalla parete, muovendosi con la sicurezza felpata che gli apparteneva.
“Vuoi che ti riporti vicino alla Sunny?”
Robin annuì. “Se non è un disturbo.”
Law si avvicinò, fermandosi a meno di un passo da lei. Abbassò lo sguardo fino a incontrare il suo, senza sorridere ma con un lampo negli occhi.
“Non lo è. Ma… i nostri discorsi non finiscono qui, Nico Robin.”
La pronuncia lenta del suo nome sembrava un avvertimento e una promessa insieme.
Robin si limitò a inclinare il capo, i capelli corvini che scivolavano sulla spalla. “Non ne avevo dubbi.”
Law sollevò una mano e disegnò un gesto nell’aria.
“Room.”
L’aura azzurra si espanse silenziosa intorno a loro. Robin restò immobile, osservandolo con curiosità mentre lui si avvicinava ancora di più.
“Dovrò toccarti,” disse, la voce sempre bassa ma più ruvida, come se il contatto fosse qualcosa che non dichiarava ma non evitava.
“Immaginavo,” rispose Robin, calma, ma il lieve increspamento delle sue labbra tradiva un divertimento sottile.
Law le posò una mano sul fianco, appena sopra la curva dell’anca, per stabilizzare la posizione. La distanza si annullò. L’altra mano sfiorò il suo gomito, ferma ma leggera.
Robin avvertì il tessuto ruvido del suo guanto, il calore che passava nonostante la barriera. Un gesto tecnico, certo… ma che di tecnico non aveva nulla.
“Pronta?”
Robin sollevò lo sguardo verso di lui, i loro occhi che si incatenarono in un silenzio più eloquente di qualsiasi parola.
“Dipende,” mormorò. “Dove finiremo?”
Law inclinò appena la testa, i capelli che proiettavano ombre taglienti sul volto.
“Vicino alla tua nave. Promesso.”
La promessa era reale. Ma la tensione era altrove, in quell’istante sospeso.
Il mondo si capovolse per un battito di ciglia.
Quando riapparvero, l’aria era diversa: il molo di Sabaody, a poca distanza dalla Sunny, dove le luci delle bolle riflettevano come perle liquide. Law non si mosse subito. La mano era ancora sul suo fianco, il contatto più lungo del necessario.
Robin abbassò appena lo sguardo verso la sua mano, poi tornò ai suoi occhi.
“Credo che tu abbia mantenuto la promessa,” disse piano.
“Non sono il tipo che le infrange,” rispose Law, ma non fece nessun gesto per allontanarsi subito.
Un istante, e Robin si mosse per prima. Indietreggiò di mezzo passo, sciogliendo quella distanza che lui sembrava non avere fretta di rompere.
“Allora… ci rivedremo, Trafalgar Law?”
Non era una domanda innocente, e lui lo sapeva.
“Contaci.”
Due sillabe, fredde come acciaio e calde come un braciere sotto la cenere.
Robin gli lanciò uno degli sguardi che potevano valere un’intera conversazione. Poi si voltò, il mantello che ondeggiava mentre si allontanava verso l’ombra, verso la sua nave.
Law restò a guardarla finché non fu lontana abbastanza da confondersi tra le bolle. Solo allora si voltò, il cappello che nascondeva metà del suo volto, mentre le sue dita si chiudevano lentamente, come se trattenessero ancora la traccia di quel contatto.
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Si voltò una volta ancora, prima di salire a bordo. Il ponte della Sunny era a pochi passi, ma la distanza tra loro sembrava più difficile da percorrere di quanto avrebbe voluto ammettere.
Law era rimasto lì, fermo, con quell’aria apparentemente impassibile che conosceva fin troppo bene nei medici… e nei predatori.
Il suo sguardo era un coltello, ma non puntato: lasciato sul tavolo, in attesa che qualcuno decidesse di impugnarlo.
Robin avvertì un leggero calore sotto la pelle, là dove le sue mani l’avevano toccata. Fianco, gomito, la pressione controllata delle dita attraverso il guanto. Un gesto tecnico, certo. Ma il suo corpo, che aveva imparato a leggere segnali e linguaggi molto più complessi delle parole, non mentiva.
Era stato… più lento del necessario.
E lei non si era spostata.
Un pensiero le sfiorò la mente, impalpabile come un soffio: Trafalgar Law non è un uomo che fa nulla per caso.
Quella promessa — “i nostri discorsi non finiscono qui” — non suonava come una minaccia. Sembrava più… un vincolo.
E Robin non odiava i vincoli, se erano interessanti.
Si voltò verso la nave, lasciandosi alle spalle il medico dalla lama invisibile negli occhi. Ma mentre posava il piede sul ponte, un sorriso impercettibile le piegò le labbra.
Non era curiosità, non solo. Era qualcosa che non definiva ancora.
E non ne aveva intenzione.
Law
La seguì con lo sguardo, senza muoversi.
Il cappello abbassato gettava ombra sugli occhi, ma il suo focus era cristallino. Vide Robin percorrere gli ultimi metri verso la Sunny, con quella calma elegante che poteva trarre in inganno chi non sapeva leggere le sfumature.
Lui le leggeva. Forse più di quanto avrebbe dovuto.
Il contatto non gli era rimasto addosso come un ricordo vago. No. Era qualcosa di più fisico, più presente. Il guanto non aveva impedito al calore di attraversargli la pelle, e non aveva avuto fretta di toglierlo.
Un secondo in più, forse due. Non abbastanza perché sembrasse intenzionale, ma abbastanza perché lo fosse.
Law serrò le dita nella tasca, come a catturare quell’impressione e ricondurla all’ordine. Non gli piaceva quando qualcosa sfuggiva alla sua pianificazione mentale. Robin era una variabile complessa, e lui non amava le variabili.
Ma alcune… erano difficili da eliminare.
Il suo istinto diceva che non era finita.
Non perché lo volesse, ma perché lo sapeva.
Quando Robin si voltò per un istante, prima di sparire dietro la balaustra della Sunny, i loro occhi si incontrarono ancora una volta.
Due secondi di silenzio teso, carico come una corda d’acciaio. Poi lei sparì dalla vista.
Law inspirò lentamente, facendo scivolare il fiato tra i denti.
“Interessante…” mormorò appena, senza che nessuno potesse sentirlo.
Poi girò i tacchi, il cappotto che frusciava come un sipario che cala. Ma nella mente, la scena restava aperta.
Chapter 3: Magnets and Pacts
Notes:
Terzo capitolo! Chiedo scusa per il ritardo, avevo il capitolo abbozzato, ma sono stata un po' impegnata e ho avuto difficoltá a trovare del tempo per sistemarlo. Non é particolarmente lungo, ma é un passaggio importante per i prossimi avvenimenti. Spero vi piaccia, ogni commento é sempre super apprezzato.
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Magnets and Pacts
Robin si era lasciata cadere sulla panca accanto a Nami, con la tazza di tè ancora calda tra le mani. Sul ponte, il vociare allegro degli altri riempiva l’aria di normalità, ma la sua mente era altrove.
Stava annuendo, sì, ma le parole della navigatrice le scivolavano addosso come pioggia leggera. Mappe, correnti, una possibile rotta alternativa… tutto sembrava distante, sfocato.
“Robin?”
La voce di Nami la riportò bruscamente indietro.
Lei sollevò lo sguardo, sorrise come se nulla fosse. “Sì?”
“Mi stai ascoltando?”
“Certo.” Il tono era morbido, ma la menzogna era evidente a chiunque la conoscesse bene.
Nami strinse gli occhi, inclinando il capo. “Hai la testa altrove. Tutto bene?”
Robin sorseggiò il tè, mascherando il leggero ritardo nella risposta. “Sì, solo… stanca per il viaggio.”
Non era una bugia completa. Ma non era neanche la verità.
Nami la scrutò ancora per un istante, poi sospirò. “Va bene… ma non sparire di nuovo per ore senza dire nulla, okay?”
Robin sorrise, un sorriso educato, mentre dentro di sé qualcosa pulsava con un ritmo che non c’entrava nulla con la stanchezza.
Quella notte, il sonno la prese tardi e male.
Le immagini arrivarono in frammenti: un corridoio sterile, il metallo che rifletteva luci fredde. Il rumore distante di una porta che si chiudeva, e poi… il fruscio di un cappotto.
Una mano guantata sfiorò il suo polso, senza costringerlo. Un tocco che non era una catena, ma non lasciava scelta.
Il silenzio tra loro era assordante, eppure carico di parole che nessuno pronunciava. Lei provò a muoversi, ma non ci riuscì: non perché non potesse, ma perché non voleva.
Quando si svegliò, l’alba filtrava appena attraverso l’oblò. Il respiro era calmo, ma le mani… serravano le lenzuola.
Robin restò sdraiata a lungo, fissando il soffitto, mentre un pensiero insistente le mordeva la mente: Non era la realtà. Ma non sembrava neanche un sogno.
Sabaody la accolse con il suo caos brillante: luci, odori, suoni che si intrecciavano in un mosaico vivente. Robin camminava con passo lento, lasciando che gli altri si disperdessero tra negozi e curiosità. A lei bastava osservare.
O almeno, così aveva pensato.
Perché lo sentì prima di vederlo.
Una presenza sottile, come un’ombra che si muoveva appena oltre il bordo della percezione. E poi… eccolo.
Tra la folla, oltre un groviglio di radici e bancarelle, la sagoma alta, il cappotto bianco, quello strano cappello punteggiato.
Law.
Non c’era alcun motivo per cui i loro sguardi dovessero incontrarsi in quella marea di volti. Eppure accadde.
Un istante sospeso, invisibile agli altri. Lei ferma, lui immobile tra i suoi.
Nessun gesto, nessun cenno del capo. Solo quegli occhi, grigio chiaro come acciaio bagnato, che la trattenevano.
Poi una coppia passò tra loro, e il filo si spezzò. Quando il varco si riaprì, lui non c’era più.
Robin rimase a fissare la folla per un momento di troppo, le mani intrecciate dietro la schiena, il sorriso enigmatico che tornava lentamente sul volto.
Non un sogno, allora.
Robin, di ritorno dalla passeggiata, trovó un biglietto infilato tra le pagine del libro che aveva lasciato nella sua cabina. Carta spessa, grafia inclinata, essenziale:
“22:00 – Radice 47. Non farti seguire.”
Firmato solo con un simbolo: il cuore inciso in un cerchio.
Un sorriso lento si curvó incosciamente sulle sue labbra. Drammatico come sempre.
Eppure, mentre scivolava il biglietto tra le dita, avvertí quell’impulso sottile che è tutto fuorché razionale: dire di sì.
Il punto indicato era lontano dal frastuono dei bar di Sabaody, una terrazza naturale formata da radici intrecciate che si affacciavano sul mare scuro. Luci di lanterne galleggianti in lontananza, il rumore lieve delle onde che si increspavano e andavano a scontrarsi sugli scogli.
Quando arrivó, lui era già lì. Appoggiato al parapetto improvvisato, il cappotto aperto, le mani in tasca, con quell'aria strafottente che era quasi il suo marchio di fabbrica. Non la guardó subito, ma il sorriso appena accennato che gli comparve sulle labbra tradí che l’aveva sentita arrivare.
“Devo ammetterlo,” mormoró Robin, avvicinandosi con passo lento, “di solito gli uomini che mi invitano a un appuntamento usano parole meno… criptiche.”
Law la guardó allora, gli occhi che riflettevano la luce delle lanterne.
“Non è un appuntamento.” disse distogliendo lo sguardo.
“Oh?” Robin inclinó il capo, un sorriso enigmatico che avrebbe disarmato chiunque. “E cos’è, allora? Una convocazione ufficiale?”
“Chiamalo come vuoi,” replicó lui, ma ci fú un’ombra di tensione nel modo in cui la seguí con lo sguardo, come se calcolasse ogni suo movimento.
Robin si fermó a pochi passi, lasciando che il silenzio si distendesse tra loro. Non è un appuntamento, pensó. Eppure non riusciva a dare altre definizioni a quell'incinto, per quanto si sforzasse.
Si sedette su una radice sporgente, incrociando le gambe con naturale eleganza, il libro in mano come se fosse davvero lì per leggere.
“Quindi?” domandó, sfogliando distrattamente le pagine. “Mi hai dato un orario, un luogo… e nemmeno un drink? Deludente.”
Lui sollevó un sopracciglio, spostandosi verso di lei con calma predatrice, fino a fermarsi abbastanza vicino da sfiorarle il ginocchio col lembo del cappotto. “Non sei qui per bere.”
Robin sorrise, le labbra che trasmettevano calma, lo sguardo che tradiva curiositá. “No? E per cosa, allora?”
Law non rispose subito. La osservó, e quell’attimo sospeso fú più eloquente di qualsiasi parola.
Poi, con voce bassa, quasi udibile:
“Per non avere occhi addosso.”
“Capisco. Quindi… è davvero un appuntamento.”
Lui le lanció un’occhiata che vorrebbe essere irritata, ma che non nascose la curva impercettibile delle labbra. “Ti piace provocare, huh?”
“Solo chi sa reggere il gioco.”
Il vento le mosse i capelli, e per un attimo il mondo sembró ridursi alla distanza tra i loro corpi. Una distanza che si assottiglió quando lui si piegó leggermente in avanti, appoggiando una mano alla radice accanto a lei, chiudendola in un semicerchio sul legno.
Robin lo guardó, come in attesa di parole che sapeva, in realtá, non sarebbero mai arrivate.
«E ora che non ci sono occhi?» gli chiese lei, con un filo di ironia che mascherava altro.
Law si chinó leggermente, fino a far sfiorare il suo respiro alla sua pelle, e mormoró:
«Discutiamo i prossimi incontri»
Robin sentí la vibrazione della voce più che le parole.
«I prossimi?»
«Ogni notte. Fino a quando restiamo qui. Una volta tu decidi dove. Una volta io.»
Robin sorrise, e la luce delle lanterne le accende gli occhi. «Un patto, dunque.»
«Un accordo,» corresse lui. «Niente distrazioni. Niente… conseguenze.»
Eppure, entrambi sapevano essere una bugia.
Prima che lei potesse rispondere, lui si piegó ancora di più, fino a sfiorarle l’orecchio con le labbra, la voce un sussurro:
«Domani, scegli tu.»
Il suo respiro si fermó per un secondo. Il calore della pelle. La tensione, tangibile come una corda tirata al limite. Si raddrizzò appena, mantenendo la distanza minima che bastava a non rompere l’equilibrio.
Law si allontanó appena, quel tanto che bastava a rompere il contatto… ma non la tensione.
Lei chiuse il libro con calma studiata.
«Vedremo se il dottore è bravo quanto promette.»
Law si limitó a sorridere, freddo in apparenza, ma con un lampo negli occhi che diceva ben altro.
Chapter 4: Wicked Game
Summary:
What a wicked game to play to make me feel this way
What a wicked thing to do to let me dream of you
What a wicked thing to say, you never felt this way
Notes:
Da questo punto in poi i capitoli hanno titoli di canzoni scelte in relazione al capitolo. Se vi va, potete pure ascoltare la canzone leggendo i capitoli :)
Wicked games - Chris Isaak
Chapter Text
Wicked Game
La seconda notte
Le luci basse del bar proiettavano riflessi dorati sulle bottiglie, sfumando nel verde pallido delle radici di Sabaody che filtravano attraverso il vetro.
Era un posto che Robin avrebbe potuto definire un rifugio: quieto, elegante, con il brusio appena percettibile e musica così lieve da sembrare un respiro.
Scelse un tavolo d’angolo, abbastanza appartato da sfuggire agli sguardi ma non alla vista dell’ingresso.
Non aveva bisogno di chiedersi se lui sarebbe arrivato.
Law non mancava mai un appuntamento, non quando aveva deciso che valesse la pena esserci.
Aprì il libro che portava sempre con sé, ma le righe si confondevano, scivolavano via.
Ogni volta che la porta cigolava, il cuore le faceva un piccolo scarto, invisibile ma reale.
Sapeva essere paziente, ma quella sera l’attesa le sembrava un esercizio di vulnerabilità che non aveva previsto.
Poi lo vide.
Avanzava tra i tavoli con quella sua calma apparente, il cappotto scuro aperto, le mani nelle tasche.
C’era in lui qualcosa di esasperantemente controllato, eppure, sotto la superficie, un’energia che non apparteneva alla quiete.
Robin inclinò appena la testa, studiandolo: la postura, lo sguardo, l’attenzione che sembrava abbracciare ogni dettaglio del luogo.
«Bel posto,» disse, quando le fu davanti.
«Non mi aspettavo che tu apprezzassi l’atmosfera,» replicò con un sorriso discreto.
«Apprezzo ciò che serve.»
Si sedette senza attendere invito, come se quel tavolo fosse suo fin dall’inizio, la gamba sinistra piegata e appoggiata sul ginocchio destro, i gomiti appoggiati sul tavolo, le mani tatuate che giocherellavano in modo casuale con una moneta.
Robin chiuse lentamente il libro, posandolo di lato. Le dita restarono un istante ferme sul dorso, poi si intrecciarono con naturale eleganza.
«Allora, cosa facciamo in assenza di occhi indiscreti?» chiese lei, il tono morbido ma intessuto d’ironia.
Lui la osservò senza rispondere subito.
Quel silenzio era un’arma, e la stava usando bene.
Lei non distolse lo sguardo. Era curiosa di vedere quanto avrebbe retto.
Con Law, ogni parola sembrava avere un doppio significato, ogni pausa era una mossa calcolata.
«Ti piace avere il controllo, Nico Robin?» chiese infine, piano.
Lei rise sotto voce. «A chi non piace?»
«A me.»
Una bugia, ovviamente.
E il modo in cui i loro occhi si sfiorarono, il suo sorriso appena piegato, la calma che vacillava di un battito, le confermò che c'era di piú dietro quella menzogna.
Il silenzio si fece più fitto, ma non era vuoto.
Era carico di possibilità.
«Sai,» disse Robin, rompendo la quiete con una calma disarmante, «non capita spesso che qualcuno mi chieda perché scelgo certi posti.»
«Forse perché la maggior parte non pensa di poterlo fare,» rispose Law.
«E tu invece?»
«Io non credo a ciò che dicono gli altri.»
«E cosa dicono, esattamente?»
Lui la fissò, immobile.
«Che sei inaccessibile.»
Un sorriso le curvò le labbra, ma non raggiunse gli occhi. «E tu?»
«Io penso che non sia vero.»
Le parole caddero fra loro come un peso improvviso.
Un istante di silenzio in cui persino la musica sembrò arrestarsi.
Robin trattenne il respiro senza volerlo. Quella frase, così semplice, la colpì più di quanto volesse ammettere.
Perché Law non stava flirtando: la stava vedendo.
E lei non era abituata a essere vista.
«Domani, il posto lo scelgo io,» disse lui infine, alzandosi.
Lei lo seguì con lo sguardo, un sorriso che era insieme sfida e resa.
«Vedremo se saprai superarti.»
Lui fece un passo verso di lei, abbastanza da lasciarle sentire la sua voce a un soffio dall’orecchio.
«Non è un gioco.»
Poi si allontanò, lasciandola sola con un libro chiuso e un cuore troppo sveglio per la notte che restava.
Law
Il locale sapeva di spezie e di legno vecchio.
Un odore caldo, accogliente, che in altri tempi avrebbe trovato soffocante.
Ma non quella sera.
Lei era lì, e tutto il resto sembrava secondario.
La osservò a lungo, dall’ingresso, prima di raggiungerla.
Non c’era nulla di casuale in Robin.
Ogni gesto, ogni movimento era calibrato: il modo in cui incrociava le gambe, come faceva scivolare lo sguardo senza che sembrasse davvero fissarti.
Una donna abituata a studiare, non a essere studiata.
Eppure, quando si sedette di fronte a lei, ebbe la sensazione che per una volta fosse lui a leggere tra le righe.
«Ti piace avere il controllo,» le aveva detto.
Lei aveva riso.
E in quella risata aveva sentito il suono di chi sa di essere stata scoperta ma non si offenderà per questo.
Non aveva intenzione di scivolare nel gioco dei doppi sensi, ma la conversazione prese una direzione propria, inevitabile.
Ogni battuta, ogni silenzio costruiva un ponte più stretto.
Quando le disse «Che non è vero», non era solo una provocazione.
Era una constatazione.
Robin non era inaccessibile.
Era solo abituata a non trovare nessuno degno di oltrepassare la soglia.
La vide irrigidirsi per un attimo, come se la frase le avesse attraversato la pelle.
Poi il solito sorriso, ma c’era qualcosa di diverso.
Un’incrinatura sottile, appena percettibile.
Law si alzò, sentendo il bisogno di rompere la tensione prima che diventasse troppo evidente.
Si chinò verso di lei.
«Domani. Il posto lo scelgo io.»
Lo disse senza cercare approvazione, ma nel modo in cui lei lo guardò, capì che aveva già accettato.
La Terza Notte
La luce del mattino filtrava pallida tra le tende della stanza assegnata alla ciurma.
Robin era seduta sul letto, un libro aperto sulle ginocchia e gli occhi fissi su una pagina che non stava leggendo.
"Io penso che non sia vero."
Le parole di Law le tornavano in mente come un eco.
Non era la prima volta che qualcuno le avesse detto qualcosa di simile, ma era la prima volta che avesse creduto di sentirlo.
E quel pensiero la disturbava più di quanto volesse ammettere.
Law non l’aveva guardata come un uomo che desidera: l’aveva guardata come uno che comprende.
E questo, proprio questo, era ciò che la disarmava.
Cercò di distrarsi, parlando con Nami, dedicandosi alle piccole incombenze del giorno.
Ma ogni volta che il pensiero tornava, il cuore faceva quel piccolo salto irregolare.
«Stanotte,» mormorò tra sé, chiudendo il libro. «Vediamo cosa sceglierà.»
Law
Il pomeriggio era denso di umidità.
Camminava lungo il pontile, le mani in tasca, lo sguardo perso nell’orizzonte.
Aveva passato il giorno cercando di convincersi che fosse solo curiosità.
Che quella tensione non significasse niente.
Ma la verità era un’altra.
Robin lo metteva a nudo in un modo che nessuno aveva mai fatto.
Non per le parole, ma per l’intelligenza con cui le sceglieva.
Era come se ogni sua frase scostasse un lembo del suo guscio, e lui non riusciva a impedirglielo.
Aveva detto che non era un gioco.
Eppure, sapeva che lo stava già giocando, e perdendo.
Decise di non pensarci più.
Si limitò a scegliere il luogo, sotto le radici che affioravano sull’acqua, dove la luce filtrava come vetro liquido.
Un posto abbastanza isolato da poter fingere che il mondo non esistesse.
Quando arrivò, lui era già lì, appoggiato a una radice, il cappello abbassato, le mani in tasca.
La luce blu e verde riflessa dall’acqua gli disegnava ombre sul viso.
«Hai scelto bene,» disse lei.
«Cerco di fare meglio di te,» replicò, sollevando una bottiglia di sake.
«E ora porti anche regali?»
«Solo per equilibrare i conti.»
Si sedettero vicini, troppo vicini.
Il sake scivolò nei bicchieri, trasparente, lieve.
Quando le loro dita si toccarono nel passaggio, un istante bastò per farle dimenticare ogni difesa.
Parlarono a lungo, più di quanto avessero previsto.
Non era una conversazione comune, era una danza sottile, fatta di pause e sguardi.
Law ascoltava con l’attenzione di chi studia un codice segreto; Robin parlava come chi sa di essere decifrata ma non teme il rischio.
A tratti, il silenzio tra loro diventava una presenza viva.
Il fruscio dell’acqua sotto le radici sembrava battere al ritmo del loro respiro.
Le parole si diradarono, lasciando spazio a una calma carica di significati.
«Sai,» disse Robin, la voce bassa, «più ti osservo, più credo che tu sia meno prevedibile di quanto voglia sembrare.»
Law sollevò lo sguardo, e per un istante non fu il solito sguardo analitico.
Era qualcosa di più umano, più pericoloso.
«Ti deluderebbe scoprire che non lo sono?»
«Mi deluderebbe il contrario.»
Un sorriso le sfiorò appena le labbra. Lui non rispose, ma il modo in cui la guardava bastò: c’era un’intensità che la costrinse a trattenere il fiato.
Robin sentì il mondo restringersi, come se l’aria stessa si fosse fatta più densa.
I loro ginocchi si sfiorarono.
Lei non si mosse, e nemmeno lui.
Fu solo un leggero urto, un punto di contatto che non cercava scuse.
Law inclinò appena la testa.
Le luci verdi riflesse sull’acqua gli tagliavano il volto in due, metà luce, metà ombra.
«Sai cosa mi colpisce di te?» mormorò, la voce bassa, quasi un pensiero che le sfuggiva di bocca. «Non parli mai dei tuoi muri. Ma li costruisci con una precisione… chirurgica.»
Robin abbassò appena lo sguardo, un sorriso impercettibile sulle labbra.
«E tu?» rispose piano. «Li hai così alti che sembri credere di poterci vivere dentro.»
«Forse,» ammise lui, un’ombra di ironia che non riuscì a nascondere, «ma stasera uno di noi ha lasciato una crepa.»
«Uno?» sussurrò lei.
Lui non rispose, ma le sue dita si mossero, un gesto impercettibile, fino a sfiorarle la mano.
La pelle di Robin reagì come se avesse atteso quel tocco da sempre.
Lui non la prese: semplicemente la toccò, il pollice che scivolava lungo la linea del suo polso, seguendo la vena come per misurarne il battito.
Robin lo guardò.
Un istante.
Due.
Le labbra di lui si avvicinarono, lente, come se il tempo stesso esitasse a permetterlo.
Poteva sentirne il respiro, il calore.
Un battito di ciglia, e si sarebbero sfiorati.
Ma Law si fermò.
Restò immobile, il viso a un soffio dal suo, gli occhi che cercavano i suoi con un’urgenza silenziosa.
Robin lo fissò, e per un attimo le sembrò di precipitare.
Poi, invece di colmare la distanza, sorrise. Un sorriso lento, enigmatico, che diceva tutto e niente.
Lui inspirò, piano.
Non si ritrasse, ma neppure avanzò.
Un equilibrio perfetto, sul filo.
«Forse è meglio così,» disse lei, con un filo di voce.
«Per ora,» rispose lui.
Restarono così ancora qualche secondo, sospesi in un silenzio che valeva più di mille parole.
Poi Law si scostò, un movimento minimo ma irreversibile.
Si alzò, aggiustò il cappotto e la guardò ancora, come per imprimersi ogni dettaglio nella memoria.
«Domani,» disse soltanto.
E se ne andò.
Robin rimase lì, con il cuore che batteva come un tamburo nel petto.
Non si mosse, non provò a inseguire.
Chiuse gli occhi, inspirò il profumo del sake e del mare, e lasciò che un pensiero la attraversasse, calmo, ineluttabile, come una verità scomoda:
Domani.
A Robin suonó come una promessa, e questo la terrorizzava.
Chapter 5: Way down we go
Summary:
Oh, you let your feet run wild
Time has come as we all fall, go down
Yeah, but for the fall, ooh, my
Do you dare to look him right in the eyes?
Chapter Text
Non dormì quella notte.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, il ricordo della sera prima tornava come un’onda che non smetteva di infrangersi.
Non c’era stato un bacio.
Solo il momento esatto prima, quella sospensione, quel confine sfiorato che brucia più di un contatto vero.
Law era rimasto a un soffio, come se il desiderio gli si fosse pietrificato addosso.
Un uomo che vive di controllo non lascia che qualcosa gli sfugga.
Eppure, per un istante, l’aveva fatto.
Robin si girò nel letto, le lenzuola fredde contro la pelle. Il cuore batteva troppo in fretta per una notte senza rumore.
Lui le aveva detto che uno dei due aveva lasciato una crepa.
Aveva riso dentro di sé, allora. Ma adesso non rideva più.
Una crepa non è mai solo una crepa: è il punto in cui tutto il resto può cedere.
Lei non aveva paura del desiderio, quello lo conosceva, lo sapeva gestire.
Era l’altra cosa, quella che non aveva nome, che la faceva restare sveglia.
Quel pensiero inaccettabile che l’avesse capita. Che l’avesse vista.
Aveva passato la vita a nascondere il proprio cuore dietro la logica, i libri, le risposte esatte.
Non c’era posto per un sentimento che non potesse analizzare.
Eppure, la sera prima, ogni parola di Law aveva disarmato un pezzo di quella armatura invisibile.
Avrebbe voluto odiarlo per questo. Ma l’unica cosa che sentiva era la vertigine.
Lui era come lei: qualcuno che aveva perso troppo, troppo presto, e che non aveva più imparato a credere nella permanenza.
Due persone che si riconoscono nonostante tutto, o forse proprio per quello.
Quando la mattina arrivò, Robin non si era mossa.
Guardò la luce filtrare dalla finestra e si concesse un mezzo sorriso ironico.
Si stava comportando come una ragazza.
Eppure, sotto la calma, sapeva di aver già varcato il confine.
La giornata scivolò lenta, irreale.
Nessuno sulla Sunny notò nulla, e lei si assicurò che fosse così.
Ma dietro ogni sorriso, dietro ogni parola, la mente tornava a quell’istante sospeso tra loro.
Nel pomeriggio, mentre sfogliava un libro che non ricordava di aver aperto, pensò a lui, a come la guardava, come parlava senza dire tutto.
Non c’era un piano, nessuna certezza su cosa sarebbe successo quella sera.
E forse era questo a farle paura.
Non la paura di essere respinta.
Ma quella, ben più profonda, di lasciarsi coinvolgere.
Di volere qualcosa che non può durare.
Lui non era un alleato.
Era un capitano di un’altra bandiera, un uomo che aveva fatto della distanza la sua religione.
E lei non era diversa.
La logica le diceva che sarebbe stato un errore.
Il cuore, per la prima volta dopo anni, taceva.
Law
Non dormì nemmeno lui.
La sera precedente si era portata dietro come una febbre.
Aveva camminato a lungo per Sabaody, cercando di calmare quella tensione che non era solo fisica.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, rivedeva Robin, i suoi occhi fissi nei suoi, il modo in cui non aveva arretrato quando si era avvicinato.
Era stato lui a fermarsi.
E non sapeva se definirlo un gesto di forza o di paura.
Aveva passato la vita a imporre distanza, a costruire controllo su ogni parte di sé.
Non lasciava entrare nessuno, non più.
Chi lo aveva fatto una volta, era morto tra le sue braccia.
Eppure, ora, quella donna riusciva a insinuarsi sotto la pelle senza toccarlo.
Non era un’infatuazione, non poteva esserlo.
Era qualcosa di più lento, più pericoloso: la sensazione di riconoscere se stesso in qualcun altro.
“Uno di noi ha lasciato una crepa.”
Aveva detto così.
Non sapeva più se l’avesse detta per provocarla o per confessarsi.
Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva desiderato vedere qualcuno il giorno dopo.
Ma ora sì. E questo lo irritava.
Si sedette sul letto della Polar Tang, fissando il pavimento metallico come se potesse dargli risposte.
Pensò alla loro posizione: due ciurme che si tolleravano per necessità, due comandanti abituati a trattare con logica e diffidenza.
Quello che stava nascendo tra loro non era solo scomodo: era potenzialmente pericoloso.
Troppi occhi. Troppi motivi per non fidarsi.
Eppure, in tutta quella razionalità, la verità era semplice: voleva rivederla.
La mattina la trascorse in silenzio.
Shachi e Penguin chiacchieravano come sempre, ignari del peso che lo schiacciava.
Ogni rumore, ogni parola lo irritava, perché ricordava quanto il mondo esterno fosse distante dal punto in cui la mente gli era rimasta: sotto quelle radici, nel respiro sospeso di Robin.
Nel pomeriggio, chiuso nel suo studio, provò a concentrarsi sui piani di navigazione.
Non funzionò.
Ogni schema, ogni grafico si dissolse nell’immagine di lei.
La calma che di solito lo definiva gli sembrava una maschera sottile pronta a creparsi.
Sospirò, si passò una mano tra i capelli e ammise a se stesso quello che aveva cercato di negare per tutto il giorno:
quella sera sarebbe andato da lei, anche se sapeva di non doverlo fare.
Il sole stava tramontando quando uscì.
Camminò tra le radici di Sabaody con passo tranquillo, come se non stesse andando incontro a nulla di importante.
Ma dentro, il battito era un tamburo costante.
Il cielo filtrava tra i rami con riflessi color rame. L’aria era densa, carica di quell’odore di mare e resina che precede la notte.
Robin si fermò un momento per inspirare a fondo, poi continuò.
Sapeva che lui sarebbe arrivato.
Law non era un uomo che prometteva senza mantenere.
Quando lo vide, il respiro le mancò per un istante.
Era appoggiato a una radice, la postura rilassata ma lo sguardo tutt’altro.
C’era una tensione trattenuta in ogni movimento, come se stesse ancora decidendo se avvicinarsi o sparire.
«Sei arrivato,» disse lei, con calma apparente.
«Non ho mai saputo perdere tempo» rispose lui.
«Eppure sembri farlo benissimo con me.»
Un accenno di sorriso, quasi impercettibile, gli tagliò le labbra. «Forse non è tempo perso.»
Robin lo studiò per un lungo momento.
C’era qualcosa di nuovo nel suo sguardo, non la freddezza abituale, ma un chiarore stanco, come se avesse combattuto contro se stesso tutto il giorno.
«Hai dormito?» chiese lei, per rompere il silenzio.
«No.»
«Neanch’io.»
Restarono immobili, uno di fronte all’altra, come due duellanti che non sanno più se vogliono colpire o arrendersi.
«Ci stiamo complicando la vita, Trafalgar.»
«Non è una novità per me.»
«Neppure per me,» ammise lei, poi sorrise. «Ma di solito tendo a non cercare le complicazioni»
«E ora?»
«Non ne sono sicura.»
Il silenzio che seguì non era imbarazzato.
Era denso, quasi sacro.
Le luci bioluminescenti delle radici li circondavano come piccole stelle sott’acqua.
Law
Avrebbe dovuto andarsene.
Tutto, nella sua testa, gli diceva di farlo.
Eppure rimase lì, con gli occhi fissi su di lei.
Robin non era una donna comune.
Non cercava di piacere, non cercava approvazione.
Era una presenza calma che lo disarmava, e Law non tollerava di essere disarmato.
«Sai cosa mi irrita?» disse infine, quasi fra sé.
«Immagino molte cose.»
«Che tu non abbia paura di me.»
Lei inclinò appena il capo, un sorriso che non arrivò agli occhi.
«E dovrei?»
«Dovresti.»
«Temere chi mi capisce non è paura,» rispose lei. «È resa. E io non mi arrendo facilmente.»
Quelle parole gli fecero male e piacere insieme.
C’era troppa verità in esse, troppa per lasciarla passare senza reagire.
Fece un passo verso di lei.
La distanza tra loro si ridusse di poco, ma bastò a cambiare l’aria.
«Sai cosa temo io?» chiese, la voce più bassa.
Robin non rispose, ma il suo sguardo lo invitava a continuare.
«Che mi stia piacendo troppo la tua presenza.»
Lei lo guardò per qualche secondo, poi fece un passo avanti a sua volta.
Ora erano così vicini che poteva sentire il suo respiro.
«E ti spaventa?»
Fece una pausa.
«Sì.»
La sincerità di quella risposta lo colpì quanto la propria ammissione.
Robin gli posò una mano sul petto, leggera ma ferma.
Sentì il ritmo costante del suo cuore, la solidità sotto il tessuto.
«Siamo entrambi persone che non dovrebbero avvicinarsi,» sussurrò.
«Sì.»
«Eppure siamo qui.»
Law chiuse gli occhi un istante, poi li riaprì.
«Non so dove porterà tutto questo.»
«Nemmeno io,» ammise lei, «ma so che se non fossimo venuti, l’avremmo rimpianto.»
Si guardarono in silenzio.
Il mondo intorno sembrava dissolversi: solo il rumore lento dell’acqua, il respiro dell’altro, la consapevolezza che ogni parola sarebbe stata superflua.
La mano di Robin rimase sul suo petto, poi scivolò via, ma non per allontanarsi: fu un movimento lento, quasi un invito.
Law la seguì con lo sguardo, poi sollevò la propria e le sfiorò il polso.
Quel tocco bastò a farle trattenere il fiato.
«Non hai mai paura di sbagliare, vero?» mormorò.
«Solo quando ne vale la pena.»
Un sorriso gli attraversò il viso, fugace come un lampo.
E per un momento parvero due amanti di un’altra epoca, destinati a incontrarsi solo nei margini della storia.
Le dita di lui risalirono lentamente fino alla sua spalla, poi si fermarono.
Un attimo prima di oltrepassare il punto di non ritorno.
Il quasi-bacio della notte precedente aleggiava ancora tra loro, più vivo che mai.
Robin non si mosse.
Lo guardava con calma, ma nei suoi occhi c’era una tensione che diceva tutto: se ti avvicini, non ci sarà più ritorno.
Law lo capì.
E proprio per questo rimase fermo.
«Non stanotte,» disse, piano.
«Perché?»
«Perché non voglio che sia un errore.»
Robin non distolse lo sguardo.
Poi annuì lentamente, e un sorriso dolce ma indecifrabile le attraversò le labbra.
«Allora domani, capitano.»
Law inspirò, profondamente, e per la prima volta da molto tempo non provò la necessità di chiudersi.
Si limitò a restare accanto a lei, in silenzio, mentre l’acqua sotto di loro rifletteva la luce di mille piccole stelle.
E in quel silenzio condiviso, senza contatto, senza parole, fece capire a entrambi che la crepa ormai era diventata una breccia.
Notes:
Lo so. Ci aspettavamo tutti che fosse IL momento giusto? E inizialmente lo scrissi proprio con il bacio in questo capitolo. Non mi convinceva peró. Per quanto da entrambi l'intenzione ci sia (palese), non sono esattamente due personaggi che si buttano senza prima pensarci 1000-2000 volte (come altri...cough cough Luffy) e volevo rimanere fedele a questa essenza. Grazie ancora a tutti quelli che stanno leggendo questa storia, ci sono molto affezionata!
Chapter 6: Stay
Summary:
Not really sure how to feel about it
Something in the way you move
Makes me feel like I can't live without you
It takes me all the way
I want you to stay
It's not much of a life you're living
It's not just something you take, it's given
Chapter Text
Il locale che aveva scelto era immerso in una luce calda, quasi artificiale rispetto al verde freddo di Sabaody.
Non era elegante nel senso classico: niente velluti preziosi, nessuna musica sofisticata.
Ma aveva ciò che a Robin interessava davvero: discrezione.
Tavoli bassi, ombre lunghe, il rumore distante delle onde che si infrangevano contro le radici dell’arcipelago.
E quella tenda di tessuto grezzo, a separare il loro angolo dal resto del mondo.
Un rifugio, non tanto per il corpo, quanto per ciò che stava per lasciarsi scappare dalle mani.
Entrò per prima.
Respirò a fondo l’odore di rum speziato, legno vecchio e salsedine.
Era un odore che si infilava nei vestiti, nei capelli, nei ricordi.
Scelse il tavolo più appartato, quasi nascosto, da cui poteva vedere l’ingresso senza essere notata.
Non amava correre rischi inutili.
Non quella sera.
Non con lui.
Si sedette, le mani intrecciate sul tavolo per qualche secondo, poi sciolte con la calma di chi ha imparato a non mostrare mai nulla di involontario.
Non aveva bisogno di chiedersi se sarebbe arrivato.
Law non lasciava in sospeso ciò che decideva di fare.
Eppure il cuore le batteva più in fretta del solito.
Non come in battaglia.
In modo… diverso.
La mente tornò, come un riflesso ineluttabile, alla notte precedente.
A quel quasi-bacio sospeso nel vuoto, alla distanza infinita di pochi centimetri, a quelle parole sussurrate tra loro come un patto tacito:
Per ora.
Uno dei due aveva lasciato una crepa, aveva detto.
Lei aveva sorriso.
Ma da allora, ogni volta che chiudeva gli occhi, si chiedeva quanti pezzi fossero già caduti, senza che nessuno dei due avesse il coraggio di guardarli a terra.
La tenda si mosse appena, smossa da una corrente d’aria.
Robin alzò lo sguardo.
Lo vide.
La sagoma alta di Law, il cappello portato basso sugli occhi, il passo felpato, esaustivamente controllato.
C’era in lui qualcosa di familiarly stancante: quella calma apparente che non ingannava nessuno, se non coloro che volevano essere ingannati.
Portava una bottiglia di qualcosa scuro, due bicchieri che tintinnavano piano tra le dita.
Si fermò un istante a osservare la stanza, poi la vide.
Lo sguardo di chi non è sorpreso.
Lei di certo non si stupì di come lui trovó immediatamente l'angolo dove lei lo stava aspettando.
Robin inarcò leggermente un sopracciglio, un sorriso appena accennato.
«Imparo dai miei errori,» disse lui, posando la bottiglia sul tavolo.
«Molto bene.»
La sua voce era morbida, quasi vellutata, ma dentro sentì un fremito netto.
Lui si accomodò, i gomiti sulle ginocchia, il corpo piegato verso di lei come se ridurre la distanza fosse non una scelta, ma una conseguenza naturale del trovarsi nello stesso spazio.
Le mani aprirono la bottiglia con quella precisione calma, quasi chirurgica, che lo caratterizzava.
«Credevo servisse qualcosa per… allentare la tensione,» mormorò mentre versava il liquido ambrato nei bicchieri.
Robin prese il suo, le dita che sfiorarono le sue per un istante.
«...o complicare le cose» replicò con un sorriso leggero.
I loro occhi si incontrarono sopra il bordo del vetro, e nessuno dei due si affrettò a distoglierli.
Il primo sorso bruciò dolcemente sulla lingua, sciogliendo qualcosa che non aveva ancora osato chiamare.
«Complicare può essere interessante, Nico-ya.»
Quel suffisso, sulle sue labbra, aveva un peso diverso.
Non era un vezzeggiativo.
Era un promemoria: lui sapeva esattamente chi aveva di fronte.
E lei sapeva che lui non era uno dei tanti.
---
Parlarono.
Ma il contenuto della conversazione era solo metà della storia.
Le parole erano frammenti: aneddoti accennati, nomi lasciati a metà, luoghi evocati più dai silenzi che dalle frasi.
Ohara, pronunciata come un’ombra, senza bisogno di dettagli.
Il North Blue, che emergeva nei suoi racconti non quando parlava, ma quando taceva.
Quando lui si lasciò sfuggire un «Cor…», per poi interrompersi all’improvviso serrando la mascella, Robin avvertì un piccolo colpo sordo nel petto.
Era un nome che non aveva bisogno di essere completato per capire che pesava.
Non insistette.
Non era pietà, la sua.
Era rispetto.
Sapeva cosa significasse avere un ricordo che brucia, pronto a incenerire ogni frase di troppo.
Più bevevano, più le barriere tra loro sembravano incrinarsi.
Non come un crollo, ma come quelle sottili crepe nel ghiaccio che si allungano in silenzio.
Sotto il tavolo, il ginocchio di lui sfiorò il suo.
Non fu un contatto accidentale.
Una pressione lenta, sicura, come una domanda senza parole.
Robin non lo ritrasse.
Anzi, inclinò leggermente la gamba, ricambiando quella corrente silenziosa.
Il locale intorno a loro si sfocò.
Le voci degli altri clienti divennero un brusio indistinto, la musica un sottofondo lontano.
C’era solo il tavolo, il bicchiere, il calore della sua mano a pochi centimetri dalla sua.
---
A un certo punto, Robin si rese conto che la sua attenzione non era più sulle parole.
Era sul modo in cui lui la guardava quando non parlava.
Sul modo in cui il suo sguardo le scivolava tra i lineamenti, fermandosi un istante in più del necessario sugli occhi, sulle labbra, sulle mani.
«Parlami di te,» disse lei, rompendo il silenzio con calma. «Ancora.»
Lui abbassò lo sguardo sul bicchiere per un secondo, poi tornò su di lei.
«Non sono bravo con le parole, Nico-ya.»
«Allora dimostralo.»
Non c’era sfida aperta nella sua voce, ma qualcosa di più sottile: un invito a smettere di nascondersi dietro frasi mezze dette, ironia e cautela.
Robin lo fissò, e in quell’istante vide chiaramente la tensione dietro i suoi occhi.
Law era fatto di strati.
Di cicatrici e di logica.
Di sopravvivenza trasformata in filosofia.
E lei stava, deliberatamente, chiedendogli di salire in superficie.
Per un attimo, sentì il vecchio istinto al distacco sollevarsi dentro di sé.
Quella voce razionale che le diceva che stava andando troppo oltre, troppo vicino.
Che lui era un altro capitano, un nemico sotto un certo punto di vista, un rischio.
E poi, come una lama di luce in mezzo a tutto, un ricordo.
Un ponte.
Le catene.
Le urla.
"Io voglio vivere."
Lo aveva gridato quella volta.
Lo aveva gridato a Luffy, ma in realtà lo aveva gridato al mondo intero, e alla parte di sé che aveva smesso di crederci.
Non lo aveva fatto per trovare qualcuno.
Lo aveva fatto per non perdere se stessa.
Vivere significava anche questo.
Sentire il cuore correre, accettare che non tutto fosse prevedibile, che non tutto potesse essere controllato.
Non era solo sopravvivere, non solo adempiere a una funzione nella ciurma.
Era rischiare, anche quando il rischio non aveva un nome preciso.
Era tutto fuorché stupida: sapeva che Law poteva farle male.
Non con un attacco, non con un tradimento.
Ma con l’assenza.
Con la distanza che, prima o poi, avrebbe dovuto tornare a interporre.
Eppure, mentre lo guardava, si rese conto che fra rimandare la ferita e vivere un momento di verità… non voleva più scegliere la fuga.
---
La mano di Law scivolò sulle sue nocche, sfiorandole con un tocco lento, deliberato.
La pelle di Robin reagì come se fosse stata in attesa di quel gesto fin dalla notte precedente.
Il contatto si allungò, si fece presa.
Lui si spostò appena, venendo a sedere accanto a lei.
La tenda li richiuse in un bozzolo caldo, lontano da occhi indiscreti.
Le gambe si sfiorarono, poi si premettero l’una contro l’altra.
«Stai giocando, Nico-ya?» mormorò lui, con un filo di voce che graffiava l’aria.
Robin sorrise.
Un sorriso che prometteva tanto pericolo quanto piacere.
«E se fosse?»
Lui non distolse lo sguardo.
Non sorrise.
Nel buio caldo del loro angolo, il suo sguardo era più onesto di qualsiasi parola.
Il respiro di lui le sfiorò il volto un istante prima che tutto potesse accadere.
La mente le urlò di fermarsi, di ricordarsi chi era, cosa era, cosa aveva già perso.
E poi, di nuovo, quella voce.
Non più urlo, non più disperazione.
Solo una frase calma, incisa in fondo al petto.
Pensó a Luffy stesso. A quanto anche lui l'avrebbe a spinta a seguire ció che la faceva sentire viva.
Non aveva intenzione di rimpiangere quella notte.
Non avrebbe sopportato di ricordarla come il momento in cui si era tirata indietro per paura di farsi male.
Law si avvicinò lei.
Fu una decisione, non un inciampo.
Un movimento lento, consapevole, pieno di tutti gli anni in cui aveva vissuto solo a metà.
E quando le sue labbra incontrarono quelle di lui, non fu un urto violento.
Fu un contatto che sapeva di riconoscimento.
Il bacio la investì come una marea controllata.
Profondo, deciso, ma sorprendentemente misurato, come se lui stesse cercando di assaporare ogni secondo senza lasciarsi sfuggire nulla.
Robin inclinò il capo, permettendogli di entrare davvero.
Sentì le mani di Law stringerle i fianchi: forti, ma non brutali.
Era un possesso che non pretendeva di tenerla, solo di sentirla.
Lei rispose passando le dita tra i suoi capelli, sfilando il cappello e lasciandolo cadere sul divanetto senza curarsene.
I capelli scuri gli caddero sulla fronte, disordinati, e Robin sorrise contro la sua bocca.
Il bacio si fece più profondo.
La lingua di lui sfiorò la sua, e un brivido le corse lungo la schiena, netto, preciso, come una scossa elettrica.
Tutte le volte in cui aveva scelto la razionalità contro il desiderio le sembrarono, per un attimo, lontane e quasi irrilevanti.
Si staccarono solo quando il bisogno d’aria pretese il suo tributo.
Ma i loro volti rimasero vicinissimi, le labbra ancora umide, i respiri che si mescolavano.
Law la guardò, gli occhi scuri che bruciavano di una miscela di desiderio e paura.
«Non doveva succedere così,» mormorò, la voce spezzata, incoerente rispetto alle mani che la tiravano di nuovo a sé.
Robin gli sfiorò le labbra con un sorriso lento.
«Allora smettila.»
Lo baciò ancora.
Più forte, più a fondo.
Non per provocarlo: per dichiarare che la scelta era sua, non del caso, non della debolezza.
Perché rifiutare quel bacio sarebbe stato tradire quel “voglio vivere” che aveva difeso con le unghie e coi denti.
---
Law
Quando aveva scelto di presentarsi quella sera, sapeva già che stava facendo qualcosa che forse non avrebbe dovuto permettersi.
O almeno così aveva deciso di raccontarsela.
In realtà, la verità era più semplice e più brutale:
non sopportava l’idea di non vederla.
Aveva passato la giornata a fingere normalità, a giocare al capitano, al chirurgo, al tattico.
Ma ogni volta che aveva provato a concentrarsi sui piani, sulle rotte, sulle strategie, le immagini che gli tornavano in mente erano sempre le stesse:
Le radici illuminate.
La loro distanza sospesa.
Le sue labbra, a un soffio dalle sue.
E la sensazione fisica, quasi dolorosa, di essersi fermato.
Uno di noi ha lasciato una crepa.
Lo aveva detto con leggerezza, ma dentro di sé aveva sentito il colpo secco.
Perché sapeva che quella crepa non era solo nella sua armatura.
Era nella sua idea di controllo.
Sul ponte del Polar Tang aveva camminato per ore, le mani in tasca, le spalle tese.
Shachi e Penguin avevano provato a parlargli, a scherzare, poi avevano smesso.
Non era nella disposizione giusta.
La verità era che da quando Robin era entrata nella sua orbita, il suo equilibrio interno si era spostato.
Non di molto, ma abbastanza da far scricchiolare i cardini.
Era abituato a perdere persone.
Non era abituato a desiderarne una.
---
Quando entrò nel locale, la vide subito.
Seduta nell’angolo, nascosta e visibile allo stesso tempo.
Come sempre.
Ogni volta che la guardava, aveva l’impressione di osservare un enigma costruito apposta per lui.
Non nell’ego: nella struttura.
Era come se la sua mente fosse programmata per volerla decifrare, e al tempo stesso consapevole che non l’avrebbe mai fatto del tutto.
Portava la bottiglia come un pretesto.
Due bicchieri, quasi un alibi.
Non sono venuto per lei, avrebbe potuto dire. Sono venuto perché…
Non c’era un perché che reggesse.
Quando si sedette e le versò da bere, sentì distintamente il momento in cui la sua maschera scivolava di qualche millimetro.
Non abbastanza da crollare.
Ma abbastanza da permetterle di vedere oltre.
«Credevo servisse qualcosa per… allentare la tensione.»
La frase gli era uscita più vera di quanto volesse.
Quando lei rispose, facendogli notare che potesse anche servire a complicare le cose, si rese conto che non aveva più la forza, o la voglia, di fingere di non volerle complicare.
Durante la conversazione, si trovò a parlare più di quanto avesse previsto.
Non dei dettagli, quelli non li dava a nessuno.
Ma dei vuoti.
Il modo in cui lei pronunciò Ohara, con quel rispetto triste, fece sì che le sue difese vibrassero.
Quando si lasciò sfuggire quel «Cor…», sentì il passato graffiare la gola e si zittì.
Lei non incalzò.
Non cambiò argomento in modo forzato.
Non cercò di consolarlo.
Fu quello, paradossalmente, a metterlo più a nudo di qualsiasi domanda: il suo modo di stare, di ascoltare, di non intervenire dove non era invitata.
Pericolosa, pensò.
Non perché potesse ucciderlo.
Perché poteva comprenderlo.
---
Sotto il tavolo, quando le loro ginocchia si toccarono, fu come spezzare un filo troppo teso.
Non si ritrasse.
Non volle.
Il contatto della sua gamba fu un ancoraggio, non una minaccia.
E Law si rese conto che una parte di lui — quella che aveva seppellito accanto ai ricordi del North Blue — stava rialzando la testa, respirando dopo anni di apnea.
Quando lei gli chiese di parlarle ancora di sé, avvertì il vecchio riflesso del rifiuto.
Non sono bravo con le parole, disse.
Era vero.
Le parole non erano mai state sufficienti a salvare nessuno.
Poi lei rispose:
«Allora dimostralo.»
Non era seduzione.
Non solo, almeno.
Era una richiesta di presenza.
Di essere lì, con lei, intero, senza rifugiarsi nei ruoli che si era cucito addosso.
Le sue dita si mossero quasi da sole, cercando la pelle di lei, il contatto minimo ma reale che gli ricordasse che non stava sognando.
Quando lei inclinò il corpo verso di lui e posò la mano sulla sua coscia, sentì il cuore colpire il petto in modo irregolare.
Non era più questione di controllo.
Non era più questione di logica, di rischi, di tattica.
Era una domanda semplice, cruda, a cui non aveva mai avuto il coraggio di rispondere negli ultimi anni:
Vuoi questo?
Sì.
Con una chiarezza che lo spaventò.
---
Quando lei lo baciò per prima, Law ebbe un attimo di shock interno.
Non lo mostrò, come sempre.
Ma dentro, sentì qualcosa cedere.
Si rese conto che non stava reagendo per impulso.
Non era l’alcol, non era il fascino del proibito.
Era lei.
Punto.
Il gusto del liquido ambrato sulle sue labbra, il calore del suo respiro, il modo in cui non si tratteneva e allo stesso tempo non gli chiedeva più di quanto lui potesse dare.
Era una strana forma di misericordia, nella follia di tutto quello.
Le sue mani trovarono i fianchi di Robin quasi da sole.
La strinse, ma non come si stringe qualcosa per dominarla.
Come si stringe qualcuno che non si vuole perdere.
Quando si staccarono per respirare, Law si sentì come dopo una battaglia.
Stremato, lucido, vivo.
«Non doveva succedere così,» disse.
E appena lo disse, capì che la frase non aveva nessun senso.
Non c’era un “modo giusto” in cui sarebbe dovuto succedere.
C’era solo il fatto che era accaduto, e che lui non aveva fatto nulla per evitarlo.
Quando lei rispose: «Allora smettila,» e lo baciò di nuovo, si arrese.
Non in modo passivo, non come chi subisce.
Si arrese come chi decide, una volta tanto, di non sabotare se stesso.
---
Dopo, quando dovette lasciare il locale, il cappello in mano e il sapore di lei ancora sulle labbra, sentì il peso della scelta.
Non come una condanna.
Piuttosto come un nuovo tipo di responsabilità: quella di non far finta che non fosse successo niente.
Inspirò a fondo.
Il cuore non voleva tornare alla normalità.
E forse, per la prima volta, nemmeno lui.
Pensò alle loro ciurme, ai ruoli che ricoprivano, alla fragilità di qualsiasi legame nel loro mondo.
Pensò al fatto che, molto probabilmente, quella cosa non avrebbe avuto tempo, né spazio, né futuro definito.
Eppure, una frase gli tornò alla mente.
Non sua.
Ma di Robin.
"Io voglio vivere."
Non l’aveva sentita da lei direttamente, ma ne conosceva la storia.
Il suo urlo. La bandiera bruciata.
La scelta di restare, di lottare, di non sparire.
Quella sera, si rese conto che lei stava solo continuando quella scelta.
E lui?
Non lo aveva mai detto a nessuno, ma anche lui, da qualche parte in mezzo alla tragedia del North Blue, aveva promesso la stessa cosa.
Forse in silenzio, forse senza parole.
Ma l’aveva fatto.
Avanzò di qualche passo, poi si fermò, senza girarsi, sapendo che lei era ancora lì, dietro la tenda, con il cuore agitato quanto il suo.
«Non finisce qui,» disse, a voce abbastanza alta da essere sentito, abbastanza bassa da sembrare quasi un pensiero.
Non era una promessa.
Non era una minaccia.
Era un semplice dato di fatto.
Si rimise il cappello.
Riprese a camminare.
Ogni passo lo portava lontano dal locale.
Ma non lontano da lei.
Sapeva, con una chiarezza fredda e tranquilla, che qualunque cosa fosse iniziata quella sera, non si sarebbe lasciata chiudere in una sola notte.
Perché aveva visto il modo in cui lei lo aveva baciato.
E aveva sentito, con terrore e sollievo insieme, il modo in cui lui le aveva risposto.
Non era solo desiderio.
Era una forma di vita che tornava a pulsare in zone che credeva morte.
E quando, molto più tardi, si ritrovò seduto nel suo studio sulla Polar Tang, solo con il rumore dei macchinari e il ricordo delle sue mani, si rese conto di una cosa semplice, innegabile:
Non voleva che lei se ne andasse.
Non ancora.
Non adesso.
In altre parole, anche se non l’avrebbe mai detto ad alta voce, non a lei, non a nessuno, la parola che gli rimaneva in gola era una soltanto:
Rimani.
Notes:
Spero che l'attesa sia valsa la pena per questo capitolo! Finalmente il momento è arrivato 🖤
Tuttavia preparatevi per il successivo perchè non sará altrettanto positivo 🥲
Chapter 7: Broken Bones
Summary:
Ain't got no place to call a home
Only chains and broken bones
Ain't got no place to call a home
So come on, Lord, won′t you take me now?
Chapter Text
Il sole filtrava tra le enormi fronde dei mangrovieti come lame di luce liquida, calando sui ponti sospesi di Sabaody in scie tremolanti.
Robin camminava accanto a Nami, il passo misurato, il viso sereno, la postura impeccabile, un ritratto perfetto di calma.
Dentro, però, tutto era un disordine silenzioso.
La notte precedente le bruciava ancora sulla pelle come una ferita e come un dono. Era bastato un bacio per infrangere ogni equilibrio, per farle provare qualcosa che non si permetteva da anni: vulnerabilità. E desiderio. E soprattutto, qualcosa di molto, molto pericoloso.
Il ricordo delle sue mani.
Del suo respiro.
Del modo in cui Law l’aveva guardata prima di dire quelle parole, “non finisce qui”.
Robin si costrinse a inspirare lentamente, lasciando che l’aria leggermente salmastra le riempisse i polmoni. Aveva bisogno di lucidità. Non di fantasmi della notte che le si attaccavano al cuore.
Sabaody era sempre stato un luogo pericoloso per chi come lei aveva imparato a fuggire. Un arcipelago pieno di povertà e lusso, di schiavitù e ambizione. Oggi, però, la minaccia non veniva dall’isola. Veniva da dentro di lei.
Un mercante chiamò Nami da un banchetto, cercando di venderle bracciali fluorescenti. Nami rise, declinò con un gesto, poi si voltò verso di lei.
"Robin, stai bene? Sembri… lontana."
Robin sorrise. Quel sorriso tranquillo, impeccabile, che aveva salvato la sua vita più volte del necessario.
"Sto bene. Sono solo… pensierosa."
"Su cosa?"
Nami aveva la capacità di centrare il punto senza sforzo, come un dardo lanciato con precisione letale.
Robin non poté rispondere. O meglio, non poté dire la verità. Perché la verità era semplice e inaccettabile: pensava a un uomo che non avrebbe mai dovuto lasciarla toccare. Pensava a un pirata che aveva più ferite nell’anima di quante ne mostrasse sul corpo. Pensava a Trafalgar Law.
E questo la spaventava più di qualsiasi minaccia esterna.
"Sull’atmosfera dell’isola", rispose, placida.
Nami sospirò. "Già. Sabaody mette i brividi."
Camminarono ancora per qualche metro quando una voce stridula li colpì in pieno.
"Aiuto! Aiuto! Hanno preso Camie!"
Il sangue di Robin si gelò.
Camie, la sirena con cui avevano passato ore a ridere la sera precedente, era stata rapita. Robin e Nami si scambiarono uno sguardo immediato, affilato.
E il loro passo si trasformò in una corsa.
La casa d’aste si stagliava davanti a loro come un monumento al peccato.
La folla si accalcava, urlava, rideva. Profumi intensi, sudore, spezie e lacrime di schiavi si mescolavano nell’aria.
Robin sentì il cuore accelerare. Non per il panico, non aveva mai ceduto al panico. Era qualcos’altro. Un’ombra. Un presagio.
Un meccanismo dentro di lei che le diceva: qualcosa sta per spezzarsi.
Si fece strada tra le persone, con Nami al fianco. Non appena entrarono nella sala d’aste, furono investite da un brusio inquietante: sorrisi macchiati d’avidità, monili lucenti, schiavi incatenati come trofei.
Robin si fermò.
Sentì lo stomaco serrarsi.
Ma non per la scena.
Per lui.
Perché lo vide.
Su un lato della sala, non troppo lontano ma abbastanza da essere avvolto da una penombra sottile, Trafalgar Law era appoggiato a una ringhiera, le braccia incrociate, circondato dalla sua ciurma.
Lo sguardo era una lama affilata.
E quella lama era puntata su di lei.
Il mondo fece un singolo passo indietro.
Robin abbassò lo sguardo per un istante, un gesto calcolato. Poi lo rialzò.
E trovò gli occhi di lui ancora lì, ostinati, fermi.
Come la sera precedente.
Come se non fosse passato neanche un minuto da quel bacio.
Non potevano parlare.
Non potevano avvicinarsi.
C’erano troppi sguardi, troppi rischi.
Ma quel secondo bastò.
Per incendiarla.
Per ricordarle tutto quello che stava cercando di dimenticare.
Per farla tremare, invisibilmente, dentro.
Il respiro le sfuggì in un filo impercettibile.
Nami la toccò sul braccio. "Robin, dobbiamo trovarla."
La connessione si spezzò.
Robin annuì.
E il mondo ricominciò a muoversi.
La tensione nella sala era un filo sul punto di spezzarsi. L’asta iniziò, e presto arrivarono grida, urla, proteste. La violenza iniziò a ribollire sotto la pelle dell’ambiente.
Robin percepiva l’istante prima delle tempeste.
E questa stava per esplodere.
Luffy atterrò sulla passerella con un tonfo secco, gli occhi fissi su Camie incatenata al centro del palco.
Un solo istante gli bastò per decidere.
"CAMIE!"
Si lanciò in avanti, pronto a spazzare via chiunque.
Ma una mano enorme lo afferrò per la spalla.
Hatchan.
"Aspetta! Non puoi...!"
Nel bloccarlo, il suo cappello scivolò via, rivelando i tentacoli.
Un mormorio disgustato percorse la platea.
"Un uomo-pesce?!"
Charlos impallidì.
Poi estrasse la pistola.
Lo sparo esplose prima che qualcuno potesse gridare.
Hatchan fu scagliato di lato, il sangue che macchiava il pavimento lucido.
Camie urlò il suo nome.
Robin sentì lo stomaco stringersi.
E allora il mondo si spezzò.
Luffy tremò di rabbia e un’ombra scura gli attraversò lo sguardo.
Fece un passo.
Poi un altro.
Il pugno di Luffy affondò nel volto del Drago Celeste con una violenza così pura da sembrare inevitabile.
Per un istante il mondo si fermò davvero.
Il corpo del nobile volò all’indietro, trascinando con sé spazzatura, sedie, frammenti di dignità inesistente.
Il silenzio che seguì fu irreale. Nessuno osava respirare.
Robin sentì il sangue martellarle alle tempie.
Non erano semplicemente nei guai.
Non avevano infranto una regola.
Luffy aveva appena sferrato un pugno in pieno volto ad uno dei simboli viventi del potere del Governo Mondiale.
Era come se avesse impresso un’enorme X sul loro futuro.
Poi il silenzio esplose.
Urla.
"I Marine!"
"Un Drago Celeste è stato attaccato!"
"Chiamate un Ammiraglio!"
L’aria si riempì di panico e ferro.
Marine armati irruppero da ogni accesso, armi puntate, lacrime di terrore dei nobili, singhiozzi degli schiavi che non sapevano se sperare o disperarsi.
Nami fu la prima a reagire accanto a lei.
"Dobbiamo andarcene, ORA!"
Robin annuì, lo sguardo già che calcolava, valutava, tagliava la scena in traiettorie possibili e impossibili.
Le mani si aprirono lentamente, come petali.
Braccia sbocciarono da schiene ignare, polsi, maniglie, sedie.
Afferrarono armi, deviarono colpi, sbarrarono la strada a chi cercava di raggiungere Nami e la teca in cui ancora era rinchiusa Camie.
Tra la folla, Robin ebbe un lampo di consapevolezza: non stava più combattendo per sopravvivere da sola.
Stava difendendo una famiglia.
Il caos si fece geometrico nella sua mente.
Luffy che si voltava verso la teca urlando il nome di Camie.
Usopp che cercava disperatamente di coprirlo.
Sanji pronto a scattare, Zoro ancora affaticato, ma con la mano già sull’elsa della spada.
Brook che si muoveva leggero tra i corpi, Franky che sollevava barriere improvvisate.
E poi, come una lama nel suo campo visivo, lo vide di nuovo.
Law era sceso dalla ringhiera.
Non era più spettatore.
Aveva tirato fuori la spada, e lo sguardo che Robin gli aveva visto la notte prima, calmo, tagliente, pericolosamente vivo, era di nuovo lì.
Alzò la mano.
"Room."
Robin trattenne il respiro.
Lo spazio attorno a lui si deformò, una cupola invisibile che sembrava piegare la realtà stessa.
Dentro, tutto obbediva a un’unica volontà: la sua. Corpi tagliati e riassemblati come pezzi su un tavolo operatorio, teste separate dal resto eppure coscienti, armi strappate dalle mani, Marine spostati come pedine fuori posizione.
C’era qualcosa di profondamente inquietante e, al tempo stesso, affascinante in quel potere.
Robin sentì un brivido correre lungo la schiena.
Non era solo un alleato momentaneo.
Non era solo un pirata pericoloso.
Era qualcuno che, se avesse voluto, avrebbe potuto cambiare la forma stessa della stanza.
I loro sguardi si incrociarono di nuovo tra un colpo e l’altro, tra braccia di fiori e una lama scintillante.
Non c’era tempo per parlare.
Ma nei suoi occhi, per un istante, Robin colse qualcosa che non era strategia.
Era riconoscimento.
La situazione degenerò con una velocità quasi grottesca.
Rayleigh si tolse il mantello.
Non fu un gesto teatrale, eppure lo fu.
La sua semplice presenza ribaltò di nuovo la scena.
Un attimo prima era un vecchio ubriaco.
Un attimo dopo, l’aria stessa sembrò piegarsi attorno a lui.
Con una sola esplosione di volontà, decine di persone crollarono pronte al suolo, gli occhi riversi, le lingue penzoloni. L’Haki del Re si scatenò sulla sala come un’onda invisibile, lasciando solo chi aveva abbastanza acciaio dentro per restare in piedi.
Robin resistette.
Sentì il cuore stringersi, ma non cedette.
Luffy gridò il nome di Rayleigh.
Rayleigh sorrise, come se tutto ciò non fosse che una seccatura divertente.
Camie venne alla fine liberata.
La teca infranta, le catene spezzate.
"Andiamo!"
"Dobbiamo scappare da qui!"
Gli Straw Hat si gettarono verso l’uscita, trascinando con sé la sirena tremante.
Robin seguì, le braccia ancora pronte a spuntare ovunque servisse.
Dietro di loro, la sala d’aste crollava nel caos definitivo.
In quell’ultimo sguardo, prima di oltrepassare le porte, Robin si voltò un attimo.
Vide Law in mezzo al fumo, circondato dalla sua ciurma e dalle sagome dei Marine.
Il suo sguardo era ancora su di lei.
Un battito di ciglia.
Poi fu fuori.
Sabaody all’esterno era peggio.
Radici gigantesche come colonne, ponti sospesi, gente che correva in tutte le direzioni.
I Marine si riversavano verso il punto dell’incidente come formiche impazzite, le sirene d’allarme risuonavano ovunque.
Luffy correva davanti, con Camie protetta al centro del gruppo.
Usopp ansimava, Brook rideva nervosamente, Franky imprecava.
Nami aveva il viso teso, ma lo sguardo lucido.
"Luffy! Non puoi colpire un Drago Celeste e aspettarti che tutto vada bene!" urlò.
"Non m’importa!" rispose lui, senza voltarsi. "Non potevo lasciarlo così!"
Robin, nonostante tutto, sentì un sorriso inconsapevole sfiorarle l’angolo delle labbra.
Lui era così.
Questo era Luffy.
Ed era per questo che non avrebbe giurato lealtà a nessun altro capitano.
Un boato alle spalle li fece voltare.
La casa d’aste era quasi in fiamme.
Fu allora che lo vide.
Sopra di loro, su una radice più alta, quasi inghiottito da fumo e polvere, Trafalgar Law correva in direzione opposta, insieme alla sua ciurma.
Stava cercando un varco tra i Marine, calcolando una via di fuga.
Si fermò per un istante.
Solo uno.
Il suo sguardo incontrò quello di lei.
Rapido, netto, come un colpo di spada.
Non c’era romanticismo in quel secondo.
Non c’era dolcezza.
C’era qualcosa di più crudele: intenzione.
Robin sentì i polmoni bruciare, ma non interruppe la corsa.
Non potevano fermarsi.
Non lì.
Lui aprì appena le labbra.
Il frastuono era troppo per sentire la sua voce con chiarezza, ma in quell’istante, in mezzo al fragore di Sabaody che crollava, Robin fu certa di aver capito.
Ti troverò.
Un brivido le esplose nel petto.
Non poteva permettersi di credere alle promesse.
Non più.
Eppure quelle due parole si incisero da qualche parte dentro di lei, dove nemmeno la logica poteva arrivare.
L’attimo passò.
Un’esplosione vicino a loro li fece sobbalzare, costringendola a voltarsi e seguire gli altri.
Quando guardò di nuovo verso quella radice, Law non c’era più.
La fuga divenne un incubo.
Pacifista.
La parola stessa sembrava una presa in giro.
Quando il cyborg gigantesco apparve davanti a loro, con il corpo metallico e la faccia identica a quella del leggendario Bartholomew Kuma, Robin sentì chiaramente il respiro di Usopp farsi più corto.
"È… è lui?"
"No" rispose Franky serrando la mascella. "È una copia."
Copia o no, voleva ucciderli.
La battaglia fu brutale.
Ogni colpo che sferzavano sembrava rimbalzare contro un muro.
Le braccia di Robin spuntavano ovunque, cercando di deviare colpi, di bloccare movimenti, di creare aperture. Ma il nemico era costruito per ignorare pietà e logica.
E quando tutto questo non bastò, arrivò il resto.
Un altro Pacifista.
Sentomaru.
E infine, come una condanna di luce, Kizaru.
Il mondo intero sembrò deciso a piombare su di loro.
Robin sentiva il fiato di Nami ansimare alle sue spalle, il peso delle ferite sulla pelle di Zoro, il respiro sempre più affannato di Luffy.
Ogni volta che si voltava, uno dei suoi compagni era più malridotto di prima.
Non possiamo continuare così, pensò.
Non era pessimismo.
Era calcolo puro.
E poi, quando ormai sembrava che non restasse più nulla da tentare, la sentì.
Quella presenza.
Come un’ombra ancora più pesante del caos.
Bartholomew Kuma.
Questa volta, quello vero.
Lo vide avanzare.
Enorme, quasi irreale nella sua tranquillità, il libro stretto in mano, gli occhiali che riflettevano i bagliori degli attacchi di Kizaru e delle esplosioni tutt’intorno.
Robin sentì ogni cellula del suo corpo urlare pericolo.
Non un pericolo qualsiasi.
Un pericolo come quello che aveva visto una volta sola, da bambina, quando il mondo le aveva strappato via tutto.
Il tipo di minaccia contro cui non esistono piani.
Zoro fu il primo a sparire.
Un attimo era lì, ferito, incrollabile come sempre.
L’istante dopo, la mano di Kuma si posò su di lui, e il suo corpo fu spazzato via da un vento impossibile.
"ZORO!"
Le voci della ciurma esplosero all’unisono.
Robin rimase pietrificata per un secondo.
Non era morte.
Non era una ferita.
Era… altro.
Kuma non uccideva.
Li cancellava.
Uno dopo l’altro.
Sanji.
Brook.
Chopper.
Usopp.
La battaglia si frantumò.
Non stavano più combattendo.
Stavano guardando il loro mondo dissolversi.
Luffy urlava i nomi degli amici, la voce spezzata, lo sguardo strabordante di disperazione.
Ogni sparizione gli strappava un pezzo di anima, e Robin lo sentiva fisicamente.
Poi toccò a lei.
Il tempo rallentò.
Robin si voltò, cercando con lo sguardo quello che restava dei suoi compagni.
Vide Nami con le lacrime agli occhi, Franky che tentava ancora disperatamente di attaccare, Luffy che cercava di correre in ogni direzione allo stesso tempo.
Il cuore le si strinse.
Avrebbe voluto correre da lui.
Proteggerlo.
Fare qualcosa, qualsiasi cosa, per impedirgli di spezzarsi.
La mano di Kuma si mosse verso di lei.
In quell’istante, tra il battito del cuore e il rumore dell’aria che veniva compressa, un pensiero si accese di nuovo dentro di lei.
Io voglio vivere.
Lo aveva gridato a Luffy, e Luffy aveva risposto.
Oggi, non c’era nessun urlo.
Solo quella stessa frase, più calma, più consapevole, che le attraversava la mente come un giuramento.
Io voglio vivere… ancora.
Pensò a Luffy.
Pensò al ponte di Enies Lobby.
Pensò alla ciurma che le aveva ridato un posto nel mondo.
E per un solo, brevissimo istante, un’immagine si sovrappose alle altre.
Un cappello bianco macchiato di nero.
Un sorriso accennato.
Le parole che gli aveva letto sulle labbra.
Non sapeva perché, tra tutte le cose, il suo ultimo pensiero lucido dovesse sfiorare proprio quell’istante.
Forse perché quella promessa non mantenuta aveva aperto qualcosa.
Forse perché, in fondo, vivere significava anche questo: accettare che la vita ti leghi a persone che non puoi controllare.
La mano di Kuma le sfiorò il corpo.
La pressione fu impossibile, come se qualcuno avesse compresso l’aria intorno a lei in un singolo punto.
Il suono esplose.
Il mondo si ribaltò.
L’ultima cosa che sentì fu il grido di Luffy.
L’ultima cosa che pensò fu:
Non è finita.
Poi, niente.
Robin sparì.
Law
Il fumo della casa d’aste gli bruciava la gola.
Le urla dei nobili, dei mercanti e dei Marine si fondevano in un unico coro sgraziato, come un mare in tempesta che sbatteva contro le orecchie.
Trafalgar Law uscì da quel groviglio di caos con passo fermo, la spada ancora in mano, il cappello calato sugli occhi.
Aveva visto molti disastri nella sua vita.
Aveva provocato il caos più di una volta.
Ma raramente qualcosa lo aveva colpito come quella scena.
Non per i Marine.
Non per il Drago Celeste steso a terra.
Non per la follia di Cappello di Paglia.
Per lei.
Nico Robin.
Per il modo in cui i suoi occhi avevano cercato i suoi mentre la sala esplodeva intorno a loro.
Per il lampo di qualcosa che non sapeva nominare e non voleva analizzare troppo: una scintilla di riconoscimento, di… continuità.
La notte prima aveva aperto uno spiraglio che Law aveva cercato di ignorare.
Aveva creduto di poterlo chiudere.
Era un illuso.
Perché appena l’aveva rivista, tutto ciò che aveva provato si era ripresentato, moltiplicato.
Desiderio, si.
Ma anche qualcos’altro. Qualcosa che lo irritava profondamente: vulnerabilità.
Non poteva permetterlo.
"Capitano!"
Penguin gli si avvicinò, affannato. "Dobbiamo muoverci! Marine ovunque! Dicono che un Ammiraglio è in arrivo!"
Law si voltò verso la radice gigante su cui si trovavano.
Le urla dei Marine provenivano da ogni direzione. La base era in stato d’allarme.
Il ponticello davanti a loro stava cedendo sotto il peso della folla in fuga.
La voce di Bepo arrivò come sempre un po’ in ritardo:
"Capitano, ci circondano!"
Law inspirò lentamente.
Era calmo. Troppo calmo.
Gli occhi vagarono nella folla un’ultima volta…
E la trovarono.
Robin correva accanto alla ciurma. Nami a fianco, Camie al centro, Franky che apriva la strada. Zoro arrancava, gravemente ferito. Luffy gridava ordini sconclusionati ma pieni di determinazione.
Lei, però, non guardava avanti.
Lei guardava lui.
Per un solo istante, il mondo si ridusse a quel filo teso di sguardi.
Law sentì qualcosa spostarsi dentro il petto, una stretta improvvisa, come se qualcuno gli avesse appena infilato una mano tra le costole.
Si odiò per averlo sentito.
Ma non distolse lo sguardo.
Non poteva.
"Capitano! Se continui a fissarla ci faranno impacchettati come sardine!"
Shachi gli diede una spinta decisa sulla spalla.
Law fece schioccare la lingua e girò la spada tra le dita.
"Room."
La cupola si espanse come un respiro profondo.
Marine, polvere, frammenti di radice: tutto si piegò al suo volere.
Con un gesto rapido, una dozzina di uomini vennero teletrasportati in acqua, altri disarmati, altri ancora spinti contro gli alberi.
"Muoviamoci."
La voce di Law era tagliente.
Mentre correvano tra le radici, il suo cervello lavorava più in fretta di quanto volesse.
Stava tracciando in parallelo due rotte:
Quella logica: uscire da Sabaody senza affrontare un Ammiraglio.
Quella impossibile, irrazionale, trovarla un’altra volta.
Era un errore.
Un errore pericolosissimo.
Ma non riusciva a cancellare la sensazione del suo sguardo sulla pelle.
Quando raggiunsero un’ampia piattaforma naturale sospesa tra le radici, Law frenò all’improvviso.
Davanti a loro, un gruppo di Marine aveva bloccato il ponte.
Dietro, altri stavano arrivando, gridando.
La voce di qualcuno risuonò sulla radice più alta.
“TRAFALGAR! Non vorrai scappare così presto, vero?!”
Eustass Kid.
Ovviamente.
Il rosso calò sul ponte dall’alto come un predatore arrabbiato.
La sua risata tagliò il rumore.
“Un Drago Celeste preso a pugni! Sabaody che esplode! Se non altro” i suoi occhi brillarono” finalmente ci divertiamo.”
Law lo ignorò.
O almeno tentò di farlo.
Un fragore ruppe l’aria.
Cappello di Paglia comparve dall’altro lato del ponte con i suoi.
Il trio era completo.
Kid.
Law.
Luffy.
Tre pirati che non avrebbero mai dovuto combattere insieme.
“Ehi, voi due!” Luffy gridò, già in posizione d’attacco. “Aiutiamoci!”
Kid sputò. “Non ho bisogno di voi.”
Law si passò una mano sul cappello. “Tsk. Idioti rumorosi.”
Ma quando il primo colpo dei Marine arrivò, una raffica di proiettili sparata da tre lati diversi, le parole non contavano più.
Si mossero all’unisono.
Kid attirò metallo come un demone magnetico, creando una barriera d’acciaio.
Luffy rimbalzò davanti a loro, Gomu Gomu no… qualcosa, onestamente lo stava a mala pena ascoltando.
Law alzò la spada.
"Room."
La cupola li avvolse.
I proiettili furono tagliati, spostati, ricomposti a mezz’aria come polvere metallica.
Il mondo sembrò curvarsi intorno a lui.
I tre capitani colpirono insieme.
Per un istante, Law si concesse un frammento di consapevolezza:
Questa scena, tre pirati, tre volontà, tre tendenze suicide, era così assurda che avrebbe potuto persino riderne.
Se non fosse stato per il pensiero fisso nella mente:
Dov’è Robin?
Il combattimento durò minuti, ma sembrarono secondi.
Un’esplosione di tecniche, grida, ferraglia, sangue e risate sfrenate.
Quando il ponte crollò sotto i passi dei Marine, i tre capitani si separarono involontariamente, trascinati in direzioni diverse.
Law finì su una radice secondaria, isolata dal resto.
La sua ciurma lo seguì a fatica.
"Capitano! Dobbiamo andarcene! Prima che arrivi un Ammiraglio!"
La voce di Bepo tremava.
"Lo so."
Law serrò la mascella.
Si voltò un’ultima volta.
E la vide.
Nico Robin stava correndo insieme agli Straw Hat su una radice parallela, più bassa.
I capelli corvini si muovevano come un’ombra viva.
La pelle brillava del sudore e delle schegge di luce riflesse dal caos circostante.
Lei alzò lo sguardo.
Lo trovò.
Non era uno sguardo accidentale.
Era volontario.
Consapevole.
Intenzionale.
Gli occhi di lei, blu e profondi come il mare, si fissarono nei suoi con tanta intensità che per un attimo tutto il rumore sparì.
Non c’era paura in quello sguardo, né sicurezza.
C’erano solo domande e ferite mai completamente chiuse.
E un’emozione che Robin raramente permetteva di vedere: qualcosa simile all’attesa.
Law inspirò a fondo.
Un mormorio improvviso attraversò la folla.
Marine in arrivo.
Shachi gli tirava la giacca.
"Capitano, dobbiamo andare!"
Law rimase fermo un secondo di troppo.
Robin non distolse lo sguardo.
E allora lui capì che, se non avesse detto qualcosa, se non avesse lasciato qualcosa, quella notte sarebbe rimasta sospesa.
Incompleta.
Un errore.
Fece un passo avanti verso il bordo della radice.
La chiamò senza voce.
"Robin."
Lei lo lesse.
Labbra appena schiuse.
Un respiro trattenuto.
Il mondo era tutto rumore, ma tra loro due non c’era suono.
Solo un filo teso.
Law parlò.
Non gridò.
Non serviva.
Con una voce così bassa che sembrò una promessa sussurrata all’orecchio di qualcun altro, disse:
"Ti troverò."
La frase si perse nel caos.
Ma Robin la capì comunque.
Lo vide nei suoi occhi.
Non era una promessa leggera.
Non era poesia.
Era una dichiarazione chirurgica, incisa come una lama sotto la pelle.
Lei non ebbe il tempo di rispondere.
Un’esplosione li separò visivamente.
Bepo lo strattonò.
"Capitano, ORA!"
Law fece un passo indietro, ma non smise di guardarla finché la polvere non lo costrinse a farlo.
Ti troverò.
Era uscito dalla sua bocca senza filtri.
Senza strategia.
E questo lo infastidì.
Troppo.
Scapparono.
Radici, ponti, strutture metalliche, passaggi laterali: Sabaody era un labirinto vivente.
Gli Heart Pirates correvano tra le radici mentre Law manteneva costantemente la Room pronta, tagliando proiettili, deviando attacchi, ingannando i nemici.
Ma qualcosa dentro di lui non si zittiva.
Ogni volta che il rumore diminuiva, anche per un istante, la sua mente tornava a lei.
La notte prima.
Il suo respiro contro il suo.
Il bacio che aveva infranto qualcosa.
Il modo in cui entrambi si erano lasciati andare, senza paura, senza esitazione.
Gli occhi di Robin prima di scomparire tra la folla erano stati un coltello nella carne viva.
Gli Heart Pirates raggiunsero finalmente un canale più libero, una zona senza Marine, una radice che portava verso un’area meno affollata.
Bepo si voltò: "Capitano! Ce l’abbiamo fatta!"
Law si fermò.
Le spalle tese.
La mano sulla spada.
"Non ancora."
Perché qualcosa nell’aria era cambiato.
Non era un Marine.
Era più pesante.
Come un vuoto improvviso.
Law lo sentì prima ancora di girarsi.
Una perdita.
Un taglio.
Come se un’ombra fosse stata cancellata dal mondo.
Girò di scatto la testa.
"Capitano?", chiese Penguin. "Che succ..."
Law vide da lontano, sulla radice parallela, il corpo di Franky scomparire sotto la mano di un gigante.
Poi Brook.
Poi Usopp.
Una figura enorme dominava il campo di battaglia:
Bartholomew Kuma.
Non era il cyborg imitazione.
Era lui.
Il vero Kuma.
Law non riusciva a sentirne l’aura, ma si percepiva comunque la potenza immensa e innaturale.
Una calma spaventosa in mezzo al caos.
E poi lo vide.
Robin.
Era l’unica in piedi insieme a Nami e Luffy, entrambi feriti, esausti, disperati.
Kuma si avvicinò con quella tranquillità che faceva male alle ossa.
Luffy urlò qualcosa, un nome, una supplica, un ordine, ma Kuma non si fermò.
Robin si voltò appena.
Un gesto infinitesimale.
E il cuore di Law si fermò.
Lui non poteva muoversi.
Non poteva aiutarla.
Non aveva un ponte tra loro.
Né spazio, né tempo, né possibilità.
Era un chirurgo, abituato a perdere persone, a vedere la morte da vicino.
Ma questo...
Questo era diverso.
Vide la mano di Kuma sollevarsi.
Vide la pressione dell’aria distorcersi.
Vide Robin fare mezzo passo indietro.
E poi…
L’impossibile.
La figura di lei venne investita da un’onda di nulla.
Il suo corpo scomparve nel vento.
Non sangue.
Non carne.
Come se fosse stata catturata da un pugno di vuoto.
Law fece un passo avanti.
Uno.
Due.
Law non sentì subito la voce di Shachi.
Non sentì nemmeno Bepo che gli si avvicinava piano, come si fa con un ferito.
La sua mente era ancora lì.
A quell’istante.
A quella luce irreale che aveva inghiottito una dopo l’altra le sagome degli Straw Hat.
A quel volto, il suo volto, che si era voltato verso di lui un attimo prima che tutto svanisse.
Un istante.
E poi il nulla.
"Capitano?"
La voce di Bepo era un sussurro teso.
"Dobbiamo andarcene. Subito."
Law annuì. Forse.
Non ricordava di averlo fatto.
Non ricordava molto, a dire il vero.
Solo il vuoto che gli stava scavando dentro come un bisturi.
"Ritirata."
La parola uscì piatta, senza colore, ma la ciurma scattò in movimento.
Obbedirono senza fiatare: non era il momento di fare domande.
Law si voltò, macchina perfetta di sangue freddo.
Ogni muscolo del corpo urlava di restare, di correre verso quel punto, di cercare tra le macerie un segnale, qualsiasi cosa.
Ma un capitano non cede a impulsi.
Un capitano porta a casa la sua gente viva.
E lui?
Lui aveva smesso di essere “solo lui” il momento in cui quelle dita gli erano scivolate via.
Quando raggiunsero una radice più alta, fuori dalla linea del fuoco, Law si fermò un attimo.
Non per riposare.
Per guardare.
Lì, dove un secondo prima c’erano stati Cappello di Paglia, il cacciatore di pirati, la navigatrice… e lei…
ora c’era solo silenzio.
Bepo gli si avvicinò, incerto.
"Capitano… gli Straw Hats... sono...s-sono morti?"
Law non rispose.
Il vento sollevava il bordo del cappello.
La spada gli pesava sulla schiena più del solito.
Law chiuse gli occhi.
Era la sola cosa che potesse fare per non mostrare nulla.
Vedeva ancora Robin in quell’ultimo istante.
Non paura, non panico, solo sorpresa, e qualcosa che lui non avrebbe mai saputo decifrare.
Una donna non scompare così.
Un essere umano non smette di esistere così.
Eppure era successo.
Davanti ai suoi occhi.
"…Sì"
E sentí il bruciore lancinante di una nuova ferita aprirsi ed espandersi.
---
Il Polar Tang lasciò Sabaody nel più totale silenzio.
Il cielo era nero come pece, senza una stella.
La ciurma crollò a dormire ovunque capitasse, sfiniti.
Law rimase sul ponte.
Il mare si muoveva lento.
Regolare.
Indifferente.
Le sue mani tremarono appena, ma fu abbastanza per farlo stringere la ringhiera.
Quelle stesse mani avevano afferrato Robin poche ore prima.
Avevano sfiorato la sua pelle, avuto il privilegio, stupido, immemore, momentaneo, di trattenerla.
E ora… non c’era più nulla da trattenere.
La serrò a pugno.
Poi lo aprì.
Poi lo richiuse.
Un gesto inutile, ma era tutto quello che poteva fare.
Posò la testa contro il metallo freddo.
Un movimento quasi impercettibile, che nessuno vide.
Per un istante, un solo, fugace istante, si permise di sentire la fitta che gli attraversava il petto.
Non dolore fisico.
Quello lo conosceva fin troppo bene.
Era un'altra cosa.
Più sottile.
Più profonda.
Quasi… intollerabile.
E soprattutto inutile.
Non c’era nessuno da salvare.
Non c’era corpo da recuperare.
Non c’era promessa da mantenere.
La frase che aveva pronunciato prima che tutto crollasse...
“Io ti troverò"
Ora non aveva più un bersaglio.
E forse era questo che faceva più male.
Quando la nave virò verso la corrente principale, Law sollevò di nuovo il capo.
La tempesta che aveva dentro non si vedeva in volto.
Non si sarebbe mai vista.
Ma c’era.
E non se ne sarebbe andata presto.
Notes:
Questo capitolo è stato davvero faticoso da scrivere😮💨
Recuperare tutte le informazioni di Sabaody che girano intorno a questa scena (qua e lá ci sono delle "imperfezioni" di canon, me ne rendo conto, ma ho dovuto fare delle modifiche per scorrevolezza) è stato un processo lunghino e descrivere come si possano essere sentiti è stata una sofferenza 💔
Spero vi piaccia! Grazie a tutte le persone che stanno seguendo questa storia e che la supportano con kudos e commenti 🫶Ho messo il totale dei capitoli per ora (20), ma potrei cambiare il numero piú avanti. Si aggireranno intorno a quel numero comunque.

latrie on Chapter 1 Wed 22 Oct 2025 10:20PM UTC
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AnnAndrea on Chapter 6 Mon 17 Nov 2025 03:22PM UTC
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