Chapter Text
— Che giornataccia, ieri… alla faccia della “semplice ricognizione” — farfugliò Connie fra uno sbadiglio e l’altro mentre finiva di rifarsi il letto. — Meno male che oggi ci hanno dato riposo… non mi reggo in piedi.
Jean rispose solo con un’occhiata torva al suo cuscino spiegazzato.
— Vuoi una mano?
— Mh — mugugnò lui, che dopo lo scontro a dir poco fallimentare del giorno prima aveva di nuovo la spalla sinistra fuori uso — grazie.
— Come va oggi?
— Come due settimane fa. — borbottò Jean, piatto — Stufo di stare legato come un salame.
Connie in poche mosse gli ripiegò le coperte e le impilò sul materasso.
— Passerà — provò a incoraggiarlo.
— O forse no — mugugnò lui litigando con la camicia. — Forse se continua a darmi problemi mi dichiareranno inabile al servizio e dovrò andarmene via.
— Che c’è, non la vuoi più una bella casa nel centro di Mitras? — si intromise Eren.
— Non sono affari tuoi, lucertola.
— E allora togliti quel muso lungo da cavallo! Almeno questa volta siamo tutti vivi, no?
— Di sicuro non grazie a te — ringhiò Jean.
Sarebbero finiti ad azzuffarsi come al solito, se Connie non avesse ricacciato Jean sul letto con uno spintone e Armin non avesse deviato il pugno di Eren per poi darsi un gran da fare a persuaderlo che la colazione è sempre cosa più allettante di una rissa, specie prima delle otto di mattina. Jean continuò a guardare Eren in cagnesco finché i due non furono spariti oltre la porta della camerata.
— Non voglio essere riformato. — disse poi a bassa voce, ancora seduto sul letto, fissandosi le punte dei piedi. — Alcuni danni sono reversibili, altri no. Si possono compensare, ma… non tutti ci riescono. — Lei ci sarebbe riuscita di sicuro, pensò amareggiato.
— Di che ti preoccupi? Finché siamo così pochi, continueranno a farci affettare giganti anche senza braccia e senza gambe.
— Sì… ma prima o poi arriveranno nuove reclute. Ci penseranno loro a far fuori gli ultimi giganti e…
— Guardami, zuccone. Tu tornerai in forma perfetta e nessuno si permetterà di mandarti via. Chiaro?
Jean sollevò lo sguardo.
— Altrimenti dovranno vedersela con me! — aggiunse Connie spavaldo, gonfiandosi tutto e alzandosi in punta di piedi.
— Terrificante. — lo apostrofò Jean, ma il sarcasmo gli si incrinò in mezzo ai denti e tradì una risata repressa.
Chiuse l’ultimo bottone, si mise di nuovo il braccio a tracolla, piazzò a Connie una manata sulla nuca, si alzò e filò via. L’amico lo seguì con aria compiaciuta.
***
La porta della camera di Levi era già aperta, quando Hange prima bussò e poi la spinse, insinuandovisi insieme alla densa colata di sonno che ancora la avvolgeva, nonostante il sole fosse sorto ormai da ore.
— Alla buonora, Quattrocchi. Pensavo che i cervelloni alcolisti avessero rapito te e quell’altro genialoide.
— In effetti no, Levi, ma ti ringrazio per la premura.
— Vi ho sentiti rientrare, stanotte.
— Non dormi proprio mai?
— Come no. Dormo sempre, dopo una spedizione.
— Non era una spedizione. Era una ricognizione.
— Ricognizione un cazzo.
— Siete… tutti vivi, no?
Levi si appoggiò di schiena alla finestra e rivolse un’occhiata di sbieco alla base ancora in ombra delle mura.
— Per poco.
Hange spostò il peso da un piede all’altro, incerta se sedersi o rimanere in piedi. Optò per la seconda, un po’ per non violare lo spazio personale di Levi, un po’, e si vergognava a riconoscerlo, per godere della posizione di vantaggio datale dalla statura. Tirò su la cartelletta che aveva sotto il braccio e si curvò a prendere appunti.
— Quanti ne avete incontrati?
— Un quattro, un sette e un anomalo. A fine giro, quasi ai montacarichi.
— Li avete attirati alla ghigliottina?
— No, eravamo dall’altra parte. Li abbiamo abbattuti a mano.
— Difficoltà di manovra 3d?
— Alta. Boscaglia.
— Eren?
— Non ha potuto trasformarsi. È stato messo fuori combattimento prima.
Hange sospirò.
— Sette contro tre… qualche lancia fulmine vi avrebbe fatto comodo.
— Non mi dire.
— Le ho fatte mettere in produzione.
Levi non rispose, ma era chiaro quello che pensava, e Hange era anche piuttosto d’accordo con lui.
— La prossima volta saremo più organizzati. E faremo rifornimento prima della spedizione, non dopo. Questa volta però… era necessario procedere così.
— Necessario per chi, Quattrocchi?
— Era necessario dimostrare che ci sono ancora giganti, là fuori, e che rappresentano ancora una minaccia. Si è sparsa la voce, dopo Shiganshina… che non ce ne fossero più; che tu fossi riuscito a sterminarli tutti.
— E chi è che dice in giro queste stronzate?
Lo sguardo di Levi tradiva un’idea ben precisa su chi fosse il responsabile di quell’indiscrezione.
— Non abbiamo certezze.
— Lo sbatterei fuori anche oggi, quell’imbecille.
— Lo sai che non possiamo. E poi se dalla Guarnigione non sono arrivate segnalazioni di avvistamenti fino a ieri… la gente trae le sue conclusioni; le voci girano.
— E noi per metterle a tacere usiamo i nostri ragazzi come esca. Bel motivo del cazzo.
Hange sentì la pazienza assottigliarsi sempre di più: puntiglio. Puro puntiglio. Perché Levi si ostinava a fingere di non capire i nodi strategici più ovvi? Non l’aveva stabilito lei, che le cose funzionassero in quel modo. Il sonno ormai era un ricordo lontano.
— Servono finanziamenti. Appoggio politico. È sempre da Mitras che dipendiamo.
Levi chiuse gli occhi, rigido.
— Lo so. Lo so, Quattrocchi. Che merda.
Hange annuì e mise via il foglio, avvilita.
— È uno schifo, sì.
— È una merda e non è colpa tua.
Lei alzò lo sguardo e lo osservò. La sua espressione torva si era ammorbidita quel tanto che bastava perché lei potesse notarlo; controluce, i suoi tratti sembravano ancora più cupi ma meno affilati del solito. Hange lasciò che il respiro le aprisse i polmoni.
— Ci sono anche buone notizie, però.
— Siediti. Sul letto no; sulla sedia. — lei obbedì con un mugugno, segretamente divertita. — Tè o erbe?
— Tè, grazie. Forte.
— Vado a scaldare l’acqua. Tu intanto riposati un po’.
***
Per quanto cercasse di scacciare quell’idea, ogni volta che la trappola si richiudeva di scatto sulla nuca di un gigante e lo finiva in pochi secondi Levi non poteva fare a meno di pensare la stessa cosa che Jean, nella palese illusione di non essere udito, brontolava osservando la scena dalla postazione in cima alle mura:
— Lavoro da boia. Lavoro da boia.
Anzi, non era proprio corretto dire che la osservasse, perché il suo sguardo era vitreo, fisso su un punto indefinito della piana sottostante.
— Il piano delle operazioni invernali prevede l’uso di un nuovo macchinario antigigante — aveva annunciato un paio di mesi prima Hange, mentre tutti loro, seduti intorno al tavolo, cercavano di abituarsi all’idea che le riunioni plenarie del Corpo di Ricerca avessero ormai le dimensioni esigue e il tono informale di un briefing di squadra.
— Il macchinario è stato elaborato con la collaborazione di Armin e con il supporto operativo del Genio della Guarnigione. L’idea di partenza è la stessa della ghigliottina che abbiamo qui a Trost: colpire la nuca rapidamente e in modo automatico. Il problema della ghigliottina, lo sappiamo, è che non si può spostare ed è difficile da replicare. Quindi abbiamo pensato a un modello di macchina mobile e meno dispendiosa.
Hange srotolò il progetto e indicò una struttura a torre.
— L’altezza è regolabile direttamente dalle mura in base alle diverse classi di giganti. Questa che vedete in cima — proseguì lei indicando un meccanismo simile a una tagliola che fece illuminare lo sguardo di Sasha — è la trappola vera e propria, fatta dello stesso acciaio delle nostre spade: il gigante cerca di afferrare l’esca, infila braccia e busto qui, la molla scatta e la lama si chiude sulla sua nuca.
Il tavolo fu attraversato da una rete di sguardi interrogativi, tesi e fulminanti come i cavi dei dispositivi di manovra.
— L’esca si posiziona qui — Hange indicò una gabbia dall’aspetto esile inserita all’interno della torretta, giusto al di là delle due branche — ed è protetta da queste sbarre di acciaio antigigante. La struttura è tenuta insieme anche tramite inserti di indurimento — e qui Hange rivolse un’occhiata a Eren — questo la rende sicura.
— Io non ci entrerei, lì dentro — sussurrò Connie all’orecchio di Jean.
Sasha alzò la mano.
— Capos… comandante, sappiamo chi farà da esca?
— Questo è un aspetto ancora da definire.
Mikasa ed Eren cercarono invano lo sguardo di Armin, che si era chiuso fra le spalle e aveva tutta l’aria di chi avrebbe voluto essere inghiottito dalle profondità della Terra.
Levi, che aveva saputo fin dall’inizio dove tutto quel discorso sarebbe andato a parare, si era limitato ad assistere in silenzio, le gambe allungate e incrociate con finta indolenza. Detenuti, ovvio. Sarebbe stata la Gendarmeria a fornire le esche.
E così ora lui, la sua squadra, i suoi ragazzi, appollaiati sulle mura senza colpo ferire, assistevano dall’alto a quelle esecuzioni di giganti, che altro non erano che prigionieri di quella Marley, attratti verso la loro fine da altri prigionieri come loro. Che capolavoro di perfidia.
— Lavoro da boia. Lavoro da boia — continuava a ripetere Jean come una litania. Quando Levi gli si avvicinò, ebbe un piccolo sussulto e si interruppe.
— È vero. Somiglia moltissimo a un’esecuzione.
Jean arrossì dietro il bavero, alzato contro il vento di gennaio. Poi annuì e prese coraggio.
— Sì, Capitano. Continuo a pensarci. Chi sono? Quelli che noi mettiamo dentro a quella gabbia; quelli che loro mandano qui a sbranarci. Chi erano?
Assassini, truffatori, ricettatori, lenoni; infedeli, dissidenti, sovversivi. Spacciatori, prostitute, ladri. Ladri; prostitute; assassini. Assassini. Prostitute. Ladri. Levi non rispose.
— Quelli li mandano qui come giganti — proseguì Jean — e noi per non essere uccisi facciamo il lavoro sporco per loro. Gli stiamo facendo un favore. Stiamo giustiziando gente che potrebbe essere nostra alleata.
— Sono già stati giustiziati nel momento in cui hanno ricevuto l’iniezione. Non possono tutti mangiare qualcuno che abbia il potere dei giganti.
Certo, se avesse rimesso le mani sullo scimmione lo avrebbe volentieri tagliuzzato in mille pezzi e ne avrebbe dato uno a ciascun gigante puro rimasto a circolare sulla faccia della Terra.
— E se ci fosse un altro modo? Forse si potrebbe farli ritornare umani. Umani per davvero, dico.
— Questo non lo sa nessuno. Possiamo soltanto cercare di restare umani noi.
E, possibilmente, vivi.
***
Umani per davvero, rimuginava Armin alcuni metri più in là, sottovento. Seduto sul ciglio del Wall Rose, a gambe penzoloni, si premeva il freddo della lama contro il palmo, finché non si scaldava; poi cambiava mano, in attesa, stando ben attento a non tagliarsi mai. Non adesso. Non ancora. Il bosco in lontananza, spoglio, appariva sempre vacuo e inanimato, salvo il vento che fischiava e si infrangeva sulle mura e qualche sporadico gigante che subito andava a infilarsi, docile, in trappola. Faceva troppo freddo per la neve, e il sole era un inganno cristallino, indifferente al tempo che passava. Ogni giorno era eterno quanto l'istante più effimero, tanto il paesaggio era fisso e immutabile. Sarebbero passati anni, forse, anni da trascorrere così, in silenzio, come un asso sprofondato nella manica: un anno, tre, cinque, undici, finché infine — tredici — il coltello non gli fosse scivolato dalle mani insieme all’ultimo respiro. Umani per davvero: Armin non era sicuro di aver mai capito che cosa significasse; Jean sembrava averlo molto chiaro, invece: beato lui. Lo stesso, rifletté poi voltandosi, poteva dirsi di Eren, che, appostato lì di fianco e pronto ad affondarsi i denti nella carne, passava ogni giorno a smaniare come un cane alla catena, senza che sembrasse mai sfiorarlo un solo dubbio. L’ordine era di non trasformarsi fino a diversa indicazione: semplice, per uno che non fosse lui.
— Ma perché? Che senso ha? — Protestò per l’ennesima volta, furente.
— Devo ricordarti che cosa ti è successo l’ultima volta che sei uscito dalle mura?
— Non ti ci mettere anche tu! Faccia da cavallo non la finisce più di farmela pagare, quella storia.
— Dovreste piantarla di fare i bambini, voi due. Il punto è — e qui Armin prese il tono di chi rispiega per la millesima volta un concetto elementare a un allievo poco attento — che non possiamo rischiare che tu sia rapito di nuovo, o ferito in modo irreparabile. E poi ci serve il tuo indurimento: conserva le energie per quello.
— E tu, allora? Potresti ammazzare quei cosi in un attimo. Perché non te lo lasciano fare?
Armin sospirò.
— Non abbiamo mai sperimentato la mia trasformazione. Non sappiamo ancora come controllarla. Se la eseguissi qui, nella migliore delle ipotesi scateneremmo il panico fra la popolazione. Nella peggiore... non voglio nemmeno pensarci. — Sbarrò gli occhi e tacque per un attimo; poi aggiunse, in un sibilo teso: — Il Colossale è un mostro, Eren.
***
— Mi serve una squadra scelta — esordì Levi atterrando al fianco di Hange sotto a un grosso ciliegio, innevato ma già punteggiato di gemme.
— Ce l’hai già, mi pare.
— Più ristretta. Tre o quattro membri al massimo. Per un giro di pattuglia fuori. Attiriamo un paio di stronzi verso le torri e rientriamo. — Cosa insolita per lui, sembrava irrequieto, e, cosa davvero inaudita, c’era un che di supplichevole nel tono della sua richiesta. Per un attimo Hange se lo immaginò bambino a chiedere di uscire fuori mentre piove, per poi ricordarsi che lui, da bambino, forse la pioggia non l’aveva mai vista.
— Non ce n’è bisogno, Levi. — Gli rispose con un sorriso che sperò non apparisse troppo tenero. — Le trappole stanno funzionando a pieno regime in tutti i distretti. Gli avvistamenti sono in calo costante da mesi: possiamo stimare di aver eliminato almeno tre quarti degli esemplari circolanti fra il Wall Rose e il Wall Maria. Certo, avrei voluto tenerne qualcuno con noi… studiarli… interrogarli… ma gli ordini sono ordini. E poi non volevi evitare di esporre i ragazzi a rischi inutili?
— Ci stiamo intorpidendo, Hange. Siamo chiusi qui dentro da mesi come quei quattro ubriaconi dei cani da guardia.
— Il comandante Pixis e i suoi ci stanno offrendo il massimo supporto possibile. Non avremmo potuto fare nulla di tutto questo senza di loro. — Hange alzò la testa a osservare i ragazzi che volteggiavano su e giù fra i tetti della caserma e la parete, gelata e coperta di muschio, del Wall Rose. — E poi le nostre esercitazioni con i rampini da ghiaccio stanno dando buoni risultati: l'hai detto tu ieri, no?
Levi rimase impassibile in volto, ma le sue dita corsero ad accarezzare i grilletti, gesto in cui Hange aveva da tempo imparato a scovare un segnale di tacita soddisfazione.
— Le lance fulmine sono arrivate — aggiunse. — In primavera riapriremo il reclutamento. Sta andando tutto bene — chiosò. Poi distolse lo sguardo con un moto di fastidio per se stessa: era un’espressione, “tutto bene”, che a Levi non era mai piaciuta; a lei nemmeno.
***
Il reclutamento stava andando a gonfie vele: anche troppo, come non mancava di ribadire Levi ogni volta che dalle vie cittadine si sentiva gracchiare l’annuncio: “Il nemico è al di là del mare. Arruolati nel Corpo di Ricerca e scopri il mondo!” Il nemico è al di là del mare. Eren aveva avuto buon gioco a coniare quello slogan da strapazzo coi piedi a mollo nell’acqua salata e poi a sbandierarlo in conferenza stampa, col risultato che Zackley aveva dato ordine di adottarlo ufficialmente nella nuova campagna di reclutamento.
I trasferimenti dalla Guarnigione e persino dalla Gendarmeria si contavano a decine e per quell’anno il Corpo Reclute di Shadis prometteva già un numero di volontari ben superiore a quello, praticamente nullo, che il recente massacro di Shiganshina avrebbe lasciato prevedere.
Dal finestrone del laboratorio Hange sorvegliava a distanza i nuovi arrivati addestrarsi sotto la supervisione di un insofferente Levi, che a fine turno la raggiunse. Lei era in piedi in mezzo alla stanza e stava osservando, perplessa, un dispositivo di manovra tridimensionale, che aveva smontato pezzo per pezzo e disposto con ordine su un grande telo.
— Qual è il problema, Quattrocchi?
— Mi stavo chiedendo: dall’altra parte del mare ci saranno più giganti o più persone?
— Come se non fossero la stessa cosa. — replicò lui, tagliente.
— Voglio dire che se cambieranno le condizioni, anche il nostro equipaggiamento dovrà farlo.
Levi non rispose e si strinse nel mantello.